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“Frantumare le rotule”. ‘Ndrangheta. Lombardia.

Che guaio può passare un benzinaio del Nord se, per caso, incontra e non esaudisce il desiderio di una cliente, particolare, una donna del Sud: la figlia di una famiglia di ’ndrangheta. Basta, è bastato, non aver dato la disponibilità a pagare col bancomat il rifornimento di carburante al di sotto dei 20 euro. Affronto insostenibile, da pagare col sangue del benzinaio, pur settantenne, e con un certo piacere nel riferirne i particolari. «Lo sgabello era di ferro! Tutte le costole cose… gli ha picchiato un pugno..Gli ha spaccato tutto il naso quel sangue ha sporcato pure noi, io avevo le scarpe piene di sangue».  Scarpe bianche appuntite, contro il costato, la milza, la testa del poveretto.

Le anime nere si muovono a Milano, nell’hinterland, in Lombardia come sulla punta dello stretto più a sud, Vibo Valentia. A colpi di piccone, sgabelli di ferro, calibro nove per «frantumare le rotule», proiettili in busta, auto incendiate. Una violenza che non sempre ha moventi solidi, ma che in quest’ultimo capitolo sulle ‘ndrine in Lombardia, scritto a opera del Ros e della Dda di Milano (tredici arresti tra rappresentanti della famiglia Mancuso, i Galati, e gli uomini della “Locale“ di Mariano Comense di Salvatore Muscatello coinvolti anche in subappalti in Expo) è brutale potere.

Così Luigi Malafonte il 21 settembre 2009 finisce sotto i tacchi di Antonio Galati e Michele Mazzeo (morto poi in un incidente d’auto) – «sembrava un cavallo quel giorno» dirà compiaciuto il suo compare di pestaggio – per aver rifiutato, alla Erg di Cantù, il bancomat per una spesa minima alla figlia, incinta, di Galati, la Rosina. Così un commerciante di autovetture di Cosenza, Isidoro De Ferraris, che azzardò forse a non dare il dovuto a Mazzeo della vendita, verrà inseguito fino a Milano, piazzale Loreto, e massacrato a colpi di manico di piccone dentro e fuori la pizzeria Dinky (11 luglio 2007)«Mannaggia l’ostia quante palate a quello! Dopo è scappato fuori, fuori cadde e picchiavamo tutti e tre lì a terra no? Era morto», dirà il solito Galati. E se non muore, il cosentino, è solo perché Mazzeo ha dato l’ordine di no, «non colpire in testa».

Ma questa ’ndrangheta milanese che non si è ripulita a Milano e le cui gesta tornano nelle intercettazioni alcuni anni dopo, non si ferma di fronte a inchieste, arresti, misure di prevenzione. E arriva fino alla direttrice del carcere di Monza, che nella sala colloqui verrà definita «la padrona di qua». Maria Pitaniello, secondo lo schema che la “colpa“ attribuita non è mai verificata prima di passare a decisioni sommarie, è sospettata dal Fortunato del clan Galati di avere ostacolato la domanda di trasferimento di questi il 6 marzo 2013 da Monza a Lauretana di Borrello, Palmi o Vibo Valentia. In realtà la direttrice ha fatto quel che deve, e il 13 aprile inoltrato l’istanza all’amministrazione penitenziaria. Particolare irrilevante per lo ’ndranghetista, che passerà all’intimidazione, facendo spedire alla funzionaria una busta con tre proiettili. E ancor peggio va al vigile urbano di Giussano, Luigi Galanti, che riconosce Fortunato Galati, in semilibertà con un lavoro fittizio in un posto “di famiglia“ come «La bottega del pane», a forzare un posto di blocco. Il vigile e la sua relazione ai carabinieri vengono collegati al ripristino della misura cautelare («Ti sembra che il vigile non gliel’ha detto ai carabinieri?!»). Sentenza emessa, in immediato, il 18 marzo 2013: e l’auto del ghisa finisce in fumo.

(fonte)