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Gennaio 2015

‘Ndrangheta in Aemilia: “questi voti ti porteranno in cielo”

Antonio Dragone (foto da Il Crotonese)
Antonio Dragone
(foto da Il Crotonese)

Il boss e l’intermediario chiamarono il politico un giorno di tre anni fa, il 21 febbraio 2012. Seduto accanto a Nicolino Sarcone – considerato il capo del gruppo di ‘ndrangheta al centro dell’indagine dei carabinieri, all’epoca già sotto processo per mafia – Alfonso Paolini, cutrese trapiantato in Emilia, telefonò a Giuseppe Pagliani, reggiano e capogruppo del Pdl nel consiglio provinciale. «Io ho una cosa per te e per noi… ci dobbiamo vedere urgentemente – disse Paolini -… Se no qua troviamo un altro cavallo…». Ma Pagliani era la prima scelta: «Vogliamo te». L’invito fu subito accettato e Paolini promise: «I voti ti porteranno in cielo… guarda… però devi essere tu a consigliare e dire quello che bisogna fare».

Poi ci fu una riunione nell’ufficio di Sarcone, dove Pagliani andò «senza farsi scrupolo» di incontrare un imputato di ‘ndrangheta; finché il 21 marzo non fu organizzata una cena allargata con Sarcone, altri imprenditori ora accusati di essere «esponenti di vertice del sodalizio criminoso», Pagliani e altri politici locali. È in quell’occasione, dice adesso il procuratore di Bologna Roberto Alfonso, che «si consacrò e definì l’accordo tra la politica e l’organizzazione mafiosa».

«Vogliono usare il Pdl»

Uscito dal ristorante, poco dopo mezzanotte, Pagliani chiamò la fidanzata Sonia: «Mi hanno raccontato testimonianze pazzesche su tangenti che le cooperative si facevano dare da loro per raccogliere lavori… Ho saputo più cose stasera che in dieci anni di racconti sull’edilizia reggiana! Perché questi sono la memoria dell’edilizia degli ultimi trent’anni… A Reggio han costruito tutto». Poi le raccontò il programma che gli avevano esposto i commensali: «Vogliono usare il Pdl per andare contro la Masini (Sonia Masini, all’epoca presidente della Provincia, ndr ), contro la sinistra, anche per la discriminazione. Dice “fino a ieri noi gli portavamo lavoro, eravamo la ricchezza di Reggio, oggi ci hanno buttati via come se fossimo dei preservativi usati”. Capito amore?». La fidanzata commentò: «Eh, la povera Masini fa meglio a fare le valigie!». E Pagliani: «Adesso gli faccio una cura come Dio comanda!… La curetta giusta».
Gli inquirenti sottolineano che dopo la cena cominciò una «serie di attacchi» contro la presidente della Provincia, in particolare per l’affidamento di un appalto; «tema in sé del tutto lecito – scrive il giudice che ha fatto arrestare l’uomo politico, oggi consigliere comunale – se non fosse che Pagliani lo solleva violentemente con il l ‘arrière pensée ( pensiero segreto, fine recondito ndr ) discendente dalla comunanza di interesse con la cosca del Sarcone». Consapevolmente, secondo i pubblici ministeri antimafia, «una battaglia gestita e voluta da un gruppo di criminali» viene trasformata in «battaglia politica».

Il confino e la faida

Il seguito dell’indagine e l’eventuale processo diranno se questa impostazione, al limite del dimostrabile, è corretta e reggerà al vaglio di altri giudici. Tuttavia il peso della malavita calabrese in questo spicchio di Emilia non è una novità e anzi ha radici antiche, che un politico locale non può non conoscere. Una storia che risale al 1982, quando il tribunale di Catanzaro spedì un bidello della scuola elementare di Cutro al confino nel comune di Quattro Castella, provincia di Reggio Emilia; si chiamava Antonio Dragone ed era il capo della cosca di ‘ndrangheta a Cutro. Prese in affitto una stanza a pensione e cominciò a far salire dalla Calabria parenti, amici e compari, avviando i traffici più disparati, dalla droga alle estorsioni, per poi espandersi agli appalti pubblici. Crebbero gli affari, ma anche i sospetti, che portarono in carcere prima Dragone e poi suo nipote Raffaele, lasciando mano libera a uomini di fiducia che presto si rivelarono concorrenti, come Nicolino Grande Aracri, detto «Mano di gomma». Il quale lentamente conquistò una posizione egemone che divenne incontrastata dopo l’omicidio di Antonio Dragone, assassinato a colpi di kalashnikov e calibro 38 a Cutro, nel maggio 2004. Con quel delitto finì una faida, e mille chilometri più a nord la ‘ndrangheta trapiantata nel cuore dell’Emilia poté riprendere i suoi affari e le sue infiltrazioni nei mondi della politica, dell’imprenditoria, ma anche degli apparati statali e dell’informazione.

Poliziotti amici

Ambienti non più incontaminati da tempo, notano gli inquirenti sottolineando, fra l’altro, rapporti degli affiliati con esponenti delle forze dell’ordine. Per esempio un ispettore di polizia, ora indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, che agevolava pratiche e soffiava informazioni utili; o un agente già autista del questore di Reggio, accusato di minacce a una giornalista perché non si occupasse più di un paio di personaggi.
Insomma, comportamenti abituali nella Calabria in mano alla ‘ndrangheta erano diventati tali anche in Emilia dove, scrivono i pm bolognesi, «si potrebbe dire che gli ‘ndranghetisti raramente fanno la fila». Proprio perché «hanno qualcuno che fissa loro appuntamenti, li “riceve” all’ingresso della Questura, li conduce all’ufficio competente e cura di accelerare la definizione… Sono “solo cortesie”, pensano evidentemente gli uni e gli altri, e si frequentano con molta “normalità”, condividendo momenti di svago (pranzi e cene) e interessi vari (i cavalli)». Come tramite tra ‘ndranghetisti e forze di polizia i pm citano «Alfonso Paolini, che dispone di una agenda di contatti certamente molto estesa ed efficace». È lo stesso che telefonò al consigliere provinciale Pagliai. E il cerchio si chiude.

