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La dignità a tempo determinato

Diceva Enrico Berlinguer che il Primo maggio fosse l’unica festa civile capace di spingere gli uomini “a uscire dai loro tenaci particolarismi” per “rinnovare l’impegno di fare del lavoro il fondamento della dignità umana, la pietra di paragone di una reale giustizia, la condizione per una libertà vera, che è liberazione dal bisogno, dallo sfruttamento, dall’oppressione”.

Qualche decennio dopo Berlinguer è stato usato come clava alla kermesse di Fratelli d’Italia. La seconda carica dello Stato, Ignazio Maria Benito La Russa, ha strumentalizzato un applauso dedicato all’ex segretario del Pci mentre poco prima la sua capa Giorgia Meloni sventolava ancora il fantasma del comunismo. Il lavoro come fondamento della dignità umana si è spento di fronte ai numeri impietosi dell’Italia come ultimo Paese in Europa, dove i salari negli anni sono scesi mentre tutto intorno aumentavano. Il lavoro come pietra di paragone di una reale giustizia invece sta sotto un lenzuolo bianco insieme ai morti di lavoro che rimangono impuniti.

Nel loro caso la giustizia si impiglia nella catena di appalti e subappalti che tesse un tela mortale. Il lavoro come condizione per una libertà vera che è liberazione del bisogno è stato tradito dalla precarizzazione. Una libertà precaria o a tempo determinato non è libertà. È un respiro per trovare appena le forze per trascinarsi fino al prossimo tonfo, la prossima crisi aziendale, la prossima cassa integrazione (vera o fittizia). La liberazione dello sfruttamento invece riposa in pace con la bocciatura del salario minimo che avrebbe segnato il limite dell’indecenza.

Con i primi soli cominceranno a seccarsi nei campi i lavoratori per qualche spicciolo all’ora, ricominceranno le lagne degli imprenditori che lamentano la mancata inclinazione allo schiavismo di questa o di quella generazione. Il senso del lavoro in questo primo maggio 2024 sta in quei sette bonus decisi dal governo e nella mancetta da 100 euro che arriverà l’anno prossimo ma è stata annunciata in tempo per la prossima corsa elettorale. Il lavoro come concessione, quel che basta, e se fai il bravo una carota come premio. Al massimo l’ottavo bonus sarà un bel funerale pagato dallo Stato.

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Testi influenzati e omissis. Su Cutro verità in alto mare

Nel silenzio generale procedono le indagini e il processo sulla strage di Steccato di Cutro e dei suoi 94 morti, 20 dispersi e 81 sopravvissuti. A Crotone prosegue il processo nei confronti dei tre presunti scafisti Sami Fuat, di 50 anni, turco, e Khalid Arslan e Ishaq Hassnan, di 25 e 22 anni, pakistani, imputati di naufragio colposo, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte in conseguenza di altro reato.

Nel silenzio generale procedono le indagini e il processo sulla strage di Cutro. Il timore è che a pagare sarà qualche scafista a caso

Come sta andando? Faizi Hasib, uno dei superstiti del naufragio, ha detto ai giudici: “Un agente che mi interrogava mi ha detto che quello nella foto era il capitano della barca e di firmare accanto all’immagine. Ed io l’ho fatto”. Momenti di incredulità in aula. Il presidente della corte Edoardo D’Ambrosio e il pubblico ministero Pasquale Festa hanno chiesto di ripetere, non volendo credere alle proprie orecchie.

Hasib ha ribadito che la foto di Sami Fuat come “capitano della nave” gli era stata indicata dal poliziotto che lo stava interrogando: “Mi ha detto di firmare accanto alla foto di Suat, aggiungendo, comunque, che non ero obbligato a farlo”. Nel frattempo è attesa per metà maggio la chiusura delle indagini sulla catena dei soccorsi. Al momento gli indagati sono sei, tre dei quali sono stati omissati.

Gli altri sono il tenente colonnello Alberto Lippolis, comandante del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia, il sottufficiale Antonino Lopresti, e il colonnello Nicolino Vardaro, comandante del Gruppo aeronavale di Taranto. Che la tragedia fosse evitabile ormai è sotto gli occhi di tutti. Che alla fine possa pagare qualche scafista scelto a caso e nessun colletto bianco è il timore di molti.

