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Ora, dite la verità, non vi sentite immensamente più sicuri sapendo che un esercito di ragazzini affolla le carceri pronto ad affinare inclinazioni delinquenziali?

Dal 1998 (primo dato storico registrato da Antigone) ad oggi non si erano mai registrati numeri così alti. E sarebbero potuti essere anche più alti senza la disposizione, fortemente negativa, che dà potere ai direttori di inviare i giovani adulti (ragazzi fino a 25 anni che hanno commesso un reato da minorenni) nelle carceri per adulti, interrompendo così relazioni educative importanti.
In linea con le aspettative più negative scaturite dall’approvazione del decreto Caivano e da un cambio di paradigma nella giustizia minorile, con un approccio maggiormente punitivo, il sovraffollamento sta iniziando ad arrivare anche negli IPM. Il modello della giustizia minorile in Italia, fin dal 1988, data in cui entrò in vigore un procedimento penale specifico per i minorenni, aveva sempre messo al centro il recupero dei ragazzi, in un’età cruciale per il loro sviluppo, nella quale educare è preferibile al punire, garantendo tassi di detenzione sempre molto bassi. “Quello che registriamo – spiega l’associazione Antigone – e che avevamo denunciato, sia durante le audizioni parlamentari svolte nel merito del decreto Caivano, sia nel presentare il nostro 7° rapporto sulla giustizia minorile (“Prospettive minori“) lo scorso mese di febbraio, è invece come si sia intrapresa una strada che cancella questi 35 anni di lavoro con la prospettiva drammatica e attuale di perdere ragazzi e ragazze per strada”.

Ora, dite la verità, non vi sentite immensamente più sicuri sapendo che un esercito di ragazzini affolla le carceri pronto ad affinare inclinazioni delinquenziali?

Buon giovedì. 

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Ma i programmi elettorali per le europee?

La legge elettorale per le elezioni europee che si svolgeranno l’8 e il 9 giugno non prevede l’obbligo per i partiti di presentare il programma elettorale. Pagella politica ha pubblicato i programmi presentati finora, mentre la campagna elettorale è già iniziata da un bel pò. Si ritrovano solo i programmi elettorali di Forza Italia-Noi moderati, di Azione, della lista Pace terra dignità di Michele Santoro e della lista Libertà di Cateno De Luca. 

Gli altri partiti politici sono in campagna elettorale senza avere ancora reso pubblico ciò che vogliono fare in Europa. Molti di loro lo pubblicheranno a breve (quelli di Fratelli d’Italia sono incagliati sulla guerra in Ucraina, ad esempio) e molto probabilmente qualcuno ne farà a meno. Secondo il direttore di Pagella politica Giovanni Zagni «forse è meglio così: nella politica italiana si ha la distinta sensazione che gli impegni presi per iscritto, pubblicamente, in modo netto siano da evitare». L’assenza di un programma scritto permette comunque ai partiti di presentare candidati con idee sostanzialmente opposte su alcuni punti cruciali, Le elezioni diventano così un’adesione ideale – più che programmatica – all’una o all’altra parte, con profili sempre già vicini alla tifoseria. 

Queste prime settimane di campagne elettorale hanno offerto un dibattito molto povero sui temi europei, come se le competenze del Parlamento europeo fossero sovrapponibili a quello nazionale. Così la politica diventa, ancora una volta, un’ossessiva carrellata di influencer. 

Buon giovedì. 

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L’identità nazionale insegnata ai bambini. Davvero.

Accade così, di giorno in giorno, di notizia in notizia, che alla mattina tocchi scrivere l’ennesima notizia dell’ennesimo segnale preoccupante di un governo reazionario che conta sulla sindrome della rana bollita dei suoi cittadini. Accade tutti i giorni e ogni volta è uno spostamento dell’asticella di qualche centimetro senza la consapevolezza di quanta fatica richiederà ridefinire i confini della Costituzione. 