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‘Ndrangheta: preso (a Roma) Domenico Mollica

E’ stato arrestato il latitante Domenico Antonio Mollica, terzo nella lista del giudice per le indagini preliminari del tribunale di roma a dover finire in carcere per i reati di intestazione fittizia di beni aggravata dal metodo mafioso, commessi per favorire la ‘ndrangheta operante nella capitale per il controllo delle attività illecite sul territorio. Mollica, 47 anni, era sfuggito all’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale lo scorso 9 gennaio quando, nell’ambito dell’operazione “fiore calabro” coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di roma, erano stati arrestati placido scriva e domenico morabito. I poliziotti che bussarono alla sua porta non lo trovarono in casa lo scorso 9 gennaio. la latitanza di mollica è però durata meno di venti giorni. gli agenti della squadra mobile di roma, convinti della presenza di mollica nella sua abitazione, hanno chiesto la collaborazione dei vigili del fuoco per esplorare eventuali intercapedini della palazzina terra- cielo. la presenza di prese d’aria esterne ha indotto gli inquirenti ad abbattere il solaio; al secondo colpo di mazza, dalla soffitta si è sentita una voce dire “scendo, scendo”. L’accesso al sottotetto era camuffato all’interno di un armadio a muro, il cui pannello superiore scorrevole ha rivelato l’esistenza di una botola dalla quale il ricercato, calandosi da una corda attaccata all’architrave del tetto, è uscito. Il sottotetto ha rivelato la presenza di un locale, scaldato dalla canna fumaria, dove era presente un giaciglio, acqua, documenti e un santino ritraente la Madonna di Polsi.

(clic)

Il giornalista (emilianissimo) che aiutava la ‘ndrangheta in diretta da TeleReggio

gibertini-telereggioC’è anche un giornalista coinvolto nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Emilia-Romagna che ha portato all’arresto all’alba del 28 gennaio di 160 persone: Marco Gibertini, non nuovo a guai con la giustizia (qualche mese fa e’ stato arrestato per frode fiscale) e volto noto di TeleReggio.

Per lui l’accusa è concorso esterno in associazione mafiosa e, secondo quanto emerso nel corso delle indagini della dda dell’emilia-romagna, avrebbe dato una mano agli affiliati della cosca emiliana facendoli andare in tv e sui giornali per mettersi in buona luce, soprattutto dopo che erano arrivate numerose misure interdittive antimafia disposte dal prefetto di Reggio Emilia e dopo il polverone che si era sollevato, nell’autunno del 2012, relativamente alla ‘famosa’ cena tra alcuni appartenenti alla cosca e il capogruppo del Pdl, Giuseppe Pagliani (cena in cui furono poste le basi per una campagna pubblica di contrasto all’azione del prefetto).

Gibertini dedicò a questo avvenimento una puntata della trasmissione che conduceva sull’emittente, “Poke balle”, intitolandola “La cena delle beffe”, con lo scopo di dare la parole agli accusati in modo che si potessero difendere. In particolare venne intervistato Gianluigi Sarcone (arrestato oggi per associazione mafiosa). Non solo, Gibertini è accusato anche di aver “messo a disposizione degli affiliati i suoi rapporti politici, imprenditoriali e del mondo della stampa a tutti i livelli”.

Tra le altre cose fece ottenere un articolo e un’intervista sulle pagine del Resto del Carlino a Nicolino Sarcone, pubblicata il 3 febbraio 2013, pochi giorni dopo la sentenza di condanna a otto anni per estorsione e associazione di stampo mafioso, intervista in cui Sarcone si difendeva dicendo che quello dei giudici era un errore.

Gibertini, poi, avrebbe procurato ‘Clienti’ agli affiliati alla cosca ‘ndranghetista facendo loro pubblicità positiva circa la loro attività di recupero crediti: ai suoi conoscenti, Gibertini raccomandava Nicolino Sarcone come “riferimento sicuro e di grande capacità di successo”.
Indirizzò nelle mani della cosca anche diversi imprenditori che sono poi diventati vittime di estorsione da parte del gruppo, “consentendo così il sempre maggior radicamento dell’associazione nel territorio reggiano e la sua espansione in tutta la regione”.

Tra gli arrestati ci sono anche il consigliere comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani (Forza Italia) e importanti imprenditori del settore edile come Giuseppe Iaquinta, padre dell’ex calciatore Vincenzo campione del mondo, e Augusto Bianchini, residente nel Modenese, che ha partecipato agli appalti per la ricostruzione post terremoto in Emilia.

(fonte)

Anche a Modena era un terremoto tutto da ridere

Che il sisma del maggio 2012 sarebbe stato un affare ghiottissimo per le mafie radicate al nord non è una novità. Che come all’Aquila anche in Emilia sul sisma si sarebbe riso al telefono, questo ancora non si poteva immaginare. La conversazione è intercettata martedì 29, il giorno delle due scosse che nella bassa modenese faranno ancora più morti rispetto a nove giorni prima. Al telefono ci sono Gaetano Blasco e Antonio Valerio, entrambi residenti a Reggio Emilia e ora in carcere con la accusa di associazione di stampo mafioso, dopo la maxi operazione della Dda di Bologna, che ha portato agli arresti 117 persone: “È caduto un capannone a Mirandola”, spiega Blasco. Antonio Valerio, ridendo, risponde: “Eh, allora lavoriamo là”. Blasco risponde: “Ah sì, cominciamo, facciamo il giro”.

Il dialogo captato dai carabinieri di Modena è solo un dettaglio della strategia di infiltrazione che da quel momento in poi la associazione mafiosa, proiezione delle ‘ndrine calabresi della cittadina di Cutro, perseguiva. Almeno fino a oggi quando è stata smantellata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna. Una strategia di infiltrazione nei lavori di ricostruzione in cui secondo l’inchiesta dei magistrati di Bologna, è coinvolta anche la casa madre calabrese che fa capo a Nicolino Grande Aracri da tempo in carcere. Ma in cui vengono coinvolte anche le imprese edili più importanti del territorio emiliano. Come la Bianchini Costruzioni. Il numero uno della ditta di famiglia, Augusto, è finito in carcere con la accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo quanto scritto dal giudice gip Alberto Ziroldi nella sua ordinanza, la figura di Bianchini era per la associazione criminale da tenere in considerazione, visti i suoi rapporti privilegiati con il potente mondo cooperativo emiliano e con alcuni funzionari delle amministrazioni locali.