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Migranti, il piano di Meloni: replicare in Europa il metodo Ruanda con la Tunisia

Il sogno nemmeno troppo nascosto è di replicare il metodo Ruanda anche in Europa con la Tunisia. Questa settimana nel Regno Unito è è stata approvata la controversa legge che autorizza alla deportazione forzata di persone richiedenti asilo in Ruanda. Una “vergogna nazionale” e “lascerà una macchia sulla reputazione morale di questo paese”, l’ha definito Sacha Deshmukh, responsabile di Amnesty international nel Regno Unito. L’agenzia tedesca Dw non ha dubbi: dietro ai tre nuovi accordi con la Tunisia come parte del Piano Mattei (per un totale di 105 milioni di euro) ci sarebbe l’individuazione di “un luogo privilegiato per i richiedenti asilo che entrano nell’Unione europea con mezzi irregolare” che potrebbe replicare il “piano Ruanda”. 

Ue e Italia vorrebbero replicare il piano di deportazione del Regno Unito ma la Tunisia non è considerata “luogo sicuro”

Ci sono due problemi difficilmente sormontabili. Il primo – che si potrebbe smussare con altro denaro – è che il presidente tunisino Kais Saied ha ribadito durante una riunione sulla sicurezza nazionale che la Tunisia “non diventerà né un centro né un punto di attraversamento” per i migranti subsahariani. Né, ha detto, accetterebbe i migranti “deportati dall’Europa”. La Tunisia sta lavorando per ridurre i numeri delle migrazioni. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati UNHCR, al 15 aprile 2024, le forze di pattuglia di frontiera tunisine avevano intercettato circa 21.000 migranti prima che potessero raggiungere le acque europee. Saied non ha intenzione di fare nulla di più.

Il secondo vero problema è che nessuno degli accordi affronta il fatto che la Tunisia non può essere considerata un “paese sicuro” poiché il presidente Saied non solo ha smantellato la maggior parte delle istituzioni democratiche dopo avere preso il potere nel luglio 2021 ma reprime anche i migranti nel suo Paese. “Oggi in Tunisia, migranti, richiedenti asilo e rifugiati affrontano gravi abusi commessi dalle forze di sicurezza, tra cui la Guardia Nazionale e la Guardia Costiera durante l’intercettazione in mare, e, una volta che le persone vengono intercettate, continuano a subire maltrattamenti, arresti arbitrari, detenzioni ed espulsione collettiva”, ha spiegato Salsabil Chellali, direttore tunisino presso l’ONG Human Rights Watch. In Tunisia mancano anche leggi nazionali sull’asilo e persino di un sistema di asilo che potrebbe concedere lo status di rifugiato o consentire alle persone di lavorare. Il sogno di avere trovato una nuova Ruanda per Giorgia Meloni è sfumato prima ancora di diventare un’idea. 

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Immigrazione, il calvario quotidiano nelle questure italiane per il rispetto dei diritti. La fotografia dell’Asgi

Come si chiama uno Stato in cui sono le questure a non garantire il rispetto dei diritti? Agli operatori e alle operatrici che tutti i giorni hanno a che fare con le questure italiane in tema di migrazioni è chiaro da tempo che l’amministrazione pubblica fa di tutto per sabotare l’accesso ai diritti fondamentali. Non potendo scrivere leggi che violino il diritto internazionale la mancata applicazione di quelle esistenti è la via più facile – e forse più vigliacca – per raggiungere lo stesso il risultato. Vengono così ostacolati l’accesso a diritti fondamentali, quali la protezione internazionale, l’accesso a misure di accoglienza o il rilascio di permessi di soggiorno. L’utenza straniera, senza poter far riferimento a mediatori linguistici e senza adeguata informativa legale, è particolarmente esposta a tali violazioni.

Per questo l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione ha dato il via a un progetto pilota per monitorare la situazione in 55 questure italiane. I risultati, manco a dirlo, fotografano un Paese in cui l’illegalità s’è fatta sistema. Leggendo la mappatura delle prassi illegittime delle questure italiane di Asgi si scopre che in moltissime province d’Italia i richiedenti asilo non riescono ad accedere alla propria questura di riferimento per presentare domanda di protezione internazionale (sono il 60% delle risposte ricevute al questionario di Asgi). Anche dopo l’avvenuto primo accesso in numerosi territori ai cittadini stranieri viene impedito di formalizzare la relativa domanda (21% delle risposte ricevute). 

