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Giulio Cavalli

Per 34 volte la maggioranza è stata “salvata” dall’opposizione

Per 34 volte la maggioranza di governo è stata “salvata” da voti di esponente dell’opposizione che sono stati stampella del governo. Openpolis ha preso in considerazione 34 i voti finali, tra i 49 presi in esame, in cui almeno un esponente dell’opposizione ha votato a favore di un provvedimento della maggioranza sottolineando come in 3 occasioni li esponenti dell’opposizione che hanno votato a favore sono stati ben 12. Si tratta della legge a favore delle persone anziane, della conversione del decreto legge in materia di strumenti finanziari e della conversione del decreto legge finalizzato al potenziamento della ricostruzione nei territori del centro Italia colpiti dai terremoti del 2009 e del 2016. 

La maggioranza dall’inizio della legislatura ha rischiato più volte di essere battuta

In altri casi invece i voti dell’opposizione avrebbero potuto essere decisivi. Tra questi Openpolis cita il voto sul divieto di produzione di carne coltivata (approvata con 159 voti favorevoli, inclusi 4 provenienti dall’opposizione), quello sulla legge contro il deturpamento dei beni culturali pensata per perseguire i manifestanti per la lotta al cambiamento climatico (138 voti favorevoli), quello sulla ratifica dell’accordo Italia-Albania in materia di immigrazione (155 favorevoli) e quello riguardante l’istituzione della commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Covid (132) che ha visto, tra gli altri, i voti favorevoli degli esponenti di Italia viva. 

Molti provvedimenti sono stati approvati con un numero di voti piuttosto basso

Al senato invece la “soglia di sicurezza” per la maggioranza rispetto ai potenziali contrari è di 87 voti. Anche in questo caso non è stato sempre necessario superare questo valore per approvare un Ddl. È però interessante osservare che rispetto a Montecitorio in questo caso le situazioni a rischio sono state molte meno: 29 in totale. L’opposizione avrebbe potuto influire neil voto sulla legge di conversione del decreto flussi migratori (approvato con 84 voti favorevoli), quello sul Ddl in tema di deturpamento di beni culturali (85), quello sulla conversione del decreto legge sulla governance del cosiddetto Piano Mattei (85) e infine il voto sulla recente riforma in materia di voto in condotta per gli studenti (74). Quest’ultima è tra l’altro la norma approvata con il più basso numero di voti favorevoli dall’inizio della legislatura. 

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Europee, la vera sostituzione etnica è nelle liste elettorali

Le elezioni europee? Un generale con un’ossessione per le diversità, un ex sottosegretario alla cultura invischiato in brutte storie di quadri scomparsi e costretto alle dimissioni dalla stessa leader che ora lo infila in lista, un leader di partito che se n’è andato da Bruxelles per andare in Senato candidandosi a Roma per poi dimettersi e che ora si ricandida per Bruxelles ma non ci andrà, una capa di governo capolista per marketing, un ex presidente del Consiglio che viola il patto con i suoi alleati e si infila in lista all’ultimo secondo all’ultimo posto perché così si nota di più: l’unica vera sostituzione etnica in Italia non arriva dai barconi sul mare ma dalle liste elettorali per le prossime elezioni europee. Le candidature dei partiti italiani assomigliano molto poco al Paese che siamo, ma dicono di una società politica che rappresenta sé stessa, i suoi tic, le sue sofferenze elettorali. 

I tre candidati capolista dappertutto alle elezioni europee sono la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il leader di azione Carlo Calenda e il fumantino Cateno De Luca (con il suo Sud chiama Nord). La leader di Fratelli d’Italia rinuncia al marchio del suo cognome Meloni (per cui aveva pensato a candidare la sorella Arianna) e punta tutto sull’essere “Giorgia” amica del popolo. L’onnipresenza in tutte le circoscrizioni ribadisce ciò che si sa da tempo: Fratelli d’Italia ha un serio problema di classe dirigente e la sfiducia di Meloni acuisce il problema. Nelle liste dei meloniani non manca comunque il familismo. Sfumata Arianna Meloni si è trovato un posto per il nipote del ministro Guido Crosetto eletto tre anni fa consigliere comunale a Torino con una campagna elettorale che puntava sul celebre cognome scritto a caratteri cubitali senza bisogno né del nome né di una foto. Giovanni Crosetto racconta che il celebre zio gli dà “importanti consigli”, oltre al cognome. Sarà. Meloni ha trovato un posto anche per il fratello del ministro Ciriani, sindaco di Pordenone. Nella grande famiglia di Fratelli d’Italia corre anche l’ex sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi. Era il 9 febbraio quando Meloni lo convinse alla dimissioni mentre infuriava la polemica su un dipinto scomparso da una villa e ricomparso nella collezione personale dell’ex sottosegretario e dopo la bacchettata dell’Antitrust che aveva definito “incompatibili” le attività del critico d’arte. Tre mesi dopo Sgarbi, inopportuno per un posto nel governo, viene ritenuto potabile per un seggio a Bruxelles. 