Bianchini, anche durante i primissimi mesi in cui si organizza la ricostruzione ha contatti continui con Michele Bolognino, nato a Locri 38 anni fa, e considerato dal pubblico ministero Marco Mescolini e dal procuratore capo Roberto Alfonso, uno dei promotori della’ndrangheta di derivazione cutrese nella zona di Parma e della Bassa Reggiana. Secondo l’accusa, Bianchini consentiva ai membri dell’associazione mafiosa di gestire i lavori ottenuti in appalto dalla sua ditta e che riguardavano soprattutto lo smaltimento delle macerie e in alcuni casi, lavori di ricostruzione. Bolognino, è questa la ricostruzione degli inquirenti, reperiva in Emilia gli operai (principalmente da imprenditori calabresi trapiantati al nord) affinché Bianchini potesse stare dietro ai molti cantieri che riusciva a ottenere. Secondo l’accusa inoltre il meccanismo di retribuzione degli operai inviati da Bolognino a Bianchini, basato su un sistema di false fatturazioni, costituiva un ulteriore vantaggio per Bianchini. Bolognino a sua volta, è la tesi dei pm, tratteneva per sé una parte delle spettanze e infine, collaborando con Bianchini, favoriva l’infiltrazione della sua consorteria mafiosa nel circuito dei lavori pubblici.

Quando a un anno dal sisma, giugno 2013, la prefettura di Modena escluderà la Bianchini Costruzioni dalla White list delle aziende che potevano ottenere appalti pubblici per la ricostruzione nell’Emilia terremotata, la famiglia Bianchini prova a correre ai ripari. Ma secondo l’accusa in maniera illecita. Già a luglio il figlio di Augusto, Alessandro, ora agli arresti domiciliari, apre una nuova ditta. E ottiene da un funzionario responsabile dei lavori pubblici del comune di Finale Emilia, Giulio Gerrini (già sospettato di avere avvantaggiato illegittimamente la Bianchini Costruzioni), un appalto per la rimozione delle macerie del castello della cittadina. Uno dei simboli della distruzione del sisma. Quel funzionario, Giulio Gerrini, è ora ai domiciliari, come Alessandro Bianchini, con l’accusa di concorso in abuso d’ufficio.

Nel post terremoto non ci sono solo edifici pericolanti da abbattere. C’è anche il grande affare delle scuole temporanee. Il sisma arriva all’inizio dell’estate, e una delle promesse del commissario per la ricostruzione Vasco Errani è proprio la regolare riapertura delle scuole a settembre. Bianchini Costruzioni ha lavori in tutto il cosiddetto cratere del terremoto: Mirandola, Finale Emilia, Reggiolo, Concordia. E secondo la ricostruzione dei magistrati di Bologna, attraverso gli operai mandati da Michele Bolognino la ’ndrangheta ha lavorato anche in quelle scuole.

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Operazione Aemilia: i nomi e i cognomi

I numeri saltano subito all’occhio: 160 arresti in tutta Italia e duecento indagati. 117 sono gli ordini d’arresto emessi della procura di Bologna, di cui sette al momento non sono stati eseguiti per l’irreperibilità di alcuni degli indagati. L’indagine è condotta dalla procura distrettuale antimafia di Bologna che ha ottenuto dal gip del Tribunale le 117 custodie cautelari in Emilia, ma anche Lombardia, Piemonte, Veneto, Sicilia. Contestualmente si stanno muovendo le procure di Catanzaro e Brescia che hanno emesso 46 provvedimenti.

L’operazione “Aemilia” ha coinvolto sia gli affiliati alle cosche della ‘ndrangheta, in particolare al clan Grande Aracri di Cutro, presente da decenni in regione, politici locali, un tecnico del comune di Finale Emilia, imprenditori e un giornalista. Finiti nell’ordinanza anche Ernesto e Domenico Grande Aracri, i fratelli del boss già detenuto Nicolino Grande Aracri, alias “Mano di gomma”. Domenico è un avvocato penalista, ed è stato arrestato su disposizione della direzione distrettuale antimafia di Bologna.

L’operazione si è concentrata soprattutto nelle province di Modena e Reggio Emilia. Tra gli arrestati l’imprenditore Augusto Bianchini, titolare dell’omonima Bianchini costruzioni oltre a un tecnico del Comune di Finale Emilia. Bianchini è uno degli imprenditori più impegnati nella ricostruzione nel cratere sismico a cavallo tra il 2012 e 2013. Proprio nel 2013 compare nelle cronache a causa di una interdicevi della Prefettura che escludeva la sua società dalle “White List”, le cosiddette liste pulite per gli appalti. Sotto la lente d’ingrandimento finirono i legami di alcuni dipendenti con figure malavitose riconducibili alla ‘ndrangheta, ma anche la gestione di alcuni appalti e lo smaltimento di rifiuti contenenti amianto.

Tra gli imprenditori del settore edile coinvolti nell’indagine Aemilia anche Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore Vincenzo, arrestato nel reggiano.

Spicca tra i fermi il nome del consigliere comunale di Forza Italia Giuseppe Pagliani, consigliere comunale a Reggio Emilia, che, rivelano le indagini, con Nicolino Sarcone, «referente della cosca a Reggio Emilia e comuni limitrofi», si sedeva attorno a un tavolo proprio con alcuni esponenti dei Grande Aracri.

area 'ndrangheta emilia

Fonte: Direzione Nazionale Antimafia

Sulle elezioni, fanno sapere gli inquirenti, sono stati svolti accertamenti e si intersecano in qualche modo con le indagini le tornate elettorali di Parma (2012), Salsomaggiore (2006), Brescello e Bibbiano (2009), su cui sono ancora in corso le verifiche degli investigatori per alcune sospette condizionamenti dei clan. Tra gli indagati figura anche il sindaco di Mantova Nicola Sodano.

Nell’ambito dell’inchiesta, coordinata dallo stesso Procuratore Nazionale antimafia Franco Roberti, sono stati sequestrati beni per circa 100milioni di euro. Nel corso dell’inchiesta è stato sentito anche l’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia dal 2004 al 2013, tra i protagonisti di un “pellegrinaggio” che ha fatto rizzare le antenne alla procura antimafia di Bologna. Riportava l’Espresso lo scorso 2 dicembre: una festa religiosa che gli sta creando più di un imbarazzo politico: la processione del Santissimo crocifisso a Cutro, provincia di Crotone. Un rito avvenuto nel pieno della campagna elettorale del 2009 quando l’allora sindaco di Reggio Emilia correva per un nuovo mandato. In città e in tutto il circondario la comunità d’origine cutrese è talmente numerosa da pesare anche alle urne e quella spedizione in Calabria poteva avere un impatto nel voto. Delrio, all’epoca numero due dell’Anci, non è stato il solo a impegnarsi in questa trasferta: tutti gli altri candidati della zona hanno deciso di presentarsi al cospetto del Santissimo.