Nelle questure italiane sono ostacolati l’accesso ai diritti fondamentali

Nella maggior parte delle questure considerate, i richiedenti asilo non riescono a presentare domanda di protezione internazionale in quanto viene richiesta loro l’esibizione di una dichiarazione di ospitalità (almeno in 40 province) ovvero del passaporto (almeno 3 province). Si tratta di richieste arbitrarie prive di fondamento normativo. Nella maggior parte dei casi, il cittadino straniero può prendere un appuntamento da solo (22% delle risposte) mentre negli altri casi l’accesso alla questura è garantito solo grazie ad un appuntamento rilasciato attraverso l’intervento di un avvocato (16% delle risposte) o di un’associazione/sindacato (21% delle risposte). Di conseguenza, i richiedenti asilo sono costretti a mettersi in fila davanti ai cancelli della questura fin dalla mattina presto, se non a partire dalla sera prima.

In alcune Questure d’Italia (Roma, Perugia, Savona, Torino, Sassari, Lucca) è stato rilevato che vengono ricevute solamente 5-15 domande al giorno: chi non rientra tra i primi della fila viene rinviato ai giorni successivi senza un appuntamento. E il giorno dopo potrebbe accadere di nuovo. Una pratica che diversi Tribunali hanno condannato ma nulla è cambiato. Quali che riescono a superare tutti gli ostacoli e presentano la domanda d’asilo devono comunque attendere ancora, incrociando le dita: possono passare mesi tra la presentazione della domanda di asilo e la formalizzazione, malgrado la legge preveda espressamente che la domanda di protezione internazionale debba essere formalizzata entro il termine di tre giorni lavorativi o, in caso di arrivi eccezionali, entro dieci giorni. In 23 province d’Italia ai richiedenti asilo non è stato possibile accedere all’accoglienza durante l’intero procedimento sulla base di una presunta “indisponibilità di posti nel circuito di accoglienza”, anche se la legge prevede l’obbligo di individuare soluzioni immediate. 

Del resto, pensateci bene, cosa c’è di meglio di concimare un’emergenza per proporsi come risolutori? Accade così, da molto e ancora per molto. 

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«Ma voi lo vedete il Pnrr?»

È una voce che si sente nei bar. «Ma voi lo vedete il Pnrr?». L’avevano raccontato come la più ingente valanga di soldi riversata sull’Italia negli ultimi decenni e i cittadini ovviamente covano l’ambizione che in questo giro la vita cambi davvero: un enorme salto di qualità nelle infrastrutture, nei servizi, nella ripartenza di un’economia che ha stagnato per troppo prima di essere tramortita dagli anni della pandemia. 

Il lavoro, ad esempio, avrebbe dovuto essere nuovo e con lo slancio inclusivo europeo. Gli operatori che vincono bandi del Pnrr devono assumere il 30% di donne e il 30% di giovani. È una priorità cosiddetta trasversale, una di quelle che dovrebbe capitare qualsiasi cosa accada. Openpolis ha fatto i conti ad aprile dell’anno scorso rilevando che il 69% dei bandi aperti fino ad allora non aveva previsto quote di assunzioni riservate a donne e giovani. A distanza di un anno – l’ultimo aggiornamento dei dati è del 4 aprile 2024 – e con molti più bandi e gare aperte, la situazione purtroppo è rimasta pressoché invariata. La maggior parte delle stazioni appaltanti ricorre alle deroghe. Di questi, il 42% ha dichiarato come motivo l’importo ridotto del contratto.

E quindi gli effetti limitati delle quote di assunzione rispecchiano le condizioni di maggiore svantaggio socio-economico ed educativo, di donne e giovani.

E così nel 2023 il 42,3% delle donne tra i 15 e i 64 anni di età risultano inattive. 1 su 4 giovani di 15-34 anni non lavorano e non sono inseriti né in un percorso di studio né di formazione (Neet). E sul tavolo rimangono quei 2/3 di bandi che non rispettano le priorità. «Ma voi lo vedete il Pnrr?»

Buon martedì. 

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Da mai candidato a capolista: altra giravolta di Calenda

Nella serata di domenica 28 aprile il leader di Azione Carlo Calenda ha annunciato che si candiderà alle elezioni europee di giugno, smentendo quanto promesso pochi mesi fa. Calenda ha giustificato la sua giravolta dicendo che “la discesa in campo della presidente del Consiglio e la sua piattaforma antieuropea e sovranista cambiano completamente lo scenario”.  Dice Calenda che le candidature di Meloni, Tajani e Schlein lo hanno spinto a candidarsi “per dare ancora più forza alla squadra di straordinaria qualità che abbiamo messo in campo da settimane, con un programma netto e chiaro”. 