Le candidature dei partiti italiani assomigliano molto poco al Paese che siamo ma dicono di una società politica che rappresenta sé stessa, i suoi tic, le sue sofferenze elettorali

A proposito di personalismi: il leader di Azione Calenda lascia solo il Nord-ovest alla compagna di partito ed ex ministra Elena Bonetti. Anche il presidente di Forza Italia Antonio Tajani  e il leader di Italia viva si candidano in 4 circoscrizioni delle 5 disponibili. La segretaria del Pd Elly Schlein e la leader di +Europa sono candidate in 2 circoscrizioni. Leaderismo anche nei simboli, ovviamente. I nomi di Meloni, Calenda e De Luca campeggiano nei propri simboli elettorali. Il nome Bonino fa capolino nel contrassegno di Stati uniti d’Europa che tiene insieme +Europa e Italia viva. Forza Italia neanche per queste elezioni europee riesce a rinunciare al nome di Silvio Berlusconi, con l’effetto di una lunga seduta spiritica. 

Vorrebbe essere “società civile” il generale dell’esercito Roberto Vannacci candidato nella Lega di Salvini. La tentata mostrificazione del militare xenofobo è riuscita nella mirabile impresa di elevarlo a simbolo. Alla sua prima uscita ufficiale del duo Vannacci-Salvini due giorni fa a Roma mancavano quasi tutti i dirigenti della Lega. Quanto Vannacci possa rappresentare  il Paese è tutto da capire, viste le prese di distanze dei suoi stessi compagni di partito e l’indignazione di gran parte dei cittadini.

Sono di un’altra “società civile” le proposte che si ritrovano nelle altre liste. Nel Pd spazio ai giornalisti Marco Tarquinio e Lucia Annunziata insieme a Cecilia Strada e anche qui le posizioni (considerate troppo pacifiste) dei candidati esterni agitano il partito. I civici scelti da Giuseppe Conte e dalle primarie interne per il Movimento 5 stelle sono il direttore (uscente e dimissionario) de La Notizia Gaetano Pedullà, l’ex presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, l’ex presidente dell’Inps Pasquale Tridico e l’ex capitana della nazionale femminile di calcio Carolina Morace. Alleanza Verdi Sinistra punta sull’insegnante Ilaria Salis incarcerata in Ungheria e sui ritorni dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino e del sempiterno Leoluca Orlando. Alessandro Cecchi Paone ha scelto di candidarsi con Stati Uniti d’Europa, il capitano Ultimo la lista di Cateno De Luca mentre la lista pacifista di Santoro (sempre che venga ammessa) punta sull’attore Paolo Rossi e sullo scrittore Nicolai Lilin. 

Le cosiddette candidature “civiche” agitano Lega e Pd

Nel Partito democratico fa discutere anche la quinta candidatura consecutiva di Patrizia Toia, all’Europarlamento ininterrottamente dal 2004. “Ci sarò con l’energia e la convinzione che avete visto negli anni”, ha scritto Toia sul suo profilo Facebook. La deroga è stata votata “con la regola del silenzio assenso” in una votazione lampo convocata solo un paio d’ore prima. E a proposito di politici di lungo corso nella lista Stati Uniti d’Europa spicca il nome di Sandra Mastella, moglie del sempreverde Clemente. Sandra di cognome farebbe Lonardo ma di questi tempi conviene usare il cognome più comodo, con buona pace delle battaglie femministe. Tra i partiti che non hanno raccolto le firme per presentarsi alle elezioni c’è la strana coppia Alemanno-Rizzo, Alternativa popolare del sindaco di Terni Bandecchi, Forza Nuova, i Pirati e il Partito Animalista-Italexit che fu di Paragone. Quanto le liste possano assomigliare al Paese lo sceglieranno gli elettori l’8 e il 9 giugno. 