Ma in certe terre i simboli contano più delle parole: la processione dei primi cittadini emiliani è stata interpretata come un segno tangibile di riconoscenza da tutta la comunità calabrese. Anche da quelle persone che in Emilia alimentano i peggiori traffici. La questione è finita all’attenzione della procura antimafia di Bologna, che ha convocato come testimoni gli illustri partecipanti. Anche Delrio è stato sentito come “persona informata dei fatti”.

Ma la holding del crimine che risponde al nome di ‘ndrangheta non è una novità in terra emiliana. Tutt’altro: basti pensare che le indagini odierne si basano storicamente su risultanze di operazioni avvenute a cavallo tra il 2002 e il 2007, e che l’affondamento delle radici del clan Grande Aracri avviene nei primi anni ’80, quando in soggiorno obbligato da Cutro arriva Francesco Grande Aracri dalla città di Dragone.

Negli anni le cosche, non solo calabresi, ma anche il clan dei casalesi, sono entrate nel tessuto economico, sociale e politico, avvalendosi anche della vicinanza con San Marino. Roberto Pennisi, consigliere della Direzione Nazionale Antimafia, e presente nella conferenza stampa di oggi (28 gennaio), ha scritto nella sua relazione alla Direzione «in particolare le Province di Modena, Parma, Piacenza e Reggio Emilia si indicavano come contrassegnate dalla presenza di criminalità organizzata soprattutto di marca ‘ndranghetista, mentre la città di Bologna si definiva una terra di tutti e, pertanto, non catalogabile secondo nessun attributo criminale, non potendosene alcuna specifica organizzazione di tipo mafioso arrogare il dominio».

«Infiltrazione – spiegava Pennisi – che ha riguardato, più che il territorio in quanto tale con una occupazione “militare”, i cittadini e le loro menti;; con un condizionamento, quindi, ancor più grave. Sì che non inutile sarebbe una maggiore cautela nel disapprovare provvedimenti di organi amministrativi dello Stato, peraltro sottoposti ai controlli giurisdizionali previsti dalla legge, con censure che creano disorientamento nella collettività e che, certo, non concorrono alla formazione di un sentimento dei cittadini in termini di repulsione delle infiltrazioni mafiose anche quando queste appaiono dotate di appeal. In altre parole concorrendo a determinare la erosione della legalità a tutto favore della logica del profitto».

Senza dimenticare che tre anni fa il comune modenese di Serramazzoni, amministrato dal Pd, arrivò allo scioglimento con il provvedimento dell’allora ministro dell’Interno Cancellieri. Anche qui l’operazione “Parola d’Onore” portò a galla storie di appalti e contiguita con esponenti delle famiglie calabresi in particolare con Rocco Antonio Bagli, indicato nei rapporti dei carabinieri vicino alla ‘ndrina Longo Versace e referente delle cosche operanti nel modenese. Negli anni Novanta, Baglio fu arrestato per un arsenale sequestrato e poi ebbe guai per la bancarotta fraudolenta di una sua società, Mida’s. I finanzieri durante l’inchiesta ripresero alcuni incontri tra Baglio e l’ormai ex sindaco di Serramazzoni Luigi Ralenti, a giudizio per corruzione e turbativa d’asta.

i nomi degli indagati:

