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Doppia fumata nera alla Camera. Impallinato il leghista Molinari

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La tentazione è scoccata l’altra sera, dopo l’incontro tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni. Appare ormai evidente che il disegno della leader di Fratelli d’Italia sia limitare il più possibile il suo malsopportato alleato Matteo Salvini e da qui la tentazione è di spostare l’asse, rompere il rapporto privilegiato tra Lega e Forza Italia e mostrare i muscoli già per l’elezione della Camera.

Veti e colpi bassi nel Centrodestra fanno saltare l’intesa alla Camera. Questa mattina la quarta votazione per l’elezione del presidente

Lo schema è molto semplice: Meloni offre a Berlusconi garanzie sui ministeri che gli interessano davvero (Giustizia e Sviluppo, per le televisioni), magari rinunciando a Sisto e Casellati che sono ritenuti troppo compromessi ma con un nome che comunque garantirebbe i desiderata dell’ex Cavaliere.

In cambio Meloni propone un cappotto già all’elezione del presidente della Camera, offrendo a Forza Italia la possibilità di scipparlo alla Lega salviniana, suggellando così un’asse per il futuro. In Fratelli d’Italia e in Forza Italia molti sono convinti che lo strappo non sarebbe vissuto come tradimento dalla componente leghista che ormai aspetta solo di poter impallinare il suo segretario.

Anzi, a pensarci bene, si dicono, potrebbe addirittura essere un’accelerazione alla detronizzazione di Salvini. Sia Berlusconi che Meloni sono infastiditi – non lo nascondono – dalle bizze dell’alleato sul Viminale per sé stesso e sul voler disconoscere Giorgetti come ministro in quota Lega. Ne parlano, ci pensano, si consultano. La candidatura del leghista Riccardo Molinari come presidente della Camera traballa. Restava da decidere cosa osare ma la realtà è molto diversa da quella che si immaginano i leader, tutte e tre i leader (Berlusconi, Salvini e Meloni) e accade tutt’altro.

Salvini lo dice chiaramente: “C’è’ l’accordo per votare La Russa e poi un nome indicato dalla Lega alla Camera”. Anche li il vicesegretario della Lega, Giancarlo Giorgetti, arrivando al Palazzo dei Gruppi di Montecitorio, a chi gli domandava se si andava verso l’elezione del leghista Molinari alla presidenza della Camera risponde sulla stessa linea: “Mi sembra importante capire l’esito del voto del Senato, poi qui” alla Camera “va di conseguenza”, dice ai giornalisti. L’accordo di cui parla Salvini però non esiste.

Al Senato accade che Ignazio La Russa venga eletto presidente ma non nei modi convenuti: servono i voti dell’opposizione. Così lo strascico della prima crisi nella maggioranza (nel primo giorno in Parlamento) si trasferisce alla Camera dei deputati. La prima votazione è una fumata nera. Anche la seconda si conclude con un nulla di fatto.

Come era prevedibile, del resto. Se in mattinata l’Aula di Montecitorio aveva fatto “melina” in attesa del voto di Palazzo Madama – per poi dare seguito all’accordo che sembrava raggiunto nel centrodestra che prevedeva La Russa al Senato e un leghista alla Camera -, nel primo pomeriggio il passaggio dei deputati sotto il catafalco è stato condizionato proprio da quel voto. Ma in maniera diversa rispetto alle aspettative.

Nel Pd qualcuno propone di votare un nome, uno qualsiasi, per la presidenza della Camera per non incorrere in sospetti come avvenuto al Senato. Ma tutta l’attenzione è su Forza Italia che sbatte (letteralmente, come accade per Berlusconi a Palazzo Madama quando manda aff… Ignazio La Russa. Non serve indagare per capire quale sia il motivo. Berlusconi è scontento, eccome, per il no a Licia Ronzulli come ministra. “Non ci piacciono i veti”, continua a ripetere ai giornalisti, e così l’asse della maggioranza è già naufragato dai propositi di prima mattina.

Nel tardo pomeriggio si prova a trattare su un altro nome. Non più il capogruppo uscente della Lega Molinari ma il vicesegretario del partito (e ex ministro) Lorenzo Fontana. Qualcuno sussurra anche il nome di Giorgetti, che però Meloni continua a vedere bene al ministero dell’Economia. Meloni e Salvini si incontrano alla Camera in vista dello scrutinio di oggi. La terza votazione ormai è una formalità dall’esito negativo scontato. Non servirà più la maggioranza di due terzi ma basterà una maggioranza semplice.

I numeri comunque non tornano: la maggioranza alla Camera è a quota 237, di cui 45 sono i deputati forzisti. Sottraendo i voti del gruppo azzurro, ci si fermerebbe a 192. Sotto il quorum. Ci sono, ragiona qualcuno, comunque i voti dei franchi tiratori nascosti nell’opposizione, ma non sarebbe un grande messaggio quello di una maggioranza di governo che ha bisogno di stampelle in entrambe le Camere per riuscire a eleggerne i presidenti.

Giorgia Meloni sfila ostentando sicumera: “L’importante è il risultato”, dice ai giornalisti. Ma in politica, e lei lo sa bene, il modo conta eccome. Intanto si sprecano le accuse su chi nell’opposizione ha votato con la destra. Sarà facile scoprirlo osservando le elezioni delle presidenze nelle Commissioni. L’altro ieri il berlusconiano Mulè diceva: “Se domani non ci saranno i presidenti delle camere alle 10.30, siete tutti legittimati a darci dei pagliacci”. Pagliacci, appunto.

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