È notizia di ieri che il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara avrebbe istituito una commissione per la revisione delle indicazioni nazionali e delle linee guida relative al primo e al secondo ciclo di istruzione. Nessun docente è stato coinvolto. Si parla genericamente di una commissione di esperti che il ministro ha nominato in base a “comprovata qualificazione scientifica e professionale”. Mistero sui nomi, tranne la direzione affidata alla professoressa Loredana Perla dell’università di Bari.

Il sito Tecnica della scuola frugando ha trovato l’ultimo libro della professoressa Perla scritto con Ernesto Galli Della Loggia (Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo) che di fatto è un manifesto programmatico per riscrivere le Indicazioni nazionali del primo ciclo scolastico. L’incipit è chiarissimo: “Il tema dell’identità italiana è un tema considerato con diffidenza specialmente per una ragione ideologica oramai radicatasi nei contesti della pedagogia nazionale negli ultimi vent’anni. Infatti, essendo associata storicamente alla costruzione etnica degli stati, l’identità è stata tematizzata quasi prevalentemente come radice del potere e fonte della diffidenza verso tutte le ‘diversità’”. Stop alla multiculturalità quindi e accelerazione sull’identità nazionale. Con buona pace degli studi di questi ultimi vent’anni, portati avanti da Mauro Ceruti, Italo Fiorin e ispirati al filosofo francese Edgar Morin. 

Nel libro Galli Della Loggia (valente editorialista di un quotidiano ritenuto progressista, val bene ricordarlo) propone un ben preciso curriculum di storia e geografia per l’intero percorso del primo ciclo: si parte dal primo anno della primaria con il “racconto a mo’ di favola di Iliade, Odissea ed Eneide” per concludere il terzo anno della secondaria di primo grado con le vicende di “Mani pulite” e con l’irrompere della “globalizzazione” nella storia del pianeta.

È l’impianto valorale della scuola dei Balilla. Ora mancano i problemi geometrici e aritmetici per calcolare la superficie complessiva delle province italiane della Libia o le bombe sganciate da un aereo da guerra. Poi il moto uniforme era spiegato con l’esempio del passo dell’oca. Poi la grammatica insegnata proponendo l’analisi logica di frasi come “Io ho lavorato con piacere tutto il giorno” o “I nemici si affrontano con coraggio”. Poi le letture de “La razza latina”, “Gli ebrei”, “Parla il Duce” o “L’emigrazione”. 

Quando la scuola diventa culla dell’ideologia fascista il passo è compiuto. 

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I padroni della ferriera

Il brutto spettacolo è andato in onda sulle reti Rai che crollano in ascolti e credibilità per la gioia degli eredi di Silvio Berlusconi che nel mentre capitalizzano la crisi dell’azienda pubblica. “Domani i giornalisti e le giornaliste della Rai, per la prima volta dopo molti anni, si asterranno totalmente dal lavoro per protestare contro le scelte del vertice aziendale che accorpa testate senza discuterne col sindacato, non sostituisce coloro che vanno in pensione e in maternità facendo ricadere i carichi di lavoro su chi resta, senza una selezione pubblica e senza stabilizzare i precari, taglia la retribuzione cancellando unilateralmente il premio di risultato”, spiega un video del sindacato. “In questi giorni è diventato di dominio pubblico il tentativo della Rai di censurare un monologo sul 25 Aprile, salvo poi, in evidente difficoltà, cercare di trasformarla in una questione economica. Preferiamo perdere uno o più giorni di paga, che perdere la nostra libertà, convinti che la libertà e l’autonomia del servizio pubblico siano un valore di tutti. E la Rai è di tutti”, conclude il comunicato.

Dall’azienda hanno il coraggio di rispondere che mai “alcuna censura o bavaglio è stato messo sull’informazione” intimando all’Usigrai di “cessare di promuovere fake news che generano danno all’immagine dell’azienda”. Così al sindacato tocca sottolineare i “toni da padroni delle ferriere” e “l’accusa stantia di fare politica e di far circolare fake news” quando “non si hanno contenuti”. Un litigio bell’e buono, sotto gli occhi di telespettatori esterrefatti un governo che bolla come ideologiche le rivendicazioni sindacali, peggio di un film di Peppone e don Camillo, come sottolinea giustamente la Fnsi. 

