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Asilo Mariuccia: si erano sbagliati, eh

La Fondazione Asilo Mariuccia ottenne nel 2010 uno «stanziamento» da 600 mila euro dalla Regione Lombardia, quando aveva un «patrimonio netto» di circa 11 milioni di euro, titolo di Stato per circa 1 milione e «disponibilità liquide» di oltre 2 milioni. Lo si legge nel decreto di sequestro firmato dal gip di Milano Annamaria Zamagni, che parla di una «richiesta» di «contributo regionale» ingiustificata dalla «situazione economica» dell’istituto. Gli investigatori della Gdf di Milano, su ordine del gip che ha accolto la richiesta del pm di Milano Tiziana Siciliano, hanno sequestrato 600 mila euro sui conti correnti della Fondazione.

Lo scriveva il Corriere della Sera.

Oggi, sfogliando le brillanti delibere della Giunta Formigoni, scopriamo che ci hanno ripensato. Ovviamente si costituiscono parte civile (e per fortuna) e ovviamente la Regione Lombardia è “parte lesa”. Come in tutti gli ultimi scandali che sono avvenuti, scommettiamo.

Qui la delibera per chi vuole essere curioso.

Sul San Raffaele Formigoni come Schettino

Comunicato stampa
“La crisi occupazionale e sanitaria, che attanaglia i resti del San Raffaele, è la polaroid delle macerie create da un ventennio di politica formigoniana in Regione Lombardia.” Giulio Cavalli affida a una nota il commento a quanto emerso oggi dalle audizioni sul San Raffaele in commissione sanità.

“A quasi 200 giorni dall’acquisto è semplicemente imbarazzante che la nuova proprietà non abbia ancora presentato nessun piano aziendale e che non abbia alcuna idea di futuro della gestione se non quella che passa attraverso tagli e licenziamento del personale.” Continua il consigliere di Sinistra Ecologia Libertà “Le audizioni oggi in commissione hanno reso evidente la falsità di quanto affermato dalla proprietà, di come la qualità del servizio reso ai cittadini sarà intaccato dai 450 licenziamenti previsti: si è definitivamente acclarato che le problematiche, contrariamente a quanto fin qui indicato dalle strutture regionali, non sono solo occupazionali ma anche di presidio sanitario.”

“Formigoni dopo aver utilizzato il San Raffaele come serbatoio di voti con un’attenzione più che sospetta” conclude Cavalli “come uno Schettino qualunque scarica qualsiasi responsabilità sulla struttura, senza neppure tentare di aprire un serio tavolo tra le parti in cui Regione Lombardia sia garante.”

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Mafie, intercettazioni e collaboratori: a chi giova?

Giovanni Conzo, magistrato della DDA di Napoli si chiede (e ci chiede) a chi giova tutto questo:

Oggi lo strumento della collaborazione è l’unica via per sconfiggere definitivamente il clan dei casalesi, e in generale i clan, e soprattutto per capire ed identificare tutti gli imprenditori nel territorio nazionale che hanno accettato i soldi sporchi della camorra e li hanno reinvestiti nell’economia turbando il mercato così distruggendo le imprese oneste che non potevano competere, in crisi di liquidità e con la chiusura dei rubinetti delle banche, con la concorrenza e con l’immissione di danaro degli imprenditori-camorristi.

La collaborazione con la giustizia è lo strumento principale, insieme alla intercettazioni, per dare un nome ed espellere dal Parlamento e dai Comune Italiani quei politici che hanno accettato i voti della camorra, a seguito di uno scellerato patto con il quale si impegnavano, in cambio dei voti a far vincere gli appalti o far aver finanziamenti a imprenditori prescelti ed indicati dai camorristi .

Stiamo tuttavia avendo tante difficoltà proprio in questo momento cruciale.

