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Perché questa classe dirigente non può parlare di merito

Una scena iconica di questi primi giorni di legislatura è Alessandro Cattaneo, capogruppo alla Camera di Forza Italia, che con il piglio di quelli che vogliono sembrare di sapere illustra l’importanza del “merito e l’avversione della sinistra (loro vedono sinistra dappertutto) per quella parola. Poiché la drammaturgia della realtà e del nostro Parlamento spesso supera qualsiasi farsa, l’inquadratura televisiva riprende Cattaneo infervorato in difesa del merito e al suo fianco, seduta, Marta Fascina. La non-moglie di Silvio Berlusconi, deputata anche lei, ovviamente, di Forza Italia. Marta Fascina è risultata eletta in un collegio elettorale siciliano in cui non si è mai vista in tutta la campagna e in un’intervista ha confessato di esserci andata «in vacanza, da piccola» con i suoi genitori. Troppo potente quel frame per non diventare uno schiaffo virale intorno alla polemica sul merito che in questi primi giorni di governo ha coinvolto l’assise parlamentare e i giornalisti più o meno pensosi.

Perché questa classe dirigente non può parlare di merito
Alessandro Cattaneo alla Camera (da Fb).

La lezione (dimenticata) di Papa Francesco su meritocrazia e talento

Così, di colpo, è tornato in auge un discorso di Papa Francesco nel 2017 a Genova che inquadrò bene l’abuso del merito e della meritocrazia: «La tanto osannata meritocrazia, una parola bella perché usa il merito», ha denunciato il Papa, «sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza». Parlando a braccio, Francesco è andato poi più in profondità: «Il talento», ha spiegato, «non è un dono secondo questa interpretazione, è un merito non un dono». In quest’ottica «il mondo economico leggerà i diversi talenti come meriti. E alla fine quando due bambini nati uno accanto all’altro con talenti diversi andranno in pensione la diseguaglianza si sarà moltiplicata». In quest’ottica, «il povero è considerato un demeritevole e se la povertà è colpa del povero i ricchi sono esentati dall’aiutarli. È la vecchia logica degli amici di Giobbe, che volevano convincerlo che le sue disgrazie fossero colpa sua. No la verità è nella parabola del figliol prodigo: il fratello rimasto a casa pensa che l’altro si sia meritato la sua disgrazie, ma il padre pensa che nessun figlio si meriti le ghiande di porci».

Se il merito in politica è fedeltà o vicinanza (persino geografica) al capo

Farsi dare lezioni di meritocrazia dal Papa è già un segno dei tempi: il capo di un’organizzazione che non brilla certo per mobilità sociale e per meritocrazia supera per illuminismo le organizzazione politiche? Non è un buon segno. Del resto se il merito ce lo insegna una classe politica come quella attuale è tutto piuttosto difficile. Abbiamo oggi in posti di governo persone che per non disturbare il sorriso del loro padrone politico hanno votato in Parlamento Ruby Rubacuori nipote di Mubarak, tanto per dare un’idea. Non occorre nemmeno snocciolare i nomi per rendersi conto che molta della classe dirigente dei partiti in Italia sta lì per avere il merito di essere vicina (addirittura geograficamente) al leader giusto al momento giusto. E quella vicinanza spesso riesce a fruttare anche per più di un mandato, anche in occasione della fondazione di un nuovo partito. Non è un caso che siano innumerevoli gli episodi (questa sì sarebbe una bella inchiesta) di promozioni politiche all’interno dei partiti per meriti o affinità che non hanno nulla con la competenza politica.

Perché questa classe dirigente non può parlare di merito
La ministra per le Riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati (Getty Images).

Il familismo, nemico primo del merito, è una costante delle nostre imprese

Il merito, si diceva, ha bisogno di essere discusso da persone di cui sia almeno riconosciuta l’autorevolezza. Almeno questo, almeno per decenza. Si potrebbe così discutere di come il familismo, nemico primo del merito, sia la costante delle nostre imprese. Come fece notare Maurizio Ricci su Riparte l’Italia, «nel 2016, il 21 per cento delle imprese aveva un solo socio: il doppio di 10 anni prima. Un altro 47 per cento ne ha due. La proprietà è, dunque, sempre più concentrata e sempre più si confonde con la gestione. La metà del capitale di rischio è in mano alle stesse persone che amministrano e gestiscono l’azienda: nel 2005 la percentuale era minore. Il processo è evidente. Nel 2016, i due terzi delle imprese era a proprietà familiare. Nel 2005 erano solo il 56 per cento. Non è, necessariamente, una condanna. Anche nell’efficiente sistema imprenditoriale tedesco, la proprietà familiare è assai diffusa, nelle piccole come nelle grandi aziende. La differenza è nella gestione che, in Germania, viene sempre più spesso affidata a manager, in linea di principio più competenti e più attenti a separare interessi e patrimonio dell’azienda da quelli della famiglia. In Italia, invece, dice lo studio di Bankitalia, nel 60 per cento delle imprese familiari, proprietà e gestione coincidono».

Italia maglia nera in tutti e sette i pilastri del meritometro 

In Italia esiste il “meritometro”. Il meritometro è l’indicatore europeo che misura il livello di meritocrazia di un Paese. Elaborato dal Forum della Meritocrazia in collaborazione con l’Università Cattolica per fornire proposte concrete ai policy maker, si basa su sette pilastri: libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per i talenti, regole, trasparenza e mobilità sociale. Il rapporto del 2021 ci dice che il merito segna il passo: sono sei Paesi su 12 con risultati complessivamente in peggioramento. Si conferma un’Europa a tre velocità. L’unico pilastro in aumento è la trasparenza e il pilastro con le performance peggiori è la libertà. L’Italia, a proposito di merito, è maglia nera in tutti i pilastri e nel ranking europeo per il sesto anno consecutivo. L’Index of Economic Freedom posiziona l’Italia è al di sotto delle medie europee (36esima posizione su 45 Stati europei), risultato dovuto al peso negativo dell’efficienza nella spesa pubblica, della burocrazia, della tassazione e delle inefficienze nella regolazione. Dal 1997 a oggi il nostro score è aumentato solo di 3,7 punti. Il Global Social Mobility Index ci posiziona al 34esimo posto su 82 Paesi in termini di mobilità: uno dei fattori determinanti (in negativo) è l’accesso ai livelli di istruzione superiore ancora troppo pesantemente influenzato dalle condizioni della famiglia di origine. Bisogna meritarselo, di poter parlare di merito.

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