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Le trivelle premiano chi ha alimentato il caro energia

Il Coordinamento nazionale No Triv (a cui aderiscono centinaia di associazioni di tutta Italia) prova a spiegare perché la decisione del governo non abbia senso.

«Con un emendamento al Dl Aiuti-Ter approvato il 4 novembre il governo Meloni rompe il muro delle 12 miglia consentendo nuove trivellazioni in Adriatico anche fino alla distanza di 9 miglia marina dalle linee di costa. Viene così meno il divieto di nuove attività di ricerca e coltivazione di gas che, fatte salve alcune eccezioni, era stato introdotto nella Legge di stabilità 2016 modificando il precedente articolo 6, comma 17, del Decreto legislativo 152/2006, sulla spinta della campagna referendaria No Triv.

L’area marina interessata, posta al largo del Delta del Po e vasta 126 chilometri quadrati, è compresa tra il 45° parallelo, poco più a sud del golfo di Venezia, e il parallelo passante per la foce del ramo di Goro nel fiume Po. Qui si potrà quindi trivellare anche a solo 9 miglia dalla costa a condizione che si sfruttino giacimenti con un potenziale minerario di almeno 500 milioni di metri cubi: un vero incubo per i residenti ed i Comuni del Polesine, più volte duramente colpiti dal fenomeno della subsidenza.
Nella relazione illustrativa del provvedimento si citano ben 5 permessi di ricerca che insistono parzialmente o integralmente in quest’area e di questi, uno riguarda la costa veneta, con il 40% dell’area interessata oltre le 9 miglia e, quindi, potenzialmente coltivabile.
Obiettivo dichiarato del governo è riammettere a produzione le concessioni presenti in Adriatico fino ad esaurimento dei giacimenti senza tuttavia considerare che parte di quelle concessioni è scaduta e che le concessioni hanno comunque una durata ben definita che prescinde dall’esaurimento o meno del giacimento.
L’emendamento approvato nel Consiglio dei ministri introduce pesanti deroghe al Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai): estende la misura prevista per l’area marina al largo del Delta del Po a tutte le aree marine, consentendo quindi il rilascio di concessioni per la coltivazione di gas anche tra le 9 e le 12 miglia marine per giacimenti con un potenziale superiore ai 500 milioni di metri cubi; inoltre prevedendo attività di ricerca e di estrazione di gas in alcune aree interdette, ma non ancora individuate, dal Pitesai.
L’insieme delle misure varate dall’esecutivo dovrebbe consentire di ottenere in 10 anni 15 miliardi di metri cubi di gas, di cui 2 subito, che andrebbero ad aggiungersi agli attuali 3,5.
Negli intendimenti del governo la misura ha lo scopo di mettere a disposizione di un numero imprecisato di imprese gasivore italiane -si stima possano essere 150- gas naturale ad un prezzo calmierato, quindi inferiore a quello ancorato all’indice Tff di Amsterdam.
La procedura scelta è simile a quella definita del Decreto legge n. 17 del 2022, approvato dal governo Draghi: sarà il Gruppo Gse a raccogliere le eventuali manifestazioni di interesse provenienti dalle compagnie Oil&Gas titolari delle concessioni e a stipulare contratti di fornitura di durata decennale ad un prezzo, che verrà fissato con decreto, compreso tra un minimo di 50 euro ed un massimo di 100 euro per megawattora.
La scelta di Meloni e della maggioranza che la sostiene, al tempo del Referendum del 2016 contraria a nuove attività estrattive in mare entro le 12 miglia marine, mostra limiti evidenti: non incide sulle cause strutturali del caro-energia che sta colpendo duramente tutte le imprese (non solo quelle gasivore) e le famiglie; premia i principali player dell’Oil&Gas – Eni tra tutti – che hanno tratto enormi profitti grazie alla crisi; promuove l’estrazione ed il consumo di gas naturale assestando un duro colpo alla transizione energetica.

Le cause del caro energia sono ormai note da tempo: mix energetico delle fonti di generazione elettrica sbilanciato a favore del gas, meccanismo di formazione del prezzo sulla borsa del gas e sulla borsa elettrica, ecc.. In particolare, il prezzo del gas risente fortemente delle manovre speculative di pochi operatori che, facendo cartello, determinano l’andamento della borsa di Amsterdam.

Paradossalmente, a beneficiare della misura saranno soprattutto coloro che hanno tratto maggiore vantaggio dalla crisi energetica. La maggior parte delle concessioni fanno capo a Eni, la stessa che nei primi 9 mesi del 2022 ha portato a casa utili per 10,8 miliardi di euro. Come? L’Eni, che importa circa la metà del gas naturale importato dall’Italia in un anno, si approvvigiona di gas per il 61% del suo fabbisogno dalle importazioni tramite contratti pluriennali (fino a 30 anni), a prezzi blindati e secretati dallo Stato, espressi sostanzialmente dai prezzi doganali. Il prezzo di riferimento per le sue vendite di gas a terzi è però quello spot-Psv (Ttf). Il differenziale tra prezzo spot-Psv (Ttf) e prezzo doganale fa sì che Eni, al pari di altri operatori, tragga profitto dal caro-gas.
La linea estrattivista dettata da Meloni risponde in modo errato ad un problema reale ed incentiva l’estrazione di modesti quantitativi di gas “nazionale” rallentando la già lenta transizione energetica in atto nel nostro Paese. Piuttosto che spingere sulle leve dell’efficienza e delle rinnovabili, il governo rilancia lo sfruttamento ed il consumo del gas naturale, rendendo ancor più dipendente famiglie ed imprese da una fonte energetica di cui il nostro Paese è povero.
Le riserve di gas accertate dal Mite al 31/12/2021, tra certe, probabili e possibili, ammontano a 111.075 miliardi metri cubi ma la concreta possibilità di sfruttamento riguarda soltanto 70/80 di essi. Premesso che, secondo dati Arera, nel 2021 i consumi di gas naturale hanno toccato quota 74 miliardi di metri cubi, le riserve nazionali di gas concretamente disponibili potrebbero far fronte alla domanda interna per 12 mesi o poco più.
Si tratta di quantità non disponibili tutte e subito e, comunque, non rinnovabili una volta esaurite. I freddi numeri ci dicono quindi che “sovranità energetica” e “nuove estrazioni di gas nazionale” sono un ossimoro e che l’approccio del governo è dettato da una visione ideologica.
Ma non è tutto. Il nuovo mix energetico voluto da Meloni avrà immediate ricadute in termini di mancato rispetto degli obiettivi climatici ed ambientali che l’Italia si è impegnata a rispettare in sede internazionale. Ne consegue che anche il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) ed il Pnrr, che si riconnette al primo, dovranno essere riscritti. C’è da stupirsi, a questo punto, che in sede Cop 27 Meloni chieda di rallentare l’uscita dalle fonti fossili?
In un quadro di così lucida coerenza “fossile” non deve parimenti stupire che il governo non abbia inserito nell’ordine del giorno della seduta del 4 novembre l’approvazione delle norme attuative sulle Comunità energetiche rinnovabili e le linee-guida per identificare le aree idonee su cui installare impianti fotovoltaici, misure attese da mesi e che potrebbero consentire la realizzazione di almeno 10 GW/anno di nuova generazione elettrica in un Paese, come il nostro, “baciato dal sole” come pochi altri ma in cui metà della produzione di energia elettrica dipende dal gas.
Meloni e la sua maggioranza hanno, evidentemente, ben altre priorità».
Buon martedì.
Nella foto. frame di un video sulle azioni di protesta di Greenpeace in Adriatico nel 2018

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