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Com’è andato il G7? Male

Che il G7 dei ministri dell’ambiente e dell’energia a guida italiana si sarebbe concluso in un poco quasi nulla era prevedibile osservando il poco peso dato al vertice dai membri del governo e dalla stampa più filogovernativa. Discutere di cambiamento climatico, perdita di biodiversità e inquinamento coordinati dal governo italiano che rasenta il negazionismo sui tre temi ha portato a licenziare un documento che pare un tema di buone intenzioni scritto alle scuole secondarie. 

L’ipocrisia è offensiva: nel documento di 35 pagine si riconosce il ruolo essenziale della società civile, in particolare dei gruppi vulnerabili e marginalizzati, dei lavoratori, dei sindacati e dei giovani, e che metteranno al centro dei loro sforzi per affrontare la tripla crisi e la transizione energetica, l’equità di genere e per la comunità Lgbtqia+. 

Quel grado e mezzo che dovrebbe essere l’obiettivo per tutti è tradito proprio dai paesi del G7 convenuti in Italia. L’impegno di ridurre le emissioni del 40-42%, al 2030 rispetto al 2019 si limiterà – se tutto va bene – 19-33% delle emissioni dove servirebbe almeno un 58%. Che per la prima volta si inserisca una data d’uscita dal carbone (nel 2035) serve a poco se si insiste a non voler mettere mano all’uscita dal gas e dal petrolio. Lo sforzo di trovare una definizione condivisa di sussidi inefficaci alle fonti fossili invece di programmarne l’eliminazione indica la chiara volontà di transitare il meno possibile in una transizione energetica più declamata che praticata. Va così.

Buon giovedì? 

Venaria Reale, Italy. People protest against the inaction of G7 climate ministers. Credit: M.BARIONA

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La dignità a tempo determinato

Diceva Enrico Berlinguer che il Primo maggio fosse l’unica festa civile capace di spingere gli uomini “a uscire dai loro tenaci particolarismi” per “rinnovare l’impegno di fare del lavoro il fondamento della dignità umana, la pietra di paragone di una reale giustizia, la condizione per una libertà vera, che è liberazione dal bisogno, dallo sfruttamento, dall’oppressione”.

Qualche decennio dopo Berlinguer è stato usato come clava alla kermesse di Fratelli d’Italia. La seconda carica dello Stato, Ignazio Maria Benito La Russa, ha strumentalizzato un applauso dedicato all’ex segretario del Pci mentre poco prima la sua capa Giorgia Meloni sventolava ancora il fantasma del comunismo. Il lavoro come fondamento della dignità umana si è spento di fronte ai numeri impietosi dell’Italia come ultimo Paese in Europa, dove i salari negli anni sono scesi mentre tutto intorno aumentavano. Il lavoro come pietra di paragone di una reale giustizia invece sta sotto un lenzuolo bianco insieme ai morti di lavoro che rimangono impuniti.

Nel loro caso la giustizia si impiglia nella catena di appalti e subappalti che tesse un tela mortale. Il lavoro come condizione per una libertà vera che è liberazione del bisogno è stato tradito dalla precarizzazione. Una libertà precaria o a tempo determinato non è libertà. È un respiro per trovare appena le forze per trascinarsi fino al prossimo tonfo, la prossima crisi aziendale, la prossima cassa integrazione (vera o fittizia). La liberazione dello sfruttamento invece riposa in pace con la bocciatura del salario minimo che avrebbe segnato il limite dell’indecenza.

Con i primi soli cominceranno a seccarsi nei campi i lavoratori per qualche spicciolo all’ora, ricominceranno le lagne degli imprenditori che lamentano la mancata inclinazione allo schiavismo di questa o di quella generazione. Il senso del lavoro in questo primo maggio 2024 sta in quei sette bonus decisi dal governo e nella mancetta da 100 euro che arriverà l’anno prossimo ma è stata annunciata in tempo per la prossima corsa elettorale. Il lavoro come concessione, quel che basta, e se fai il bravo una carota come premio. Al massimo l’ottavo bonus sarà un bel funerale pagato dallo Stato.