Non sono bisticci tra giornalisti e non si tratta nemmeno di una polemica interna all’azienda Rai. Si tratta di una deriva che ogni giorno esonda di qualche metro e che riguarda tutti. Chissà quando ce ne accorgeremo. 

Buon lunedì. 

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Buon primo maggio il giorno dopo

Il 2 maggio, appena passato il primo maggio riempito di festa e di promesse, le solite, sono morti tre lavoratori, in Campania in un perimetro di 40 chilometri, e in Sicilia.

A nord di Napoli, a Lettere, un operaio di 57 anni è precipitato dal terzo piano di un palazzo dove si stava allestendo un cantiere edile. L’incidente è avvenuto in tarda mattinata, in via Depugliano. A Casalnuovo, a nord di Napoli, un operaio 60enne ha perso la vita in un cantiere in viale dei Tigli. Si chiamavano Raffaele Manzo e Vincenzo Coppola. La terza morte sul lavoro in un cantiere edile a Floridia, nel Siracusano: vittima un 59enne, operaio della ditta che si stava occupando dei lavori sul tetto della casa. Si è verificato un cedimento e l’uomo è caduto ed è stato poi stato travolto dal materiale.

Il primo maggio Mario Mondello, 64 anni, è morto cadendo in un laghetto artificiale con il suo trattore che si è ribaltato. Ad aprile sono morti 103 lavoratori, 83 sul luogo del lavoro e 20 in itinere, per una media di 3,4 al giorno. Siamo a 363 dall’inizio dell’anno, con una media di 3 al giorno. 

Mentre tutto questo accade l’Inail e il governo esultano per «il calo delle morti bianche». Perché? Inail scrive che “le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Istituto entro il terzo mese del 2024 sono state 145.130 (+0,4% rispetto a marzo 2023), 191 delle quali con esito mortale (-2,6%) rispetto alle 196 registrate nel primo trimestre 2023”. Ma poi si legge di “un incremento dei casi avvenuti in occasione di lavoro, passati da 148 a 151, e un calo di quelli in itinere, da 48 a 40”. Come al solito ci si capisce poco. Da tempo si chiede che i dati dei lavoratori siano forniti con il tipo di contratto in essere nel momento del decesso. La risposta è sempre silenzio. 

Buon venerdì. 

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La lezione dell’Urnwa

Questa mattina Francesca Mannocchi su La Stampa scrive del rapporto Colonna, commissionato dalle Nazioni Unite a seguito delle accuse israeliane sui presunti legami del personale dell’Unrwa con Hamas. «A marzo Israele ha reso pubbliche affermazioni secondo cui un numero significativo di dipendenti dell’Unrwa sono membri di organizzazioni terroristiche. Tuttavia, Israele deve ancora fornire prove a sostegno di queste affermazioni», si legge nell’analisi del gruppo di esperti coordinati da Catherine Colonna, ex ministra degli Esteri francese. 

Nel rapporto si legge che l’Unrwa dovrebbe rafforzare il controllo sui suoi dipendenti e che Israele non ha mai mosso obiezioni sui nominativi dei lavoratori dell’agenzia, forniti in elenco a Israele fin dal 2011. 

Il furioso dibattito sull’Unrwa, come molti degli scontri che strumentalizzano le guerra, è stato superato dai bombardamenti tra Israele e Iran. Chi sfrutta le guerre per acuire le polarizzazioni politiche ha trovato altro pane per i suoi denti. Intanto l’agenzia si ritrova con i fondi tagliati (solo gli Usa contribuivano al 30% delle sue attività), i dipendenti additati come criminali e alcuni conti correnti bloccati. 178 dipendenti dell’agenzia dell’Onu sono stati uccisi e gran parte delle sue strutture sono state distrutte dai bombardamenti. 

La morale della storia sarebbe l’ennesimo invito alla cautela di fronte alle informazioni in tempo di guerra, usate come armi non convenzionali per giustificare le armi convenzionali. Ma la lezione – anche questa – non servirà. 