Giuseppe Aiello di Crotone
Lauro Alleluia di Afragola (Napoli)
Giuseppe Aloi di Schwerte (Germania)
Alfredo Amato di Palmi
Domenico Amato di Taurianova
Francesco Amato di Rosarno
Davide Arabia di Crotone
Rosario Arcuri di Cutro
Carmine Arena di Crotone
Karima Baachaoui nata in Tunisia
Moncef Baachaoui nato in Tunisia
Pasquale Battaglia di Crotone
Carmine Belfiore di Cutro
Francesco Belfiore di Cutro
Giuseppe Belfiore di Gioiosa Ionica
Giovanni Paolo Bernini di Parma
Erika Bertocco di Torino
Alessandro Bianchini di Mirandola
Augusto Biachini di San Felice Sul Panaro
Corrado Bidin di Latisana
Andrea Bighignoli di Negrar
Antonio Blasco nato in Germania
Gaetano Blaso di Crotone
Domenico Bolognino di Locri
Michele Bolognino di Locri
Sergio Bolognino di Locri
Andrea Bonazzi di Mantova
Maurizio Bosi di Livorno
Bruna Braga di Mirandola
Tiziano Braulli di Reggio Emilia
Pasquale Brescia di Crotone
Luigi Brugnano di Crotone
Marco Busia di Isola Capo Rizzuto
Salvatore Buttiglieri di Gioiosa Ionica
Salvatore Caccia di Cutro
Mario Calesse di Sant’Eufemia
Mario Cannizzo di Palagonia
Salvatore Cappa di Cutro
Gaetano Caputo di Melissa
Maurizio Cavedo di Cremona
Donato Agostino Clausi di Crotone
Michele Colacino di Crotone
Salvatore Colacino di Suzzara
Omar Costi di Reggio Emilia
Antonio Crivaro di Cutro
Deborah Croci di Castelnovo Nè Monti
Gianluca Grugliano di Varese
Domenico Curcio di Crotone
Giuseppe Curcio di Cutro
Maria Curcio di Crotone
Elvezio Dattoli di Rocca Di Neto
Giuliano Debbi di Sassuolo
Raffaele Della Bella di Afragola
Francesco Di Via di Trapani
Alfonso Diletto di Cutro
Billbill Elezaj di Kukes (Albania)
Francesco Falbo di Cutro
Rosario Falzetti di Cutro
Aldo Pietro Ferrari di Follo
Vincenzo Ferrari di Palmi
Gabriele Ferri Bernardini di Pietrasanta
Francesco Florio di Locri
Antonio Floro Vito di Crotone
Gianni Floro Vito di Crotone
Giuliano Floro Vito di Cutro
Giuseppina Floro Vito di Crotone
Selvino Floro Vito di Crotone
Francesco Formentini di Reggio Emilia
Antonio Frizzale di Manfredonia
Alfonso Frontera di Cutro
Francesco Frontera di Crotone
Giovanni Gangi di Crotone
Domenico Gentile di Milano
Gennaro Gerace di Dernbach (Germania)
Salvatore Gerace di Cutro
Gino Gibertini di Modena
Marco Gibertini di Modena
Antonio Giglio di Crotone
Giulio Giglio di Crotone
Giuseppe Giglio di Crotone
Nicolino Grande Aracri di Cutro
Domenico Grance Aracri di Cutro
Salvatore Grossetti di Cutro
Rita Gruzza di Vigatto
Antonio Gualtieri di Cutro
Francesco Gullà di Isola capo Rizzuto
Giuseppe Iaquinta di Cutro
Francesco Lamanna di Cutro
Francesco Lepera di Catanzaro
Franmcesco Lerose di Cremona
Salvatore Lerose di Cutro
Francesco Lomonaco di Crotone
Sergio Lonetti di Melissa
Giuseppe Loprete di Mesoraca
Francesco Macrì di Crotone
Giuseppe Macrì di Crotone
Vincenzo Mancuso di Cutro
Francesco Manfreda di Fuerth (Germania)
Giuseppe Manica di Crotone
Giuseppe Manzoni di Roccanova
Alfonso Martinmo di Crotone
Domenico Mattace di Cutro
Alfonso Mendicino di Crotone
Luigi Mercadante di Cutro
Domenico Mesiano di Catanzaro
Vincenzo Migale di Cutro
Antonio Molinari di Mesoraca
Vittorio Mormile di Sant’Arpino
Antonio Muto di Crotone cl. 71
Antonio Muto di Crotone cl. 78
Antonio Muto di Cutro cl. 55
Cesare Muto di Crotone
Giulio Muto di Crotone
Luigi Muto di Crotone
Salvatore MUto di Crotone
Barbara Nigro di Scandiano
Salvatore Olivo di Crotone
Giuseppe Domenico Oppedisano di Gioiosa Ionica
Gaetano Oppido di Crotone
Raffaele Oppido di Cutro
Giuseppe Pagniani di Reggio Emilia
Alessandro Palermo di Roma
Giuseppe Pallone di Cutro
Alfonso Paolini di Cutro
Francesco Pio Passiatore di Taranto
Francesco Pelaggi di Crotone
Paolo Pelaggi di Crotone
Francesco Pellegri di Tizzano Val Parma
Sergio Pezzati di Wetzikom (Svizzera)
Giuseppe Pichierri di Matera
Anna Pieron nata in Polonia
Giovanni Procopio di Crotone
Salvatore Procopio di Crotone
Iana Rezepova nata in Russia
Giuseppe Richichi di Crotone
Francesco Riillo di Isola Capo Rizzuto
Pasquale Riillo di Isola Capo Rizzuto
Antonio Rocca di Virgilio
Luca Rossi di Gazoldo degli Ippoliti
Giuseppe Ruggero di Cutro
Mirco Salsi di Reggio Emilia
Michael Stanley Salwach nato in Pennsylvania (Usa)
Gianluigi Sarcone di Cutro
Nicolino Sarcone di Cutro
Graziano Schirone di Manduria
Domenico Scida di Crotone
Francesco Scida di Crotone
Giuseppe Scordo di Catania
Antonio Scozzafava di Catanzaro
Eugenio Sergio di Cutro
Luigi Serio di Isola Capo Rizzuto
Salvatore Sestito di Crotone
Giovanni Sicilia di Crotone
Antonio Silipo di Cutro
Francesco Silipo di Reggio Emilia
Luigi Silipo di Cutro
Salvatore Silipo di Cutro
Fulvio Stefanelli di Bologna
Giovanni Summo di Ostuni
Jianyao Tang nato a Zhejiang (Cina)
Roberta Tattini di Bologna
Rocco Tedesco di Palmi
Giovanni Tirotta di Cutro
Michele Tostoni di San Giovanni Rotondo
Roberto Turrà di Cutro
Mario Ursini di Gioiosa Ionica
olmes vaccari di Nonantola
Antonio Valerio di Cutro
Gabriele Valerioti di Cinquefrondi
Daniela Vecchi di Poviglio
Giuseppe Vertinelli di Cutro
Palmo vertinelli di Cutro
Pasquale Vetere di Cutro
Pierino vetere di Cutro
Rosario Vetere di Cutro
Giuseppe Villirillo di Cutro
Romolo Villirillo di Crotone
Francesco Viti di Messina
Mario Vulcano di Rocca Di Neto
Valter Zangari di Crotone
Jianyong Zhang nato in Cina
Salvatore Brugnano di Crotone
Gaetano Cavallo di Crotone
Antonio Cianflone di catanzaro
Giuseppe Codamo di Crotone
Debora Costa di Reggio Emilia
Salvatore D’Angelo di Wipperfurth (Germania)
Luigi Esposito di Nola
Elia Gaglione di Torino
Giulio Gerrini di Bologna
Stefano Laera di Isola Capo Rizzuto
Gennaro Lonetti di Cariati
Alessandro Lupezza di Pavia
Francesco Matacera di Santa Caterina dello Ionio
kostantinos Minelli nato a Golos (Grecia)
Massimo Muratori di Modena
Antonio Nicastro di Crotone
Francesco Procopio di Cariati
Alberto Maria Ranieri di Crotone
Domenico Salpietro di Messina
Quintino Sanarica di Grottaglie
Filippo sirianni di Isola Capo Rizzuto
Tatjana Tihamirova nata in Lettonia

(fonte)

Nessuno ne parla ma un ex (vice)presidente del Senato sbuca in un’inchiesta che scotta

NaniaE alla fine il pentito Carmelo D’Amico ha fatto il nome di Mister X: si tratta dell’ex vicepresidente del Senato Domenico Nania, già sottosegretario alle Infrastrutture, ex An, poi Pdl. Per il nuovo collaboratore, è lui il ”personaggio potente e misterioso”, ma soprattutto interno alle istituzioni, che avrebbe guidato una loggia massonica occulta, attiva tra la Sicilia e la Calabria, capace di condizionare le trame della politica e dei grandi affari, senza essere mai stato sfiorato dalle indagini.

Il nome di Nania, coperto dagli omissis, era già contenuto in due verbali depositati nei giorni scorsi, ma stamane in aula davanti alla Corte d’appello di Messina che processa l’avvocato Rosario Pio Cattafi, condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa, D’Amico per la prima volta lo ha accusato pubblicamente, facendo esplodere una vera e propria bomba nella palude di Barcellona Pozzo di Gotto, ma anche nei salotti buoni della provincia messinese, crocevia di molteplici interessi criminali finora sempre protetti da una granitica omertà.

Le accuse di D’Amico

Nei suoi verbali, il neo-pentito aveva raccontato: ”Sam Di Salvo (boss  italo-canadese condannato per associazione mafiosa, come uno dei capi del clan barcellonese, ndr) mi disse che Cattafi apparteneva, insieme a Nania, ad una loggia massonica occulta, di grandi dimensioni, che abbracciava le regioni della Sicilia e della Calabria. Sempre Di Salvo mi disse che Saro Cattafiinsieme al Nania erano fra i massimi responsabili di quella loggia massonica occulta”.

