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Mamma, manager e la terza via

Una sincera, delicata ma decisa riflessione di una mamma tra le correnti ostinate del lavoro e della famiglia. E la rotta da tenere. E’ sul blog di Valentina. Con le parole che dovremmo adottare subito per farle crescere in politica.

Perché ci sono due tipi di conciliazione: quella materiale, fatta di orari, di incastri, di badge e di asili nido, e quella, molto più delicata perché solo mentale, fra quello che hai sempre immaginato di diventare dal punto di vista professionale e quello che realmente riesci ad essere quando al tuo essere manager si aggiunge l’essere mamma.
Perché avrei voluto tanto fare come molti mi consigliavano “tu alle 18 vai a casa, molla tutto e vai, ti dedichi a tua figlia e torni il giorno dopo”, ma il fatto era che da un certo livello di responsabilità in poi non funziona così: il tuo lavoro deve in qualche modo coincidere con la tua passione, e non riesci a staccare semplicemente spegnendo il pc.
Proprio perché l’azienda in cui ero è speciale, avrei anche avuto la possibilità di passare al part-time, ma ad un certo punto il tema, nella mia testa e nel mio cuore, era “che cosa voglio veramente? sono ancora così innamorata della carriera? Ma soprattutto, riuscirei, con il part-time, ad avere ancora il rapporto che ho sempre avuto con il lavoro? riuscirebbe ad essere ancora la mia passione?“. Mantenendo il paragone con la vita di coppia, mi sentivo come quella moglie che, capendo di non amare più il marito, e di essere attratta da un’altra vita, gli dice “rimaniamo insieme. ma vediamoci di meno. ah, e fra l’altro io adesso ti amo solo un po’”.
Perché se la carriera è sempre stato un tuo obiettivo, e se hai sempre amato sopra ogni cosa il lavoro, lo stress e la tensione degli obiettivi, e a quella dimensione hai sempre dedicato anima, cuore, giorni e ore della tua vita, quando ti rendi conto che tua figlia e i tuoi sogni cominciano a farsi largo e a reclamare tempo e spazio, in una realtà come quella italiana, dove la presenza fisica in ufficio (spesso oltre le 18) è ancora fondamentale, scappare alle 18 o addirittura avere una riduzione di ore non serve a nulla, anzi, spesso serve solo a farti sentire ancora più esclusa dai giochi, dalle decisioni, dai momenti importanti, e allora a volte ti ritrovi a pensare “o tutto o niente”. […]

Da settembre avrò una vita – spero – più flessibile. Che, se vogliamo, è sinonimo di precaria, ma mi piace pensare che sarò semplicemente più padrona del mio tempo.
Non farò solo la mamma, ma cercherò di dedicarmi ai tanti progetti che non ho mai potuto curare fino ad oggi.
Collaborerò con una realtà che mi piace tantissimo.
Scriverò, e credo non solo per me.
Cercherò di raccontare quelle storie che mi girano in testa da tanto tempo, e che hanno bisogno di essere messe su un foglio di word.
Capirò cosa vuol dire fare downshifting, dato che sì, ho la fortuna di poter rinunciare  temporaneamente ad uno stipendio fisso, ma non abbiamo vinto all’enalotto, e ora è tempo di smettere di sprecare (e non vedo l’ora di diventare una di quei cherry picker degli ipermercati, che tanto mi affascinavano quando li studiavo in ufficio).
Cercherò di passare più tempo con Guia perché oggi è il diciottesimo giorno che passiamo insieme 24 ore su 24, e mi rendo conto che i minuti passano velocissimamente e ti addormenti la sera con una bambina e ti svegli la mattina con una ragazzina che ragiona con te.
E, proprio perché dal mondo del lavoro e dei contratti a tempo indeterminato sono uscita in un modo un po’ atipico, continuerò a ragionare, su questo blog, sui temi di mamme al lavoro e conciliazione. Perché ho l’impressione che in Italia, in mancanza di leggi, ma soprattutto di una mentalità che faciliti la vita delle mamme che lavorano fuori casa, le soluzioni per essere felici dovranno per forza essere atipiche e creative.

L’estate dei prezzolati

L’ILVA pagava per pubblicare notizie rassicuranti.

In Emilia Romagna si paga per andare ospite delle televisioni locali (e scrive bene Giovanna Cosenza: così fan tutti. E nel frattempo aumenta la sfiducia dei cittadini nei confronti dei partiti. Ma anche dei media, naturalmente. Pure quelli sotto casa.)