Buon martedì. 

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“La magistratura accerterà i fatti”, dicono

“La magistratura accerterà i fatti”. La frase è lì, bella piegata, pronta ogni volta che qualcuno muore sul lavoro. E ogni volta è spesso, spessissimo, tre morti al giorno come un tassametro che scende in un’auto parcheggiata sotto casa. Solo che qui scendono i morti, mica i soldi. 

La strage alla diga di Suviana – perché di strage si tratta quando i morti sono così tanti, così annunciati, così morti nella letargia di chi non interviene per evitarli – ripete la solita liturgia per le grandi occasioni, quando i morti vengono scaraventati da un treno in corsa, quando sono troppi o quando muoiono in un palazzo rovesciato sott’acqua. 

“La magistratura accerterà i fatti”, ci dicono, sperando che basti. Ma una magistratura che accerta le vittime di regole che già sappiamo essere mortali è una magra consolazione perché le eventuali condanne ogni volta scivolano nell’indifferenza della politica che si ripromette di cambiarle senza farlo mai. Al di là dello scempio di vite umane la strage di Suviana ci restituisce per l’ennesima volta una grande azienda incapace di dirci chi siano le persone che stanno sui loro cantieri, persa tra una filiera di appalti e di subappalti che a ogni stadio si impoverisce nel salario, nei diritti, nelle tutele. 

“Il costante stillicidio di operai morti nei cantieri, nelle fabbriche, nei campi sono l’esatta fotografia di un modello di sviluppo e di impresa che ha assunto il profitto come variabile indipendente e la svalutazione dei fattori di produzione come leva di competizione per tenere bassi i prezzi e massimizzare i guadagni”, ha detto ieri il segretario generale della Fillea Cgil Alessandro Genovesi. Non c’è niente da aggiungere. 

Buon giovedì. 

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Insistere sempre, sempre di più, per proteggere Rafah

“A una settimana di distanza da quando il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato, e dopo solo alcuni giorni da quando la Corte internazionale di Giustizia ha emesso ulteriori misure provvisorie a proposito della causa per genocidio sostenuta dal Sudafrica contro Israele, gli Stati devono ancora agire con urgenza per garantirne l’applicazione e prevenire crimini di atrocità a Rafah, mentre prosegue l’escalation degli attacchi”. È l’allarme lanciato oggi da 13 organizzazioni umanitarie e per i diritti umani in un comunicato stampa coingiunto. A firmarlo Save the Children, International Federation for Human Rights, Amnesty International, Doctors of the World/Médecins du Monde France, Spain and Switzerland, ActionAid International, Oxfam International, Norwegian Refugee Council, Plan International, Handicap International – Humanity & Inclusion, Medical Aid for Palestinians (MAP), International Rescue Committee (IRC), Danish Refugee Council, DanChurch Aid.

“La settimana scorsa, il governo israeliano ha chiarito la propria intenzione di espandere le operazioni militari a Rafah indipendentemente dalla risoluzione giuridicamente vincolante del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede un cessate il fuoco immediato. Nell’ultima settimana a Rafah questo scenario ha iniziato a realizzarsi. I bombardamenti israeliani, infatti, solo tra il 26 e il 27 marzo hanno ucciso almeno 31 persone, tra le quali 14 bambini. Le Organizzazioni umanitarie e per i diritti umani hanno lanciato l’allarme ripetutamente su una pianificata incursione di terra israeliana a Rafah che promette di decimare la vita e compromettere la possibilità di aiuti di prima necessità per oltre 1,3 milioni di civili, tra questi ci sono almeno 610mila bambini che sarebbero ora sulla linea diretta del fuoco”, sottolinea la nota.

