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L’intervento su La Stampa: Cavalli, noi uomini lupi. Dicono: “Non generalizzare”. Ma essere maschi da anni significa “sapersi imporre”

Ma chi è il lupo? Dicono, non generalizzare. Io sicuramente sono un lupo. Spieghiamoci. Sono nato nel tempo in cui la mascolinità si pesava nella capacità di imporre le proprie decisioni. Non è governare, è comandare. Genitori compiaciuti perché «il mio figliolo decide se il giro di amicizie esce questa sera, decide dove andare». Cose minime, sembravano. «Ha carattere», dicevano i professori. Nascere maschi a cavallo degli anni Ottanta in Italia è qualcosa che ha a che fare con la capacità di imporsi. Nessun sinonimo: imporre agli altri il proprio volere, per i quarantenni di oggi, è sinonimo di autorità, di pene lungo e abilità nell’ orientare le scelte.

L’autorità può essere scalfita solo da una variabile. Se un maschio mette in discussione la tua decisione è semplicemente un confronto, magari anche acceso. Se una femmina non accetta la tua decisione è un affronto. Le donne al fianco degli uomini servono per confermare e cristallizzare l’autorità, perfino l‘autorevolezza, in certi ambiti. Il nostro mondo è pieno di donne invidiabili per la capacità di stare al proprio posto, solo che il posto delle donne è uno spazio senza fisica: le donne che stanno al loro posto sono le donne che coincidono con l’ombra dell’uomo che accompagnano come scelta di vita. È il famoso passo indietro dove l’indietro è il perimetro dell’ombra.

Io sicuramente sono un lupo perché sono cresciuto nell’epoca in cui non fare apprezzamenti sulla prosperità delle forme di una donna era considerata una vigliaccheria al confine con l’omosessualità. Sia chiaro, non ho vissuto in mezzo a un’orda barbara di omofobi sessisti. Semplicemente l’apprezzamento verso l’altro sesso ha avuto sempre a che fare con la dichiarata volontà di possedere, che era un passo obbligatorio. Si tratta di una conformazione a cui non dai peso, che molti del gruppo considerano semplicemente un topos maschile, quasi atavico, che vede la dominazione come una declinazione del possesso. Nessuno di noi, quando ero adolescente, avrebbe mai pensato possibile ribellarsi a quella modalità. Non era questione di accettazione immorale, direi – ora – che fosse qualcosa che c’entrava con la fatica di scrivere un altro vocabolario della mascolinità.

Le chat, ad esempio. Le chat che escono ciclicamente sui giornali per denunciare i casi di “Me Too” sono molto simili alle chat in cui sono iscritto. Ho frequentato gli spogliatoi e conosco benissimo la grana animale che impedisce a un calciatore di dichiararsi qualsiasi altra cosa rispetto al maschio rovente. Anche in questo caso non si tratta di un’accolita di assassini pronti ad ammazzare o a stuprare ma si tratta di conversazioni private che se diventassero pubbliche distruggerebbero la credibilità degli iscritti. Loro – anzi, non mi condono – noi diremmo che si stava scherzando fingendo di non sapere che scherzando si partoriscono parole che generano realtà. Ho prevaricato una donna utilizzando il mio essere maschio, per di più privilegiato per mestiere e per posizione? Sì, certo. Qualche volta me ne sono accorto e molto più spesso mi sarà sfuggito. Ho scambiato il controllo come cura? Ovvio che sì. Troppo comodo per rinunciarci. Sono un lupo che è stato in grado di porsi dei limiti ma che potrebbe descrivere – come descrivo per mestiere – qualsiasi abuso perché ne conosco i meccanismi nativi da oppressore. Perfino scrivere delle vittime dallo scranno del potenziale carnefice è un privilegio.

Qui si arriva alla fatidica domanda: quindi vuoi dire che tutti gli uomini sono colpevoli per i femminicidi che accadono? Non cado nella trappola della generalizzazione utile allo scontro politico. Rispondo per me: io sì, io sono colpevole. Sono colpevole per la mala educazione che ho ricevuto, sono colpevole per l’istruzione che mi ha raccontato i maschi come artefici del proprio destino e solo di rimbalzo delle donne. Sono colpevole del concime che rende Filippo Turetta un bravo ragazzo dove la bravura sta solo nel mitigare i propri istinti più osceni. Anch’io per una vita ho trascinato fuori scena i comportamenti (miei e degli altri) al di là del dibattito sociale come se esistesse un “osceno” riservato ai maschi in cui nascondere il loro residuo tossico. Non arrivo ad ammazzare, per carità. Ma il germe è lo stesso.

Qualcuno dirà: «Si autodenuncia per giustificarsi». E anche questo è vero. Se dovessi scegliere un ruolo mi piacerebbe essere un testimone di giustizia di quest’epoca che le donne le uccide ma anche – e soprattutto – le logora. Quindi aspettiamo la grande rivoluzione culturale? Non so, non mi convince. Io – parlo di me, solo di me per non trasformare un pensiero in un paradigma – vedo i miei tre figli maschi enormemente migliori di me su questo punto. Ritengono inimmaginabili le lordure che a noi tocca nascondere. Ma soprattutto ci sono le donne. Lasciare spazio forse è già una prima soluzione.

https://www.lastampa.it/cronaca/2023/11/23/news/cavalli_noi_uomini_lupi_dicono_non_generalizzare_ma_essere_maschi_da_anni_significa_sapersi_imporre-13881243/