Ma non solo. Ai pm della Dda di Messina Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio, il pentito D’Amico aveva fatto anche un altro nome: quello di Giuseppe Gullotti, boss e mandante dell’uccisione del giornalista Beppe Alfano, nonché consegnatario (secondo il pentito Giovanni Brusca) del telecomando che nel ’92 servì ai corleonesi per commettere la strage di Capaci. ”Sam Di Salvo mi disse – racconta ancora D’Amico – che il Nania che apparteneva a questa loggia massonica, era un amico di Gullotti ma non in senso mafioso. Era cioè un conoscente di Gullotti ma non un soggetto organico della famiglia barcellonese; ciò a differenza di Cattafi. Aggiungo che Nania era un amico di Marchetta”.

A Barcellona, Maurizio Marchetta è un personaggio conosciutissimo. Architetto e titolare di un’impresa di costruzioni, dall’inizio del Duemila ha ricoperto la carica di vicepresidente del Consiglio comunale, quota An, sotto l’ala protettiva di Maurizio Gasparri. Nel 2003 fu coinvolto nell’indagine denominata “Omega”, per concorso in mafia, inchiesta poi archiviata dalla procura di Barcellona. Nel 2009 si trasformò in un ”dichiarante”, provocando l’apertura dell’indagine ”Sistema” e facendo rivelazioni sulla presunta loggia massonica ”Ausonia” che, secondo le sue accuse, Sarebbe stata coinvolta in un sistema di controllo di tutti gli affari pubblici. Marchetta denunciò anche di essere vittima di estorsioni commesse, tra l’altro, dagli uomini d’onore Carmelo Bisognano e dallo stesso Carmelo D’Amico, entrambi oggi pentiti. Le accuse di estorsione nei confronti dei mafiosi, confluirono in un processo denominato ”Sistema”, concluso in primo grado con le condanne degli imputati, poi assolti dalla Corte d’Appello di Messina in seguito alla collaborazione di Bisognano. Quest’ultimo dichiarò che Marchetta era associato al clan e che mai era stato vittima di estorsioni.

Nania, il Mister X e la ”Corda Fratres”

Ma chi è Domenico Nania? 64 anni, avvocato civilista, negli anni Settanta dirigente del Fuan, viene eletto deputato per la prima volta nell ’87 nelle file del Msi. Riconfermato nel ’92 e nel ’94, diventa sottosegretario ai Lavori Pubblici nel primo governo Berlusconi. E’ vice-capogruppo alla Camera di An tra il ’96 e il 2001, quando trasloca al Senato. Nel 2008 confluisce insieme a tutto il gruppo di Fini nel Pdl e viene eletto vice-presidente di Renato Schifani alla guida di Palazzo Madama. Arrestato a 18 anni e condannato in via definitiva a 7 mesi per lesioni, in seguito a scontri tra studenti per motivi ideologici, nel 2004 viene condannato in primo grado per abusi edilizi nella sua casa di Barcellona Pozzo di Gotto, sentenza poi annullata senza rinvio dalla corte di Cassazione.

Negli anni passati i nomi di Nania, Gullotti e Cattafi, ma anche quello del pg Franco Cassataerano saltati fuori dagli elenchi degli iscritti all’associazione culturale ”Corda fratres” spesso assimilata ad una vera e propria lobby di potere a Barcellona Pozzo di Gotto. Oltre a Nania, all’associazione risultano appartenere il cugino, l’ex sindaco barcellonese Candeloro Nania, ma anche l’ex di Pg di Messina oggi in pensione Franco Cassata e l’ex presidente della Provincia di Messina, Giuseppe Buzzanca. Una iscrizione che queste alte autorità dividono con due boss di prima grandezza: il primo è Gullotti, la persona che, secondo i magistrati, ha ordinato di uccidere il giornalista Beppe Alfano e ha consegnato il telecomando della strage di Capaci a Giovanni Brusca; il secondo è Cattafi, indicato come l’anello di congiunzione fra Cosa nostra, la massoneria e i servizi segreti deviati.

D’Amico ha parlato di 45 omicidi, a molti dei quali avrebbe partecipato in prima persona, ma anche dell’uccisione di Alfano e dell’esecuzione dell’editore Antonio Mazza, autoaccusandosi di quest’ultimo delitto, e, a quanto pare, contraddicendo addirittura la sentenza della Corte di Cassazione, che ha indicato Antonino Merlino quale killer del giornalista. Ma la parte più ”blindata” delle dichiarazioni del pentito barcellonese riguarderebbe proprio il patto tra mafia e massoneria, con tutte le coperture istituzionali fornite al sistema criminale, che finora è stato solo sfiorato dalle indagini.

#paesechecambia A Corleone un imprenditore ammette il pizzo: quattro boss in manette

Ciro Badami
Ciro Badami

Quattro persone sono finite in manette a Corleone anche grazie alle dichiarazioni di un imprenditore, stanco di pagare 500 euro al mese per poter lavorare. Si chiama “Grande passo 2″ l’operazione dei Carabinieri della compagnia di Monreale ed è la seconda tranche di quella già messo in atto a settembre dai militari dell’Arma, coordinata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Sergio Demontis e Caterina Malagoli.

Già in quell’occasione, Cosa nostra subì un brutto colpo, vedendo i suoi vertici azzerati in diversi paesi dell’hinterland, fra cui Corleone, Misilmeri, Belmonte Mezzagno e Palazzo Adriano.

Pietro Paolo Masaracchia
Pietro Paolo Masaracchia

E anche stavolta, le indagini, sviluppate attraverso attività tecniche e servizi di osservazione e pedinamento, ma anche grazie alla collaborazione di vittime di estorsioni, hanno  permesso di ricostruire e delineare ancor meglio l’intero assetto della famiglia mafiosa di Palazzo Adriano, di quella di Corleone e i rapporti del mandamento con quelli limitrofi, nel dettaglio con la famiglia mafiosa di Villafrati.

Nello specifico, grazie alla ricostruzione di ruoli e compiti degli associati alle varie famiglie mafiose, la maggior parte dei quali non ancora individuati con la precedente operazione di servizio, sono stati arrestati: Pietro Paolo Masaracchia, 65 anni, e Antonino Lo Bosco, 75 anni entrambi diPalazzo Adriano; Francesco Paolo Scianni, 54 anni, di Corleone e Ciro Badami (detto Franco),69 anni di Villafrati.