“Non esiste un piano di evacuazione fattibile o condizioni che possano proteggere i civili nel caso in cui un’incursione di terra dovesse essere portata avanti. Per rispettare il divieto assoluto di trasferimento forzato e deportazione di civili previsto dal diritto internazionale umanitario, Israele è obbligato ad adottare ‘tutte le misure possibili’ per fornire ai civili evacuati beni di prima necessità per la sopravvivenza e garanzie di un ritorno sicuro e dignitoso una volta terminate le ostilità. Tali misure includono la garanzia di sicurezza e protezione adeguate, alloggi, acqua, servizi igienico-sanitari, assistenza sanitaria e nutrizione. A oggi non esiste alcun posto del genere né all’interno né all’esterno di Gaza. I bombardamenti israeliani della Striscia di Gaza, dopo sei mesi di ostilità, hanno danneggiato o distrutto più del 60% delle unità abitative e annientato la maggior parte delle infrastrutture nella parte settentrionale e centrale di Gaza”, prosegue il comunicato.

“A Gaza non c’è nessun posto sicuro in cui le persone possano rifugiarsi. Le forze israeliane hanno ripetutamente attaccato aree che in precedenza avevano definito “sicure”. Gli attacchi aerei israeliani dentro e intorno alla cosiddetta zona sicura di Al-Mawasi hanno ucciso almeno 28 persone, mentre le forze di terra israeliane entravano e occupavano la zona settentrionale. In tutta Gaza, anche quando le Organizzazioni umanitarie hanno dato informazioni alle forze israeliane rispetto alle sedi per le operazioni di aiuto e ai membri del personale, queste aree hanno continuato a essere attaccate. Gli operatori umanitari sono stati uccisi, i convogli umanitari sono finiti sotto il fuoco israeliano e i rifugi e gli ospedali sostenuti dalle Organizzazioni vengono danneggiati o distrutti sotto i bombardamenti. Le nuove proposte del governo israeliano di costringere i civili nelle cosiddette ‘isole umanitarie’ probabilmente fornirebbero un’altra falsa pretesa di sicurezza e spingerebbero invece i civili in aree piccole, ristrette e con scarse risorse dove rischiano di essere attaccati, sia che si trovino all’interno o all’esterno di queste ‘isole’. Non c’è nessun posto a Gaza che abbia a disposizione assistenza e servizi sufficienti per garantire la sopravvivenza della popolazione. Nella stessa Rafah, i servizi e le infrastrutture essenziali funzionano solo parzialmente, compresi ospedali, panifici e strutture per il rifornimento idrico o quelle igienico-sanitarie ormai al collasso. Il centro e il nord di Gaza sono devastati, con interi sistemi, infrastrutture e quartieri cancellati dalla mappa e mentre continuano le restrizioni di accesso all’area per le agenzie di assistenza umanitaria. Un’ulteriore escalation delle operazioni militari israeliane a Rafah avrebbe anche conseguenze catastrofiche per la risposta umanitaria già fortemente ostacolata in tutta Gaza, poiché maggior parte del coordinamento degli aiuti e delle infrastrutture istituite dall’ottobre 2023 ha sede proprio a Rafah”, si legge ancora nel testo.

“Tutti gli Stati hanno l’obbligo di proteggere le popolazioni dai crimini di atrocità. I bambini e le famiglie di Rafah vivono in un costante stato di paura e pericolo. Il governo israeliano ha annunciato l’intenzione di espandere le operazioni militari nella zona e questo rischio si è ulteriormente aggravato dal 31 marzo, quando il gabinetto di guerra israeliano ha approvato i piani per le operazioni di terra nel governatorato più a sud. Sebbene alcuni stati abbiano espresso pubblicamente disapprovazione, le pressioni diplomatiche e le dichiarazioni internazionali non sono state finora sufficienti a produrre risultati e ad evitare l’incursione pianificata. Tuttavia, esistono una serie di misure di protezione a disposizione degli Stati, che sono obbligati a rispettare e garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, come dimostrato in precedenza in altre crisi internazionali. Gli Stati devono ora intraprendere azioni urgenti per garantire l’attuazione immediata di un cessate il fuoco permanente ed esplorare tutte le opzioni disponibili per proteggere i civili, in linea con i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. Ciò include l’interruzione immediata del trasferimento di armi, parti di ricambio e munizioni laddove vi sia il rischio che vengano utilizzate per commettere o agevolare gravi violazioni del diritto internazionale umanitario o dei diritti umani. Qualunque azione in meno non è semplicemente un fallimento. Qualunque azione in meno non rispetterà gli obblighi morali, umanitari e legali”, conclude la nota.