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Testi influenzati e omissis. Su Cutro verità in alto mare

Nel silenzio generale procedono le indagini e il processo sulla strage di Steccato di Cutro e dei suoi 94 morti, 20 dispersi e 81 sopravvissuti. A Crotone prosegue il processo nei confronti dei tre presunti scafisti Sami Fuat, di 50 anni, turco, e Khalid Arslan e Ishaq Hassnan, di 25 e 22 anni, pakistani, imputati di naufragio colposo, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte in conseguenza di altro reato.

Nel silenzio generale procedono le indagini e il processo sulla strage di Cutro. Il timore è che a pagare sarà qualche scafista a caso

Come sta andando? Faizi Hasib, uno dei superstiti del naufragio, ha detto ai giudici: “Un agente che mi interrogava mi ha detto che quello nella foto era il capitano della barca e di firmare accanto all’immagine. Ed io l’ho fatto”. Momenti di incredulità in aula. Il presidente della corte Edoardo D’Ambrosio e il pubblico ministero Pasquale Festa hanno chiesto di ripetere, non volendo credere alle proprie orecchie.

Hasib ha ribadito che la foto di Sami Fuat come “capitano della nave” gli era stata indicata dal poliziotto che lo stava interrogando: “Mi ha detto di firmare accanto alla foto di Suat, aggiungendo, comunque, che non ero obbligato a farlo”. Nel frattempo è attesa per metà maggio la chiusura delle indagini sulla catena dei soccorsi. Al momento gli indagati sono sei, tre dei quali sono stati omissati.

Gli altri sono il tenente colonnello Alberto Lippolis, comandante del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia, il sottufficiale Antonino Lopresti, e il colonnello Nicolino Vardaro, comandante del Gruppo aeronavale di Taranto. Che la tragedia fosse evitabile ormai è sotto gli occhi di tutti. Che alla fine possa pagare qualche scafista scelto a caso e nessun colletto bianco è il timore di molti.

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Migranti, il piano di Meloni: replicare in Europa il metodo Ruanda con la Tunisia

Il sogno nemmeno troppo nascosto è di replicare il metodo Ruanda anche in Europa con la Tunisia. Questa settimana nel Regno Unito è è stata approvata la controversa legge che autorizza alla deportazione forzata di persone richiedenti asilo in Ruanda. Una “vergogna nazionale” e “lascerà una macchia sulla reputazione morale di questo paese”, l’ha definito Sacha Deshmukh, responsabile di Amnesty international nel Regno Unito. L’agenzia tedesca Dw non ha dubbi: dietro ai tre nuovi accordi con la Tunisia come parte del Piano Mattei (per un totale di 105 milioni di euro) ci sarebbe l’individuazione di “un luogo privilegiato per i richiedenti asilo che entrano nell’Unione europea con mezzi irregolare” che potrebbe replicare il “piano Ruanda”. 

Ue e Italia vorrebbero replicare il piano di deportazione del Regno Unito ma la Tunisia non è considerata “luogo sicuro”

Ci sono due problemi difficilmente sormontabili. Il primo – che si potrebbe smussare con altro denaro – è che il presidente tunisino Kais Saied ha ribadito durante una riunione sulla sicurezza nazionale che la Tunisia “non diventerà né un centro né un punto di attraversamento” per i migranti subsahariani. Né, ha detto, accetterebbe i migranti “deportati dall’Europa”. La Tunisia sta lavorando per ridurre i numeri delle migrazioni. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati UNHCR, al 15 aprile 2024, le forze di pattuglia di frontiera tunisine avevano intercettato circa 21.000 migranti prima che potessero raggiungere le acque europee. Saied non ha intenzione di fare nulla di più.

Il secondo vero problema è che nessuno degli accordi affronta il fatto che la Tunisia non può essere considerata un “paese sicuro” poiché il presidente Saied non solo ha smantellato la maggior parte delle istituzioni democratiche dopo avere preso il potere nel luglio 2021 ma reprime anche i migranti nel suo Paese. “Oggi in Tunisia, migranti, richiedenti asilo e rifugiati affrontano gravi abusi commessi dalle forze di sicurezza, tra cui la Guardia Nazionale e la Guardia Costiera durante l’intercettazione in mare, e, una volta che le persone vengono intercettate, continuano a subire maltrattamenti, arresti arbitrari, detenzioni ed espulsione collettiva”, ha spiegato Salsabil Chellali, direttore tunisino presso l’ONG Human Rights Watch. In Tunisia mancano anche leggi nazionali sull’asilo e persino di un sistema di asilo che potrebbe concedere lo status di rifugiato o consentire alle persone di lavorare. Il sogno di avere trovato una nuova Ruanda per Giorgia Meloni è sfumato prima ancora di diventare un’idea. 