La riduzione degli stanziamenti per il comparto giustizia, il taglio di fondi per assicurare, ad esempio, una casa ai parenti dei collaboratori di giustizia o ai figli di iscriversi a scuola, persone che non hanno nessuna colpa e che sono costretti a lasciare le proprie terre per recarsi in località protetta e non essere ammazzati, costituiscono eventi che scoraggiano i camorristi e mafiosi ad intraprendere la collaborazione con lo Stato.

Inoltre la legislazione obbliga il pubblico ministero ad interrogare i collaboratori di giustizia in sei mesi facendo dichiarare tutto quello che sanno in questo brave lasso temporale. Insieme alla attività di interrogatorio, noi Pubblici Ministeri dobbiamo istruire i processi, sostenere l’accusa in udienza, redigere richieste di intercettazioni, elaborare richieste di arresto, coordinare la polizia giudiziaria.

Un lavoro immane sempre affrontato con entusiasmo e la consapevolezza che non possiamo risparmiarci, ma dobbiamo dare tutto ed anche di più perché con il nostro lavoro è possibile disarticolare interi clan camorristici e perseguire quella oscura e fitta trama di reti e cointeressenza tra camorra, imprenditoria e politica.

Ma è tutto ogni giorno più difficile.

Alla luce di una recente circolare del Dap non possiamo più convocare i collaboratori nei nostri uffici ma dobbiamo recarci come “globetrotter” nelle carceri di Italia per interrogarli così sottraendo tempo ed energie alle importanti altre attività che prima ho descritto.

Ci viene detto, ad esempio, che non ci sono soldi e dunque dobbiamo restringere in numero dei collaboratori. Ci viene detto che le carceri non sono sufficienti per garantire l’applicazione del regime del carcere duro a pericolosi boss o ad imprenditori collusi.

Mi chiedo perché. Mi domando a chi giovi.

Buca le gomme

Io non so cosa deve succedere d’altro per raggiungere il colmo, non so nemmeno se l’etica sia finita qualche decennio fa e forse noi non ce ne siamo accorti e questi episodi non siano altro che le macerie che cominciano ad emergere e galleggiare ma che un Presidente dell’Aler (Antonio Piazza, uomo PDL a capo dell’Aler di Lecco) parcheggi la sua Jaguar in un posto riservato ai disabili e poi costretto a spostarla per le proteste di un disabile decida di tagliargli le gomme dell’auto mi sembra oggettivamente troppo. Perché qui non si tratta di antipolitica ma di un’insofferenza cronica per un malcostume che qui da noi diventa classe dirigente, per una carriera che sembra inversamente proporzionale allo spessore umano. Altro che meritocrazia, in Italia siamo arrivati alla perversione.

E la piccolezza si legge (ed è ancora più insopportabile) nelle scuse offerte dal dirigente: Venerdì ero a pranzo con 36 disabili. Dal punto di vista dell’azienda lombarda mi sono sempre comportato bene e non è nella mia indole offendere queste persone». Piazza, che faceva parte anche del direttivo provinciale del Pdl, vuole chiudere il capitolo. Le dimissioni? «Sono giustissime infatti le ho date, devo fare atto di penitenza, poi con il tempo, se c’è la passione e la possibilità di ripartire. Ma – aggiunge – c’è gente che ha fatto cose peggio di me ed è ancora lì. Io non sono così. Ognuno nelle proprie scelte è responsabile, io per quello che ho fatto ritengo che sia giusto dimettermi dalle cariche pubbliche che ricoprivo. Cercherò di tornare umile, di ripartire. Gli sbagli fanno crescere. Dice Piazza.

No, caro Piazza, gli sbagli fanno crescere se non sono sempre gli altri a pagarli. Altrimenti si chiamano danni, non errori. E in una Lombardia intollerante con le fragilità e le debolezze forse è arrivato il momento di diventare intolleranti con le prepotenze. Democraticamente intolleranti ma fermi. Perché un dirigente pubblico che taglia le gomme di un disabile non può essere classe dirigente nel Paese che vogliamo costruire. Per questo abbiamo scritto oggi all’assessore competente chiedendo che le dimissioni del presidente Aler vengano accettate il prima possibile e che ne venga data tempestiva comunicazione.