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Foglie di fico dal cielo su Gaza

Non è cambiato niente. Sono passati giorni dalla risoluzione Onu per un cessate il fuoco tra Israele e Hamas ma si continua a morire. Come spiega Ispi a cinque mesi dall’inizio del conflitto, il deficit tra il volume dei rifornimenti che sarebbero entrati nella Striscia se non fosse stato per la guerra e ciò che è stato effettivamente ricevuto ha superato il mezzo milione di tonnellate. Secondo l’Integrated food security phase classification (Ipc) delle Nazioni Unite nessuno degli abitanti dell’enclave è ormai più al sicuro dal punto di vista alimentare. Da quando è stato istituito, 20 anni fa, l’Ipc ha dichiarato solo due carestie: in Somalia nel 2011 e in Sud Sudan nel 2017. A meno che non sia ripristinata la fornitura di aiuti, hanno fatto sapere, gli esperti dovranno dichiararne una terza.

Agenzie e organizzazioni umanitarie continuano a ripetere che gli aiuti aerei sono il metodo meno efficace per distribuire rifornimenti umanitari. Da allora diversi palestinesi sono annegati mentre cercavano di raggiungere a nuoto alcune casse che erano cadute in mare, o sono rimasti schiacciati quando i paracaduti non si sono aperti correttamente. L’alto funzionario per i diritti umani, Volker Türk  ha ripetutamente denunciato alla Bbc che l’ipotesi secondo cui Israele sta usando la fame come arma di guerra a Gaza è “plausibile”. Se l’intento fosse dimostrato, ha spiegato, equivarrebbe a un crimine di guerra. Accuse che il governo di Benjamin Netanyahu definisce come “una totale assurdità”. I camion intanto restano bloccati a Rafah. 

Buon martedì. 

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Pezzo dopo pezzo se ne va la propaganda del Piano Mattei

Mentre Giorgia Meloni faceva la chierichetta a Ursula von der Leyen che in pompa magna staccava l’assegno al presidente egiziano al-Sisi per fare ancora di più e meglio il lavoro sporco da tappo dei migranti, il Tribunale de L’Aquila scriveva nero su bianco che la Tunisia non è un Paese sicuro riconoscendo la protezione speciale a un richiedente asilo. 

Il tribunale certifica che a Tunisi vi siano situazioni oggettivamente registrate: deterioramento del tasso di democraticità; violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali; magistratura non indipendente; arresti di massa; assenza di tutele per migranti, richiedenti asilo e rifugiati; seria crisi economica in atto; emergenza climatica ed ambientale in atto. 

“In primo luogo il ricorrente, – scrivono i giudici – in disparte il profilo della documentazione lavorativa prodotta (…), proviene dalla Tunisia, Paese che solo formalmente è inserito nella lista del Paesi c.d. di origine sicura. Invero nel recente periodo, si sono verificati in Tunisia eventi che hanno deteriorato il tasso di democraticità del Paese e una palese violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. 

I grandi accordi del governo italiano e di quello europeo si smontano pezzo dopo pezzo. Nel frattempo Italia e Ue firmavano accordi con al-Sisi, uno che da oltre 10 anni detiene il potere vincendo elezioni farsa con oltre il 90 per cento dei voti, arrestando, torturando, incidentalmente ammazzando migliaia di oppositori. Vale la pena di ricordare che al-Sisi è l’artefice del colpo di stato del 2013, fece arrestare almeno 40mila persone, condannare a morte centinaia di oppositori compreso l’ex presidente eletto Morsi e prese il potere grazie a elezioni farsa nel 2014 col 96% dei voti.

Buon martedì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente egiziano al-Sisi, Il Cairo, 17 marzo 2024 (governo.it)

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