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La morte di Riccardo e la nostra incapacità di affrontare sconfitte e fragilità

Quell’auto di Riccardo schiantata contro un platano, il giorno prima dei festeggiamenti di una laurea che non aveva mai preso, poco prima di quel viaggio in Giappone ricevuto come premio per un’impresa che era solo raccontata, contiene molte storie. Non è solo quella di Riccardo e della sua famiglia (per cui questo è il momento del dolore), ma anche quella di uno studente trentenne iscritto alla facoltà di Medicina in lingua inglese all’università di Pavia che prima di suicidarsi ha scritto al suo rettore spiegando la sua incontrollabile paura di perdere la borsa di studio e di non riuscire a pagarsi gli studi; c’è un fuorisede che a ottobre di quest’anno si è suicidato la sera prima che arrivassero i suoi genitori per festeggiare una laurea che non esisteva, c’è lo studente dell’Università Federico II di Napoli trovato morto dopo aver raccontato ai genitori un piano di studi che non era mai stato compiuto.

Qualsiasi modalità di empatia viene bollata come una mollezza

C’è in purezza tutto questo tempo incapace di affrontare le sconfitte e le fragilità. Gli adulti troppo inadeguati nel giudicare i percorsi dei figli. I figli che non considerano interlocutori i loro genitori. C’è soprattutto il feticcio del merito che altro non è che lo sdoganamento di una disfunzionale competizione ormai assurta a modello sociale. Un tempo in cui la competizione (che di per sé non è certo un danno) è diventata incapacità di tollerare la possibilità di fallire. Anche perché mentre si spinge la competizione come strumento principe della crescita, stiamo sgretolando qualsiasi spirito di collaborazione, anche nei suoi termini più larghi. Progressivamente nel nostro Paese qualsiasi modalità di empatia viene bollata come una mollezza che non possiamo permetterci. Così il percorso è tracciato: “l’io” che deve farsi super nel più breve tempo possibile, il “noi” che è solo una folla di adoratori o i resti di quelli che siamo riusciti a sconfiggere, un senso di comunità che è un’utopia inapplicabile al reale e infine la solidarietà che diventa un lusso troppo sospetto per poterselo concedere senza secondi fini. Ed è esattamente quello che siamo diventati noi.

La morte di Riccardo e la nostra incapacità di affrontare sconfitte e fragilità
La macchina di Riccardo dopo lo schianto.

L’ossessione del merito, una religione del capitalismo

Il passaggio dal mito della competizione all’ossessione del merito (ormai diventata una religione del capitalismo) è fin troppo facile. Per questo mentre il governo spinge sul ministero del Merito bisognerebbe rileggere chi come Beatrice Bonato da tempo ci invita a «smettere di spingere gli studenti verso il miraggio di punteggi più elevati, riconoscere gli allievi dotati senza pretendere di creare, fin dalla scuola, un’élite dei talenti». Un libricino che andrebbe riletto è anche quello di Carmelo Albanese, Il feticcio della meritocrazia: «Il fatto che la valorizzazione e l’utilizzo delle capacità individuali, secondo le inclinazioni personali, non sia stato messo in pratica nelle nostre comunità è una forma di delirio particolare. Un drammatico incidente di percorso lungo la via del buon senso», scrive Albanese.

Con l’individualismo esasperato alla fine si rimane soli

«Nei sistemi meritocratici trionfa solo la categoria statica e inviolabile del potere. Nelle società meritocratiche il potere viene conferito a certi individui attraverso il premio al merito, supposto ma non reale perché considerato costante  e non variabile. Gli individui a cui viene dato il premio al merito, inizialmente sono stati meritevoli di qualcosa in un certo contesto riferito a delle variabili, ma poi entrano nel meccanismo meritocratico dimenticando il merito». Si arriva quindi all’epilogo: spingendo sull’individualismo travestito di merito e di competizione alla fine c’è chi rimane solo. Sorprende che ci sorprenda.

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