Ma perché non fa notizia questa calda estate della stampa prezzolata?

 

La pena utile

Parole come aria fresca. Finalmente. Quasi da paese civile. Le parole, per ora.

È, piuttosto, la capacità di rinnovarsi in relazione al modo di vedere il detenuto: non più come «peso morto» da tenere rinchiuso e guardare a vista 24 ore al giorno, non più come «zavorra inutile» per la società, ma piuttosto come risorsa. Risorsa che può e deve diventare concreta in tutti i casi – e non sono tutti i detenuti, ma non sono nemmeno pochi – si riesca a mettere a frutto le capacità e la buona volontà che molti detenuti non hanno perduto definitivamente. Sta all’ Amministrazione farle emergere per rendere le persone che scontano la pena del carcere utili per la società. Questo e niente altro, lo ripeto, significa rendere la pena utile per il condannato stesso. Come ottenere questo risultato, difficile, ma non impossibile rispetto a un notevole numero di detenuti? Non vi è altro modo che il richiamo alla responsabilità. Far crescere il senso di responsabilità, nella convinzione che non vi è altra strada per preparare il rientro nella società. È una visione comoda e rassicurante, ma del tutto arcaica quella che vede il detenuto come soggetto meramente passivo di interventi che piovono dall’ alto. Occorre certamente dirigerlo, reggerlo, orientarlo: ma alla fine tocca a lui assumere il peso del proprio destino attraverso la sua volontà di riscatto, se questa volontà è abbastanza seria e forte. Chi mai potrebbe farlo al suo posto? In questo percorso di crescita il lavoro è uno strumento potente ed insostituibile. Il lavoro crea relazioni sociali costruttive. Produce benessere a sé e agli altri. Fa crescere l’ autostima. Non è un caso che la Costituzione ponga il lavoro a pietra fondante. Vi è una stretta relazione tra lavoro e dignità sociale. In astratto ogni persona ha una dignità. In concreto la dignità può andare perduta e senza il lavoro questa perdita è facile che avvenga. Ecco perché iniziative come la «Giornata della Restituzione» sono positive. Non è ancora il risultato di dare al detenuto un lavoro, risultato che purtroppo manca spesso anche fuori dal carcere. Ma quella iniziativa ha dato a settanta detenuti la possibilità di offrire alcune ore di fatica per rendere un servizio alla città e riconoscere in tal modo di essere ancora parte costruttiva della società.

(Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento amministrazione penintenziaria Ministero della Giustizia)

E invece niente. Ancora il bavaglio.

Parlare di intercettazioni solo in termini di abuso – come fa anche Monti – rivela tutta la strumentalità dell’approccio al tema. Valuti il Presidente del Consiglio se tra le urgenze di questi ultimi mesi di legislatura debba proprio essere inserito un provvedimento che assumerebbe inevitabilmente l’aspetto della punizione per magistrati e giornalisti che fanno il loro dovere. Lo scrive nell’appello per scongiurare eventuali leggi bavaglio Roberto Natale, presidente della FNSI.

E poi leggi queste cose. La domenica mattina. E pensi che sono le stesse parole che continui a leggere, urlare ,scrivere negli ultimi anni. Che passano i governi e poi sembra che non passino mai per davvero. E questa volta in più è lecito (e in molti ambienti anche etico) parlare di continuità. Almeno prima eravamo tutti sul piede di guerra pronti a fare la rivoluzione. Ho pensato. Invece adesso in fondo c’è questa sensazione generalizzata di protezione del buon padre di famiglia. E stiamo parlando ancora di bavaglio, di intercettazioni. Sempre usando quelle stesse parole lì. Dice bene Roberto: con quell’approccio, anche linguistico, che è stantio e speravamo di averlo spazzato via.

E invece niente.

E allora penso: ma non sarebbe così bello, stimolante e politicamente gradito dare una svolta. Per davvero. Uscire da questo solco in cui stanno tutti ammucchiati insieme?

Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.

Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre a me.
Le stelle brilleranno uguali e uguali ti indurranno
le notti a dolce sonno.
Il mare t’empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco
tu guadagnando l’amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del mio tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione mi ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento e pioggia e grandine
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d’una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate,
ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austera forma d’uomo,
madri vestite a bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e di Auschwitz.
Fa’ presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici; già. I nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri,
dicono sempre sì, ma dentro loro mugghia
l’imprigionato no dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono di fuori
Il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro,
il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sforzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.

