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Esterina Guglielmino recensisce Disperanza

La disperanza è un’idea antica, ancestrale, romita, profondamente radicata nella natura umana, eppure – altrettanto distintamente – la si può dire moderna, recente, evoluta, quasi un portato precipuo dei nostri tempi. E il suo gusto per la contemporaneità sta soprattutto nella sottigliezza della linea di confine, perché… capiamoci… è un concetto ben più subdolo e infido della normale disperazione.

La disperazione è un concetto finale, un punto di non ritorno, è il momento culminante di una climax ascendente che non può prevedere altro se non una conclusione, uno scioglimento, nel bene o nel male, proprio come succede quando si sta disegnando lo sviluppo di una storia.

La disperanza invece è un’idea intermedia, stanziale, è un processo lento e inesorabile di rinuncia, di progressiva sottrazione, prima dei sogni, poi dei progetti e del loro entusiasmo, infine della speranza. Essere disperanti vuol dire lasciarsi vivere a testa bassa, rinunciando definitivamente a essere protagonisti della propria vita, relegandosi progressivamente al ruolo di comparsa, di contorno, di accessorio. Il ruolo di protagonisti, intanto, passa ad altri: ai datori di lavoro che non riescono ad assicurare un lavoro stabile, allo Stato che decide a mano a mano di scomparire, agli amici che decidono di voltarsi dall’altra parte e di non vedere, forse perché sarebbe troppo difficile aiutare o semplicemente perché anche loro vivono la stessa condizione.

E poi, su tutto questo può ancora arrivare l’inatteso, l’imponderabile, l’inimmaginato (…già e chi avrebbe mai creduto a una pandemia fuori dalle pagine dei libri di geografia?) e allora la disperanza diventa uno stato generalizzato di controllo sull’anima, diventa certezza di aver sempre visto giusto quando l’orizzonte appariva annebbiato, perché in fondo la malattia sembra quasi una predestinazione, una profezia che si autoavvera, una conferma che la luce vista alla fine della galleria era sempre stata un riflesso ingannevole, una rifrazione e mai per davvero la fine del buio.

Eppure alla speranza non si può rinunciare, sarebbe come negare la vita, come costringersi a stare dentro una bolla d’aria fino a quando non finisce l’ossigeno. La speranza è insita nella natura umana, anzi la natura umana stessa per sua proiezione evolutiva prevede la speranza come suo componente più intimo. Che senso avrebbe addormentarsi senza la speranza di vedere il sole? Guardare un figlio senza la speranza di vederlo crescere? Coltivare un amore senza la speranza che ci possa accompagnare?

Ma come si fa a coltivare la speranza? Continuando a sognare o smettendo di sognare? Paga più il realismo scevro da illusioni o i sogni continuano a essere importanti, anche se – oggi come non mai -rischiano di restare irrimediabilmente delusi?

Disperanza è un libro in cui i confini tra lettore e scrittore si perdono, trascolorano, si confondono, un libro in cui la voce dello scrittore-narratore diventa spesso la voce del lettore, dei lettori, dei tanti più o meno disperanti che hanno raccolto l’invito a raccontare in quale “momento esatto della loro vita hanno perso la speranza”. Ne nasce un piccolo, denso libro corale fondato su uno strano gioco di rispecchiamenti e di rimandi speculari, un flusso narrativo in cui le singole esperienze si fondono e si integrano a vicenda, diventando un’unica voce disperante e coraggiosa assieme.

Perché forse la speranza è una trappola (Monicelli docet), è la promessa falsa e seducente di un domani migliore ma forse è, molto più semplicemente, istinto di sopravvivenza necessario.

Recensione di Esterina Guglielmino

(fonte)

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