Antonino Lo Bosco
Antonino Lo Bosco

Badami, era stato già tratto in arresto nell’ambito di un’altra operazione antimafia con la quale si intercettò il complesso circuito che consentiva lo scambio di comunicazioni e direttive tra l’allora capo dei capi di cosa nostraBernardo Provenzano e i rappresentanti delle famiglie mafiose di Bagheria, Baucina, Belmonte Mezzagno, Casteldaccia, Ciminna, Villabate e Villafrati.

Scianni è ritenuto dagli investigatori un uomo di fiducia e fiancheggiatore di Antonino Di Marco, già arrestato nell’ambito dell’operazione Grande Passo del 2014 e utilizzato da questi per mantenere i contatti per la riscossione delle estorsioni e come anello di congiunzione con un’altra famiglia mafiosa.

Si trovava già in cella perché coinvolto pure lui nell’operazione “Grande Passo”, Masaracchia, ritenuto il capo della famiglia mafiosa di Palazzo Adriano. Il quarto arrestato, Antonino Lo Bosco, è ritenuto dagli inquirenti in contrapposizione proprio con Masaracchia

Le estorsioni
Francesco Paolo Scianni
Francesco Paolo Scianni

Nel corso delle indagini sono stati ricostruiti quattro nuovi casi di estorsione, ai danni di imprenditori impegnati nel settore dell’edilizia e del commercio, sia nelle fasi dell’apertura che della gestione degli esercizi commerciali.

Per la prima volta è stata constatata la preziosa collaborazione delle vittime che hanno offerto il loro contributo: “Ero stanco di pagare 500 euro al mese – ha detto uno degli imprenditori vessati – e alla fine sono stato anche costretto a chiudere la mia attività”. Non si tratta, però, di una denuncia, perché all’inizio era stato lo stesso imprenditore ad andare dai boss per chiedere uno sconto sul pizzo da versare alle cosche.

Il muro di omertà degli imprenditori e dei commercianti ha ceduto di fronte all’operato repressivo svolto negli ultimi tempi e le vittime  hanno così deciso di raccontare senza alcun riserbo il meccanismo di pagamento del “pizzo”. Le indagini hanno messo in luce un singolare radicamento delle competenze a esigere il “pizzo”: l’imprenditore o il commerciante è chiamato a versare le somme estorte sia alle famiglie mafiose presenti nel proprio paese di origine sia a quelle operative nelle aree ove l’attività economica si svolge.

Inoltre, mentre con l’operazione  Grande Passo era stato possibile documentare come le vittime privilegiate dei boss fossero quegli imprenditori impegnati nell’esecuzione di appalti pubblici, ora è stato appurato come il metodo estorsivo possa essere applicato anche ai singoli esercizi commerciali o per l’esecuzione di lavori di edilizia privata.

Peraltro, un imprenditore era stato costretto a pagare per due volte il pizzo relativo allo stesso lavoro rispettivamente a due esponenti mafiosi  in contrapposizione tra loro. Ancora una volta è stato accertato come uno dei principali canali di sostentamento delle consorterie mafiose è rappresentato proprio dalle estorsioni, commesse ora anche nei confronti di attività economiche di privati.

Confindustria

“Per la prima volta nell’ex regno dei boss Riina e Provenzano, gli imprenditori hanno avuto la forza di rompere il muro di omertà e dire basta, denunciando i propri estortori. Un segnale di enorme valore e un grandissimo cambiamento culturale che conferma come il seme della ribellione continui a dare i suoi frutti”. Questo, il commento di Antonello Montante, delegato nazionale per la legalità e presidente di Confindustria Sicilia: “Un plauso particolare va alla Dda di Palermo che ha coordinato l’indagine, al procuratore aggiunto Agueci, ai sostituti Demontis e Malagoli, e al comando provinciale dei Carabinieri. Questa è la dimostrazione che il fenomeno delle estorsioni è ancora in atto. Tanto è stato fatto da magistratura e forze dell’Ordine, ma tanto c’è ancora da fare”.

[…]

Sono quattro le estorsioni finite nelle maglie dell’inchiesta “Grande Passo 2”, con la quale i carabinieri hanno ricostruito il giro del pizzo nei territori di BolognettaMisilmeriVillafrati Palazzo Adriano, appartenenti al mandamento mafioso di Corleone.

I taglieggiati sono titolari di concessionarie d’auto e imprenditori nel settore dell’edilizia. Quel che emerge dall’attività d’indagine dei militari dell’Arma è che nel territorio di Palazzo Adriano, ad esempio, avrebbero operato due boss rivali: Pietro Paolo Masaracchia, già coinvolto nell’operazione “Grande Passo” dello scorso anno, e Antonino Lo Bosco. Entrambi si sarebbero dedicati alla raccolta del pizzo e così, in un caso, dalle intercettazioni emerge che per “mettersi a posto” uno stesso imprenditore avrebbe versato 4 mila euro a Masaracchia e un’uguale somma anche a Lo Bosco.

In un’altra occasione, un imprenditore di Bolognetta, per aprire una concessionaria di autovetture avrebbe dovuto versare ai boss un importo iniziale e successivamente un “canone” mensile di 600 euro. I proventi di questa imposizione, così come confermato sia dall’imprenditore che dalle indagini, sarebbero stati incassati da Ciro Badami, già coinvolto nell’operazione “Grande Mandamento” del 2005 e appartenente alla famiglia mafiosa di Villafrati.

I metodi usati dagli esattori del pizzo verso gli imprenditori taglieggiati erano di natura “amicale”, e confidenziale. Quel che emerge, inoltre, è che non si tratta di imprenditori che hanno denunciato, ma che hanno parlato solo successivamente, una volta esser stati messi davanti al fatto compiuto dagli investigatori. In un’occasione, poi, uno degli arrestati avrebbe detto all’imprenditore preso di mira che sarebbe bastato versare cifre modeste e quest’ultimo avrebbe anche provato a farsi fare un ulteriore “sconto” sulle somme da versare:

“Per metterti in regola, non stiamo parlando di cifre aite ah! Tu ti devi calcolare mensilmente 500 euro….”

A quel punto, l’imprenditore, risponde: “La condivido (l’estorsione) da un punto di vista proprio morale, no da un punto di vista di speculazione…”, spiegando di non essere contrario al pagamento, ma solo all’importo, da lui ritenuto eccessivo, chiedendo appunto di poter avere l’agognato “sconto” sull’importo da devolvere alla famiglia mafiosa:

IMPRENDITORE “Non la possiamo gestire almeno un po’ meno, di questo importo?”.