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Immigrazione, il calvario quotidiano nelle questure italiane per il rispetto dei diritti. La fotografia dell’Asgi

Come si chiama uno Stato in cui sono le questure a non garantire il rispetto dei diritti? Agli operatori e alle operatrici che tutti i giorni hanno a che fare con le questure italiane in tema di migrazioni è chiaro da tempo che l’amministrazione pubblica fa di tutto per sabotare l’accesso ai diritti fondamentali. Non potendo scrivere leggi che violino il diritto internazionale la mancata applicazione di quelle esistenti è la via più facile – e forse più vigliacca – per raggiungere lo stesso il risultato. Vengono così ostacolati l’accesso a diritti fondamentali, quali la protezione internazionale, l’accesso a misure di accoglienza o il rilascio di permessi di soggiorno. L’utenza straniera, senza poter far riferimento a mediatori linguistici e senza adeguata informativa legale, è particolarmente esposta a tali violazioni.

Per questo l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione ha dato il via a un progetto pilota per monitorare la situazione in 55 questure italiane. I risultati, manco a dirlo, fotografano un Paese in cui l’illegalità s’è fatta sistema. Leggendo la mappatura delle prassi illegittime delle questure italiane di Asgi si scopre che in moltissime province d’Italia i richiedenti asilo non riescono ad accedere alla propria questura di riferimento per presentare domanda di protezione internazionale (sono il 60% delle risposte ricevute al questionario di Asgi). Anche dopo l’avvenuto primo accesso in numerosi territori ai cittadini stranieri viene impedito di formalizzare la relativa domanda (21% delle risposte ricevute). 

Nelle questure italiane sono ostacolati l’accesso ai diritti fondamentali

Nella maggior parte delle questure considerate, i richiedenti asilo non riescono a presentare domanda di protezione internazionale in quanto viene richiesta loro l’esibizione di una dichiarazione di ospitalità (almeno in 40 province) ovvero del passaporto (almeno 3 province). Si tratta di richieste arbitrarie prive di fondamento normativo. Nella maggior parte dei casi, il cittadino straniero può prendere un appuntamento da solo (22% delle risposte) mentre negli altri casi l’accesso alla questura è garantito solo grazie ad un appuntamento rilasciato attraverso l’intervento di un avvocato (16% delle risposte) o di un’associazione/sindacato (21% delle risposte). Di conseguenza, i richiedenti asilo sono costretti a mettersi in fila davanti ai cancelli della questura fin dalla mattina presto, se non a partire dalla sera prima.

In alcune Questure d’Italia (Roma, Perugia, Savona, Torino, Sassari, Lucca) è stato rilevato che vengono ricevute solamente 5-15 domande al giorno: chi non rientra tra i primi della fila viene rinviato ai giorni successivi senza un appuntamento. E il giorno dopo potrebbe accadere di nuovo. Una pratica che diversi Tribunali hanno condannato ma nulla è cambiato. Quali che riescono a superare tutti gli ostacoli e presentano la domanda d’asilo devono comunque attendere ancora, incrociando le dita: possono passare mesi tra la presentazione della domanda di asilo e la formalizzazione, malgrado la legge preveda espressamente che la domanda di protezione internazionale debba essere formalizzata entro il termine di tre giorni lavorativi o, in caso di arrivi eccezionali, entro dieci giorni. In 23 province d’Italia ai richiedenti asilo non è stato possibile accedere all’accoglienza durante l’intero procedimento sulla base di una presunta “indisponibilità di posti nel circuito di accoglienza”, anche se la legge prevede l’obbligo di individuare soluzioni immediate. 

Del resto, pensateci bene, cosa c’è di meglio di concimare un’emergenza per proporsi come risolutori? Accade così, da molto e ancora per molto. 

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«Ma voi lo vedete il Pnrr?»

È una voce che si sente nei bar. «Ma voi lo vedete il Pnrr?». L’avevano raccontato come la più ingente valanga di soldi riversata sull’Italia negli ultimi decenni e i cittadini ovviamente covano l’ambizione che in questo giro la vita cambi davvero: un enorme salto di qualità nelle infrastrutture, nei servizi, nella ripartenza di un’economia che ha stagnato per troppo prima di essere tramortita dagli anni della pandemia. 