Il 12 gennaio di quest’anno Calenda aveva detto: “Non dobbiamo candidarci, nessuno si deve candidare dei leader, perché in Europa bisogna andarci”. Il 20 gennaio alla domanda su una sua candidatura aveva risposto: “No, io no, perché penso che si deve candidare chi va in Europa. Se si candida chi sa già di non andare in Europa, è uno svilimento degli elettori. È una presa in giro degli elettori”. Che Calenda cambi idea è legittimo. La critica – la solita – è a un atteggiamento paternalistico con piglio da maestrino con cui ogni volta giudica gli altri per poi assolvere sempre sé stesso.

Che oggi il leader di Azione provi a convincerci che la sua candidatura è perché così fan tutti non fa che peggiorare la situazione. Se si decide di contestare le candidature finte di leader che non andranno a Bruxelles per imporre un’altra etica toccherebbe fare ciò che si dice. L’ipocrisia già fastidiosa di suo diventa insopportabile se condita con la saccenza. Altrimenti a Calenda non resterà che essere quel buon politico che sarebbe stato votabile se fosse riuscito a fare ciò che diceva. Come tutti i populisti. 

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Dietro la propaganda niente: benvenuti nella Giorgiacrazia

Benvenuti nella Giorgiacrazia, dove anche il cognome è un inutile orpello per la capa che vuole essere lo Stato. Sono passate 48 ore da quando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato la candidatura per le prossime elezioni europee, in scia con l’ipocrisia molto italiana di candidarsi a ruoli che non si ha intenzione di ricoprire per sfruttare il proprio nome come logo. Meloni l’ha voluto fare a Pescara, tra i fedelissimi riuniti in un bagno rigenerante di tifosi travestito da conferenza programmatica.

Meloni mal sopporta i giornalisti, sta scomoda nelle istituzioni italiane e europee ma ama farsi applaudire dalla sua borgata itinerante. A Pescara di fronte ai fedelissimi si è lanciata in un monologo (arte prediletta) in cui ha potuto liberamente trasformare il Pnrr, l’economia e l’immigrazione in mangime elettorale. “Alle europee del 2019 noi abbiamo messo insieme il 6,5 per cento dei consensi. Era la prima volta che ottenevamo un risultato che ci metteva, come dire, al riparo da qualsiasi soglia di sbarramento”, ha declamato la leader di Fratelli d’Italia, convinta che il trucco retorico dell’underdog possa funzionare addirittura seduta a Palazzo Chigi.

Rivendere le prossime elezioni per Bruxelles come l’occasione per essere una novità è un gioco un po’ stantio. Fratelli d’Italia è nato come partito nel 2012, 12 anni fa, entrando nel Parlamento europeo già nel 2019. Ma immaginare ogni volta un nuovo tetto di cristallo è la narrazione che preferisce. Poi inizia l’elenco dei successi, non del tutto veri. “Il debito sta tornando nelle mani degli italiani grazie al successo dei Btp Valore”, ha detto Meloni, intestandosi la discesa del debito pubblico italiano grazie all’emissione dei titoli di Stato. Pagella Politica fa due conti: secondo i dati più aggiornati della Banca d’Italia, a gennaio 2024 il debito pubblico italiano valeva circa 2.849 miliardi di euro: quasi il 28 per cento era detenuto dai cosiddetti “non residenti”. Come suggerisce il nome, rientrano in questa categoria i singoli investitori e gli istituti finanziari che non sono residenti in Italia. Da quando si è insediato il governo Meloni, questa percentuale è rimasta di fatto stabile. A novembre 2022 il 27 per cento del debito pubblico era detenuto infatti da “non residenti”. La stessa percentuale è stata registrata a giugno 2023.

La Giorgiacrazia fra palco e realtà

Poi ci sono le abituali bugie sull’occupazione che per la presidente del Consiglio avrebbe “toccato il record” grazie a “un’inversione di tendenza”. Peccato che la tendenza sia sempre la stessa (in crescita) dal 2021 (era il governo Draghi) e l’Italia resta sempre all’ultimo posto dell’Unione europea. Non poteva mancare la retorica sull’immigrazione: “grazie all’accordo tra Unione europea e Tunisia le partenze sulle rotte del Mediterraneo centrale sono diminuite del 60 per cento”, dice Meloni. Il 2023 è stato il secondo anno con più sbarchi dal 2016 eppure per Meloni il calo (che non è del 60% ma solo del 12%) sarebbe merito dei suoi accordi con Kaïs Saïed.