Da minima & moralia. “Testamento” del greco Kriton Athanasulis (Tripoli, Arcadia 1917 – Atene 1979) è una delle sue poche tradotta in italiano (da Filippo Maria Pontani). Uscì per la prima volta nella raccolta Due uomini dentro di me (1957).

Tiro Mancino: sfasciare Palermo

«A settembre a Palermo saranno azzerati anche tutti i vertici investigativi dei carabinieri. Verranno trasferiti in 4 e sostituiti con ufficiali senza alcuna esperienza in fatto di mafia. Perderemo le memorie storiche dell’Arma e questo contribuirà a renderci ancora più soli. In 34 anni di magistratura non ho mai visto una cosa del genere». Lo dice Vittorio Teresi, procuratore aggiunto a Palermo.

Lo spread dell’antimafia più preoccupante degli ultimi anni. Si direbbe.

Quello strano imbarazzo di Monti sulle intercettazioni

Lo scrive Andrea Fabozzi su Il Manifesto. Con parole centrate e misurate:

Mettendosi al fianco del Quirinale, invece, Monti annulla anche formalmente quella sana distanza tra il Colle e palazzo Chigi che non è un fatto formale ma di sostanziale garanzia. Il presidente della Repubblica, com’è noto, è irresponsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni: lo prevede la Costituzione per consolidarlo nella funzione di garanzia. Tant’è vero che gli atti del presidente per essere validi devono essere controfirmati dal governo, il che comporta che palazzo Chigi non sia una dependance del Quirinale ma debba mantenere la sua autonomia di giudizio e una certa distanza. Anche nel caso di questo governo «del presidente».
Particolarmente imprudente, poi, è la decisione di schierare l’esecutivo in pendenza del giudizio sul conflitto di attribuzione che Giorgio Napolitano ha proposto alla Consulta contro i magistrati di Palermo. Giudizio assai delicato, come ha spiegato ieri l’ex presidente della Corte Gustavo Zagrebelsky che ha invitato il capo dello stato a ritirare il suo ricorso. Zagrebelsky lo ha scritto su Repubblica con tutta la prudenza del caso, dicendosi certo che il «discredito, l’isolamento morale e l’intimidazione dei magistrati» che indagano sulla trattativa stato-mafia è una conseguenza lontana dalle intenzioni del capo dello stato. E tuttavia l’ha scritto, sul quotidiano che in questi mesi è stato il più vicino al presidente Napolitano, grazie soprattutto agli articoli del fondatore Eugenio Scalfari. Monti invece non ha avuto nessuna prudenza.

Cento anni fa Elsa Morante (tentata da Achille)

Che il segreto dell’arte sia qui? Ricordare come l’opera si è vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista, cercare soprattutto di ricordare. Ché forse tutto l’inventare è ricordare. (Roma, 23 gennaio 1938, da Diario 1938, a cura di Alba Andreini, Einaudi)

Elsa Morante è da cent’anni. Ed è bello ricordarla con le parole di Cesare Garboli:

«Sono anch’io responsabile, come tanti altri, di scarso interesse e poca, pochissima attenzione nei confronti delle poesie di Elsa Morante. Responsabile come tanti di aver sottovalutato Alibi […]. Queste poesie contravvengono a tutto giò che mi piace: trasudano e respirano stile libero, musica interna, onda e movimento interiore. Il pedale, il piede su cui ci si appoggia è melodico, è un adagio prosastico, narrativo, informativo, cantato tra il falsetto e il naturale e solfeggiato con la stessa civetteria, salvo che la Morante scavalca subito le graziucce, sorpassa il lezio, si lascia alle spalle il lamento animale, la voce querula, il fare espiatorio, e anche lo strazio, così novecentesco, di chi sta sempre a riva e parla alle onde. La Morante, anche in poesia, è tentata da Achille; è un Achille che va di persona a trovare la madre, e si tuffa nei flutti, senza pensarci due volte […]. Questa capacità di sfidare i pericoli, di farsi incantare dal mare aperto e di navigare a tu per tu con le bufere trascina il linguaggio di Alibi in una zona infetta, molto poco frequentata dalla tradizione poetica del Novecento. Il fondamento, la legittimazione di Alibi è una capacità di amare senza risparmio, una capacità insolita, e quasi mostruosa, di regalarsi all’amore. È un tratto di originalità che fa di Alibi un’avventura, una sfida e un duello con le parole e non l’esercizio di una dilettante. […] Diversamente da ogni altro album di poesie femminili, l’argomento di Alibinon è la memoria o il diario dei fatti del cuore; protagonista è sempre il futuro, la conoscenza, la divinazione, la spiegazione data a se stessa di un destino sempre più simile a una condanna e a un inferno – e se c’è qualcosa che non finisce di sorprendere, in questo album capovolto e mostruoso, è che la pitonessa che si arrovella sulle fatture e i filtri, e fa versi simili alle cantilene e ai sortilegi che accompagnano la magia, non smette per questo di essere una ragazza sognatrice che vuole l’amore e aspetta la felicità. Ma questa è l’anima di Alibi, che la Morante non vuol vedere e tiene sotto chiave in fondo a se stessa. La ragazza che il cielo ha voluto fantastica, per quanto possa aspettare la felicità e sognare l’amore, non sa pensare e immaginare la vita se non in forme di terribile vaticinio. (Dall’introduzione a “Alibi” di Cesare Garboli)