Il lavoro, ad esempio, avrebbe dovuto essere nuovo e con lo slancio inclusivo europeo. Gli operatori che vincono bandi del Pnrr devono assumere il 30% di donne e il 30% di giovani. È una priorità cosiddetta trasversale, una di quelle che dovrebbe capitare qualsiasi cosa accada. Openpolis ha fatto i conti ad aprile dell’anno scorso rilevando che il 69% dei bandi aperti fino ad allora non aveva previsto quote di assunzioni riservate a donne e giovani. A distanza di un anno – l’ultimo aggiornamento dei dati è del 4 aprile 2024 – e con molti più bandi e gare aperte, la situazione purtroppo è rimasta pressoché invariata. La maggior parte delle stazioni appaltanti ricorre alle deroghe. Di questi, il 42% ha dichiarato come motivo l’importo ridotto del contratto.

E quindi gli effetti limitati delle quote di assunzione rispecchiano le condizioni di maggiore svantaggio socio-economico ed educativo, di donne e giovani.

E così nel 2023 il 42,3% delle donne tra i 15 e i 64 anni di età risultano inattive. 1 su 4 giovani di 15-34 anni non lavorano e non sono inseriti né in un percorso di studio né di formazione (Neet). E sul tavolo rimangono quei 2/3 di bandi che non rispettano le priorità. «Ma voi lo vedete il Pnrr?»

Buon martedì. 

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Da mai candidato a capolista: altra giravolta di Calenda

Nella serata di domenica 28 aprile il leader di Azione Carlo Calenda ha annunciato che si candiderà alle elezioni europee di giugno, smentendo quanto promesso pochi mesi fa. Calenda ha giustificato la sua giravolta dicendo che “la discesa in campo della presidente del Consiglio e la sua piattaforma antieuropea e sovranista cambiano completamente lo scenario”.  Dice Calenda che le candidature di Meloni, Tajani e Schlein lo hanno spinto a candidarsi “per dare ancora più forza alla squadra di straordinaria qualità che abbiamo messo in campo da settimane, con un programma netto e chiaro”. 

Il 12 gennaio di quest’anno Calenda aveva detto: “Non dobbiamo candidarci, nessuno si deve candidare dei leader, perché in Europa bisogna andarci”. Il 20 gennaio alla domanda su una sua candidatura aveva risposto: “No, io no, perché penso che si deve candidare chi va in Europa. Se si candida chi sa già di non andare in Europa, è uno svilimento degli elettori. È una presa in giro degli elettori”. Che Calenda cambi idea è legittimo. La critica – la solita – è a un atteggiamento paternalistico con piglio da maestrino con cui ogni volta giudica gli altri per poi assolvere sempre sé stesso.

Che oggi il leader di Azione provi a convincerci che la sua candidatura è perché così fan tutti non fa che peggiorare la situazione. Se si decide di contestare le candidature finte di leader che non andranno a Bruxelles per imporre un’altra etica toccherebbe fare ciò che si dice. L’ipocrisia già fastidiosa di suo diventa insopportabile se condita con la saccenza. Altrimenti a Calenda non resterà che essere quel buon politico che sarebbe stato votabile se fosse riuscito a fare ciò che diceva. Come tutti i populisti. 

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Dietro la propaganda niente: benvenuti nella Giorgiacrazia

Benvenuti nella Giorgiacrazia, dove anche il cognome è un inutile orpello per la capa che vuole essere lo Stato. Sono passate 48 ore da quando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato la candidatura per le prossime elezioni europee, in scia con l’ipocrisia molto italiana di candidarsi a ruoli che non si ha intenzione di ricoprire per sfruttare il proprio nome come logo. Meloni l’ha voluto fare a Pescara, tra i fedelissimi riuniti in un bagno rigenerante di tifosi travestito da conferenza programmatica.

Meloni mal sopporta i giornalisti, sta scomoda nelle istituzioni italiane e europee ma ama farsi applaudire dalla sua borgata itinerante. A Pescara di fronte ai fedelissimi si è lanciata in un monologo (arte prediletta) in cui ha potuto liberamente trasformare il Pnrr, l’economia e l’immigrazione in mangime elettorale. “Alle europee del 2019 noi abbiamo messo insieme il 6,5 per cento dei consensi. Era la prima volta che ottenevamo un risultato che ci metteva, come dire, al riparo da qualsiasi soglia di sbarramento”, ha declamato la leader di Fratelli d’Italia, convinta che il trucco retorico dell’underdog possa funzionare addirittura seduta a Palazzo Chigi.