Una richiesta rispetto alla quale, l’emissario dei boss rimane fermo sul quantum e argomenta le sue “ragioni”, elencando una serie di imprenditori che già pagavano puntualmente cifre molto più onerose.

ESATTORE: “S.L. paga 1200 euro, C.S. invece paga 1000 euro al mese, mentre P. versa 700 euro al mese, e un altro ancora 800 euro mensili”.

Il mafioso sottolinea, quindi, che il trattamento che la famiglia mafiosa sta riservando a lui (500 euro) è molto favorevole:

“Non è che sono bugie, quindi questa cifra, è una cifra vergognosa (irrisoria) per quello ché. l’hai capito il discorso?”

La conversazione poi prosegue sulle modalità di pagamento, l’imprenditore, infatti, non sapendo ancora che volume di affari riuscirà ad ottenere con la sua attività, richiede di adeguare la cifra in base ai guadagli o quantomeno di poter avere una dilazione del pagamenti in due rate all’anno di 2.500 euro ciascuna, ma il mafioso ribadisce che non è possibile e che l’impegno è da considerarsi a scadenza “mensile”.

“Dopo qualche giorno – ha poi raccontato l’imprenditore ai carabinieri – si presentarono da me all’autosalone di Bolognetta, Antonino Di Marco e Nicola Parrino, i quali mi dissero che per sistemare la messa a posto per l’apertura del mio locale, avrei dovuto prendere contatti e fissare un appuntamento con Franco Badami di Villafrati, che fino ad allora non conoscevo”.

E ancora, “Poco dopo aver aperto la mia attività, nel mese di dicembre, se non ricordo male, si presentò al mio concessionario un signore anziano con un foulard al collo. Questi, arrivato a bordo di una specie di motozappa, si presentò da me e si informò se avessi pagato la messa a posto alla locale famiglia mafiosa per l’apertura della mia attività, lo risposi di si, avendo ovviamente già preso accordi con i due per pagare la messa a posto a loro. L’uomo a nome zio Pietro, dal quale ho appreso in un secondo momento fosse di Bolognetta, ottantenne circa, mi chiese con chi mi fossi messo a posto ma io non glielo specificai”.

Conflitti fra boss, che si sarebbero tradotti in doppie imposizioni di pizzo ai medesimi imprenditori, i quali, per evitare di scontentare i vari esattori che si presentavano di volta in volta, pagavano due volte.

Nell’operazione, poi, viene anche fuori il ruolo di Francesco Paolo Scianni, incensurato dipendente provinciale. Dalle indagini emerge che avrebbe ricoperto un ruolo attivo nella consorteria mafiosa, partecipando a molteplici riunioni e trattando anche con esperienza diversi argomenti relativi alla gestione della stessa famiglia. Nello specifico, avrebbe partecipato anch’egli alla raccolta del pizzo,  ponendosi, in un caso, anche con un ruolo decisamente attivo nella mediazione con il capo famiglia di Villafrati Ciro Badami, perché legato a lui da un rapporto di parentela.

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Il consigliere di Forza Italia a Reggio Emilia e le sue frequentazioni calabresi

pagliani_675C’è anche un consigliere comunale e provinciale di Reggio Emilia, Giuseppe Pagliani, eletto tra le file di Forza Italia, tra i 117 arrestati nella maxi operazione “Aemilia” contro la ‘ndrangheta in Emilia, coordinata dalla Dda di Bologna. Per lui l’accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa. I carabinieri lo hanno prelevato all’alba, dalla sua abitazione di Arceto di Scandiano. Oltre a essere un esponente di punta del centrodestra locale, nella primavera del 2012 il suo nome era finito nella bufera, per una cena con imprenditori edili e dei trasporti di origine calabrese e uomini sospettati di vicinanza alla malavita.

Classe 1973, Pagliani è originario di Reggio Emilia dove ha sempre vissuto, studiato e lavorato. Avvocato, con un passato nel settore delle ceramiche e delle “carni bovine”, si dice specializzato in “diritto societario, finanziario e penale”. Sul suo sito si definisce anche “appassionato di politica da sempre” e “animatore da anni del centrodestra reggiano”. E infatti la sua prima corsa alle amministrative con la bandiera azzurra risale a molti anni fa, al 1999: alle comunali di Scandiano, comune in provincia di Reggio Emilia, raccoglie 300 preferenze. Un record. La sua carriera politica va avanti sempre nel solco del partito di Silvio Berlusconi, che non tradisce mai.

Nel 2012, quando è consigliere provinciale e comunale, finisce al centro delle cronache per essersi seduto al tavolo insieme a politici del Pdl, professionisti e a un gruppo di imprenditori considerato vicino al clan dei Grande Aracri, tra cui alcuni personaggi coinvolti in indagini antimafia. Il ristorante teatro della cena è nella periferia di Reggio Emilia, si chiama “Antichi Sapori” ed è di proprietà di un crotonese, il 45enne, Pasquale Brescia. Incontro che finirà sotto la lente della magistratura e della prefettura. E per il quale vengono ascoltate come persone informate sui fatti l’allora ex sindaco di Reggio Emilia e attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, il presidente della Provincia Sonia Masini e il consigliere regionale del Pdl Fabio Filippi.

Nell’autunno scorso Pagliani viene riconfermato consigliere provinciale e capogruppo in Comune a Reggio Emilia. Non solo: a novembre viene messo in lista anche per le regionali dell’Emilia Romagna, senza però riuscire a essere eletto. Il suo nome viene inserito all’ultimo, e va a sostituire quello di Vivaldo Ghizzoni, altro esponente di centrodestra. Pagliani viene “imposto da Roma e Bologna”, è scritto in una nota di Forza Italia, dal momento che, “il capogruppo in consiglio comunale è espressione forte del partito a Reggio Emilia e non può non far parte di questa compagine dei candidati azzurri”.

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I Cursoti milanesi: Cosa Nostra a Milano

Blitz della Squadra Mobile della questura di Catania la notte scorsa contro il clan dei Cursoti milanesi che si identificava nel boss catanese Jonny Miano che agiva anche a Milano.

L’operazione antimafia si è conclusa con 27 ordinanze di custodia cautelare in carcere riguardano altrettante persone che dovranno rispondere a vario titolo di associazione mafiosa, traffico di droga ed estorsione. L’operazione trae origine dalle dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia.

(fonte)