 


Quando sotto l’ILVA che non c’era l’acqua faceva il rumore dei tamburi

Dicono: come avete fatto a costruire un quartiere sotto la fabbrica? Ma Tamburi era lì già da prima. E sapete perché si chiama così? Perché era il quartiere dove arrivavano le acque dell’acquedotto del Triglio e irrompevano chiare e cristalline nelle strade, facendo il rumore dei tamburi. Ditelo, ditelo a chi non ha studiato”.

Ancora applausi, a piene mani, in una piazza che per molti giorni è stata descritta come popolata da fanatici ultras di periferia e invece è gremita di distinte signore con i giornali sotto il braccio, volontarie di Legambiente col cappellino giallo e verde, anziani in bicicletta, ragazzi dei movimenti con i dreadlocks e le telecamere digitali e molte, moltissime, mamme con i bambini. “Vedi, mamma, quanta gente? Però dovevamo essere di più”, spiega una di loro al figlio di dieci anni, mentre gli passa una bottiglietta di acqua ghiacciata, perché il sole è di fuoco e i più piccoli vorrebbero scappare a tuffarsi in acqua dagli scogli di San Vito.

Ma i bambini sono il simbolo che la piazza si tiene stretto. Perché è il loro futuro che qui è in discussione, ripetono dal palco le ragazze del Comitato, mostrando i disegni dei bambini di oncologia pediatrica dell’ospedale Moscati. Tanti, troppi, ben al di sopra della media. “I casi più gravi andiamo a curarli al nord. A Roma o all’Istituto tumori di Milano. E quando arriviamo i medici ci dicono: ancora un altro bambino da Taranto? E voi perché non fate niente?”.

Nel frattempo a piazza Vittoria sono arrivati i ministri, Corrado Passera e Corrado Clini. Arroccati col presidente Vendola e uno stuolo di politici locali, da Raffaele Fitto a Nicola Latorre, in una prefettura che sembra un castello di mattoncini rossi sul mare e che si può guardare solo da lontano, perché le transenne sono dappertutto a sbarrare il passaggio.

La politica cerca soluzioni concrete, perché comunque la si voglia mettere, anche al netto della feroce crisi economica che lo stop alla produzione economica scatenerebbe (come dimostrano gli scioperi e i blocchi degli operai che sono continuati anche nelle ultime ore), l’Ilva non si spegne in un giorno. E come ripete Vendola da giorni: “Pensare di chiuderla significherebbe fare i conti con il più grande cimitero industriale d’Europa”. Oggetto di inquinamento anch’esso, insomma, di cui nessuno però si occuperebbe, è il sottotesto del presidente della Regione.

Ma quello che un’intera città contesta allo sbarco degli esponenti del governo Monti è l’ingerenza nei confronti della magistratura. Gli esponenti del Comitato scandiscono al microfono una lezione di diritto costituzionale: “Ci hanno insegnato che la separazione dei poteri è sacra. Allora rispettiamola. Il potere esecutivo e quello giudiziario non devono interferire. Lasciamo lavorare i magistrati”.

La cronaca della manifestazione a Taranto ieri. Sparita in televisione e recuperata su Pubblico.

Tredicimilacinquecento

Tredicimilacinquecento morti durante le traversate dei mari che promettono una migrazione a buon fine. I numeri sono di Human Rights Watch.

Tredicimilacinquecento morti sono un genocidio senza padroni negli stessi mari che bagnano le coste dei nostri ferragosto. Dietro ai “flussi”, “respingimenti”, la legge “Bossi-Fini” e tutto il resto ci sono loro: sono due volte il paese in cui apriamo il teatro tutti i fine settimana. E sono un fallimento per tutti. Sicuro.