Meloni dice che “il traffico degli esseri umani vale più della droga” ma nessuno sa dove lo abbia letto: escondo le stime più aggiornate delle Nazioni Unite, nel mondo il profitto del traffico di migranti arriva fino ai 7 miliardi di dollari, mentre quello degli esseri umani fino a 32 miliardi. Il traffico di droga vale di più, superando i 300 miliardi di dollari. Numeri a caso con il Pnrr con la presidente del Consiglio che esulta perché l’Italia “è la nazione più avanti per rate erogate” omettendo che molti altri Paesi non hanno concordato l’erogazione di fondi in dieci rate come noi. Un misto di mezze verità e di propaganda retequattrista, con il nome Giorgia da scrivere sulla scheda per illudersi di darle del tu.

È una Meloni che assomiglia ogni giorno di più alla politica “stile Mediaset” del “se ce l’ho fatta io ce la farete anche voi”, tutta tesa a identificare le sorti del Paese con gli umori di una persona. Lì Silvio rivendicava i successi imprenditoriali, qui è il sogno americano in salsa borgatara. Così Meloni può permettersi di irridere anche il suo alleato Matteo Salvini che vorrebbe il ponte ma non riesce a stare a galla nemmeno nel suo partito. In casa Lega la candidatura del generale Roberto Vannacci sta serrando le fila degli ostili al ministro e rischia di essere un acceleratore della caduta facilmente prevedibile. Salvini sa bene che Vannacci ha già iniziato a correre in solitaria, prendendo le distanze dalla Lega e quindi anche dalle sorti del suo segretario. L’unica possibilità di salvare la sua leadership per Salvini è un miracolo elettorale che non accadrà. La campagna elettorale per le europee ha l’aria di essere una lunga agonia. E così tra una Meloni in delirio di onnipotenza e un Salvini che tenta la xenofobia come colpo di coda basta che il presidente di Forza Italia Antonio Tajani rimanga zitto e in disparte per farlo sembrare il nuovo Churchill.

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L’ossessione del carcere per i giornalisti: nuovi emendamenti

Incapaci di liberarsi dall’ossessione delle manette per i giornalisti gli emendamenti ora fanno il giro largo e ritornano sul tavolo della commissione Giustizia alla Camera sul ddl Cybersicurezza. Le firme sono sempre le stesse: c’è Forza Italia che continua la lotta al giornalismo del suo fondatore Silvio Berlusconi e ci sono i due centri del fu terzo polo (Azione e Italia viva) che in nome del garantismo aggiungono carcere. 

Gli emendamenti sono firmati da Enrico Costa di Azione, Maria Elena Boschi di Italia viva e Tommaso Calderone di Forza Italia. I calendiani e renziani vorrebbero il carcere da sei mesi fino a tre anni per chiunque, fuori dai casi di concorso, divulghi “mediante qualsiasi mezzo” informazioni provenienti da sistema informatico conoscendone la provenienza illecita. Calderone rilancia con 8 anni di carcere per chiunque con “qualsiasi mezzo” divulghi dati sottratti da un sistema informatico. 

Nel ddl Cybersicurezza spuntano emendamenti di Forza Italia, Azione e Italia viva che prevedono fino a otto anni di carcere

Il sottosegretario Mantovano nei giorni scorsi ha precisato che il governo deve ancora ragionare sugli emendamenti proposti, provando a non fare accendere l’allarme. È però evidente che i “chiunque” citati all’interno delle proposte non siano altro che i giornalisti, con particolare riferimento ai tre giornalisti del quotidiano Domani Giovanni Tizian, Nello Trocchia, Stefano Vergine e Federico Marconi sotto inchiesta a Perugia per accesso abusivo e rivelazione di segreto coinvolti da un esposto del ministro Crosetto che ha chiesto ai magistrati di individuare le fonti.

Lo scontro tra Crosetto e Domani è nato quando il quotidiano ha accusato il neo ministro della Difesa per potenziali conflitti d’interesse tra le sue attività da consulente nel settore della difesa e il ruolo istituzionale che ricopre come ministro. Crosetto che ha lavorato a lungo con aziende che si occupano di armi, incluso Leonardo, ha annunciato la liquidazione delle sue società, decisioni considerate non sufficienti per allontanare i sospetti su alcune scelte che potrebbe fare come ministro, come hanno denunciato anche altri giornali, tra cui il Giornale con il suo direttore Alessadro Sallusti, querelato da Crosetto.