Rivendere le prossime elezioni per Bruxelles come l’occasione per essere una novità è un gioco un po’ stantio. Fratelli d’Italia è nato come partito nel 2012, 12 anni fa, entrando nel Parlamento europeo già nel 2019. Ma immaginare ogni volta un nuovo tetto di cristallo è la narrazione che preferisce. Poi inizia l’elenco dei successi, non del tutto veri. “Il debito sta tornando nelle mani degli italiani grazie al successo dei Btp Valore”, ha detto Meloni, intestandosi la discesa del debito pubblico italiano grazie all’emissione dei titoli di Stato. Pagella Politica fa due conti: secondo i dati più aggiornati della Banca d’Italia, a gennaio 2024 il debito pubblico italiano valeva circa 2.849 miliardi di euro: quasi il 28 per cento era detenuto dai cosiddetti “non residenti”. Come suggerisce il nome, rientrano in questa categoria i singoli investitori e gli istituti finanziari che non sono residenti in Italia. Da quando si è insediato il governo Meloni, questa percentuale è rimasta di fatto stabile. A novembre 2022 il 27 per cento del debito pubblico era detenuto infatti da “non residenti”. La stessa percentuale è stata registrata a giugno 2023.

La Giorgiacrazia fra palco e realtà

Poi ci sono le abituali bugie sull’occupazione che per la presidente del Consiglio avrebbe “toccato il record” grazie a “un’inversione di tendenza”. Peccato che la tendenza sia sempre la stessa (in crescita) dal 2021 (era il governo Draghi) e l’Italia resta sempre all’ultimo posto dell’Unione europea. Non poteva mancare la retorica sull’immigrazione: “grazie all’accordo tra Unione europea e Tunisia le partenze sulle rotte del Mediterraneo centrale sono diminuite del 60 per cento”, dice Meloni. Il 2023 è stato il secondo anno con più sbarchi dal 2016 eppure per Meloni il calo (che non è del 60% ma solo del 12%) sarebbe merito dei suoi accordi con Kaïs Saïed.

Meloni dice che “il traffico degli esseri umani vale più della droga” ma nessuno sa dove lo abbia letto: escondo le stime più aggiornate delle Nazioni Unite, nel mondo il profitto del traffico di migranti arriva fino ai 7 miliardi di dollari, mentre quello degli esseri umani fino a 32 miliardi. Il traffico di droga vale di più, superando i 300 miliardi di dollari. Numeri a caso con il Pnrr con la presidente del Consiglio che esulta perché l’Italia “è la nazione più avanti per rate erogate” omettendo che molti altri Paesi non hanno concordato l’erogazione di fondi in dieci rate come noi. Un misto di mezze verità e di propaganda retequattrista, con il nome Giorgia da scrivere sulla scheda per illudersi di darle del tu.

È una Meloni che assomiglia ogni giorno di più alla politica “stile Mediaset” del “se ce l’ho fatta io ce la farete anche voi”, tutta tesa a identificare le sorti del Paese con gli umori di una persona. Lì Silvio rivendicava i successi imprenditoriali, qui è il sogno americano in salsa borgatara. Così Meloni può permettersi di irridere anche il suo alleato Matteo Salvini che vorrebbe il ponte ma non riesce a stare a galla nemmeno nel suo partito. In casa Lega la candidatura del generale Roberto Vannacci sta serrando le fila degli ostili al ministro e rischia di essere un acceleratore della caduta facilmente prevedibile. Salvini sa bene che Vannacci ha già iniziato a correre in solitaria, prendendo le distanze dalla Lega e quindi anche dalle sorti del suo segretario. L’unica possibilità di salvare la sua leadership per Salvini è un miracolo elettorale che non accadrà. La campagna elettorale per le europee ha l’aria di essere una lunga agonia. E così tra una Meloni in delirio di onnipotenza e un Salvini che tenta la xenofobia come colpo di coda basta che il presidente di Forza Italia Antonio Tajani rimanga zitto e in disparte per farlo sembrare il nuovo Churchill.

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