Se gli emendamenti dovessero diventare legge sarebbe la fine del giornalismo investigativo. Rimarrebbe il giornalismo come amplificatore del potere, l’unico che piace moltissimo ai politici di destra, di centrodestra e di quel centro centro che piace tanto alla destra.  

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Due milioni di lavoratori italiani sono costretti al part-time

Una delle cause delle gravi disuguaglianze che affliggono le società è la perdita di potere negoziale del lavoro. In particolare in Italia ci sono troppe lavoratrici e troppi lavoratori che vivono il lavoro come un dono e non come un diritto costituzionalmente riconosciuto, e tra i fenomeni che caratterizzano il Paese, in modo anomalo rispetto al contesto europeo, c’è il part-time involontario che oggi riguarda oltre 2 milioni di lavoratori e lavoratrici.

In Italia quasi un lavoratore su cinque ha un contratto part-time ma nel 57,9% dei casi si tratta di una scelta obbligata

Per il Forum disuguaglianze e diversità si tratta di un paradosso “se si pensa che il lavoro a orario ridotto è considerato una delle strade a cui in molte parti del mondo si guarda per consentire che la riduzione dei tempi di lavoro si trasformi per tutti, indipendentemente dal genere, in un riequilibrio fra tempi di vita e tempi di lavoro”. Invece in Italia il part-time è “molto spesso è l’esito involontario di una marginalizzazione del lavoro che colpisce soprattutto le donne che non traggono da questa condizione benefici, né sul fronte della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro né della remunerazione”. 

Il Forum per le disuguaglianze ha annunciato di avere elaborato un report che verrà presentato nei prossimi giorni. Già il mese scorso la Cgil aveva denunciato che in Italia quasi un lavoratore su cinque in Italia ha un contratto part time ma nel 57,9% dei casi si tratta di una scelta obbligata. È il dato più alto di tutta l’Eurozona. “Se alcuni lavoratori preferiscono o scelgono il part time come un’opportunità – aveva spiegato la Cgil – la realtà evidenzia come per la stragrande maggioranza dei part time involontari le condizioni di estrema flessibilità nell’uso degli orari rendono i lavoratori persone che si devono adattare al ciclo e agli orari delle aziende”.

Le ore che eccedono quelle previste dal contratto di lavoro spesso vengono retribuite in nero

O peggio: “Come emerge anche dall’attività ispettiva condotta dall’Inail, in un rapporto regolarizzato a part time spesso si nasconde un full time irregolare”. Le ore che eccedono quelle previste dal contratto di lavoro, a volte, vengono retribuite in nero, e spesso neanche per intero. La retribuzione media annua di un lavoratore part time, calcola la Cgil, è di 11.451 euro, e si abbassa ancora nel Mezzogiorno, ma se all’orario ridotto si aggiunge anche il contratto a tempo determinato, e quindi l’occupazione discontinua, il salario lordo medio annuo si riduce a 6.267 euro.

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Casa lettori recensisce “I mangiafemmine”

(Casa lettori recensisce “I mangiafemmine”)

«È riduttivo definire “I mangiafemmine”, pubblicato da Fandango Libri, un romanzo distopico.

Il testo assume più forme letterarie riuscendo a fare luce sulla contemporaneità.

Uno sguardo che va oltre il presente, lucido, asciutto, crudo e bellissimo.

Ambientato nel paese di DF riesce a cogliere le ambiguità di una classe politica che sottovaluta le problematiche sociali.

La figura di Valerio Corti è tragica icona di un modo di pensare distorto e malato.

A fare da controcanto le storie delle vittime di femminicidio.

Beatrice, Frida, Sonia danno dignità a coloro che non ci sono più.

Giulio Cavalli scrive un testo politico di forte impatto emotivo.

Si fa voce collettiva e rompe il silenzio complice di tutti noi.

La scrittura curata nel linguaggio ha risonanze teatrali, suggestioni immaginifiche, fluidità stilistica.

Ricca di sperimentazioni visive è specchio dove dovremo avere il coraggio di guardarci.

Appariranno maschere o false parvenze di umanità?

Complimenti all’autore per la creatività e l’originalità di un’opera che scuote le coscienze.»

https://casadeilettori.blogspot.com/2024/04/i-mangiafemmine-giulio-cavalli-fandango.html