Pensare e ripensare

Si può cominciare da piccole cose. Creare per esempio un fondo a partecipazione pubblica e privata al quale ogni città e i privati cittadini possano accedere attraverso la presentazione di progetti dai risvolti innovativi e sociali. Conosco personalmente tantissime persone che non vedono l’ora di progettare per la loro città e ci sono in giro per il mondo idee incredibili a cui ispirarsi. Orti urbani, progetti di ‘social housing’, costruzioni eco-sostenibili, creazione di spazi sportivi o aree di incontro in aree e fabbricati dismessi. Diamo sfogo alla sperimentazione e riproponiamo poi, in altri contesti, le iniziative che funzionano ed hanno un costo basso per la collettività.

Un’idea semplice di Emanuele Ferragina. Di quelle così semplici da essere rivoluzionarie in un momento asfittico in cui l’innovazione non riesce nemmeno ad essere elaborata.

Se scompare il popolo

Al­l’i­ni­zio del de­gra­do ci so­no la cri­si del­la po­li­ti­ca e la ca­ta­stro­fe dei par­ti­ti di mas­sa fra gli an­ni ’80 e i ’90. Le ha aper­to la stra­da, e pro­prio nel­lo spe­ci­fi­co sen­so che stia­mo usan­do, la pre­cor­ri­tri­ce, de­va­stan­te av­ven­tu­ra cra­xia­na. Poi è in­ter­ve­nu­ta, par­ten­do esat­ta­men­te da lì den­tro (an­che in sen­so stret­ta­men­te so­cio­lo­gi­co) e for­nen­do al tem­po stes­so al­la po­pu­la­ce una mi­ria­de di mo­del­li as­so­lu­ta­men­te sim­pa­te­ti­ci e imi­ta­bi­li, la lun­ga fa­se ber­lu­sco­nia­na. In­fi­ne, più re­cen­te­men­te, è so­prav­ve­nu­ta, in ma­nie­ra for­se ina­spet­ta­ta ma non ir­ri­le­van­te, una for­te com­po­nen­te neo-ve­te­ro­fa­sci­sta: il fa­sci­smo, quel­lo au­ten­ti­co, è sem­pre sta­to por­ta­to­re di una di­spo­ni­bi­li­tà cor­rut­ti­va pro­fon­da.
Il ri­sul­ta­to è sta­to de­va­stan­te: il po­po­lo ita­lia­no si è di­sgre­ga­to in una se­rie di fram­men­ti, spes­so con­trap­po­sti fra lo­ro e ognu­no al­la ri­cer­ca del­la pro­pria per­so­na­le, in­di­vi­dua­le e/o set­to­ria­le ri­cer­ca di af­fer­ma­zio­ne, di de­na­ro e di po­te­re (esi­ste an­che una va­rian­te lo­ca­li­sti­ca di ta­le dis­so­lu­zio­ne, gra­vi­da tut­ta­via an­ch’es­sa di fat­to­ri di cor­rut­te­la: il le­ghi­smo ne rap­pre­sen­ta il frut­to e l’in­ter­pre­te più au­ten­ti­co).
Dal­lo spap­po­la­men­to e dal­la scom­po­si­zio­ne del­la “fi­gu­ra po­po­lo”, e di co­lo­ro che per un cer­to pe­rio­do di tem­po ave­va­no più o me­no le­git­ti­ma­men­te pre­te­so di as­su­mer­ne la rap­pre­sen­tan­za, è emer­so un nuo­vo ce­to so­cia­le, il re­si­duo im­mon­do che so­prav­vi­ve quan­do tut­to il re­sto è sta­to di­ge­ri­to e con­su­ma­to. Il ve­ro, gran­de pro­ta­go­ni­sta del­la cor­ru­zio­ne ita­lia­na è que­sto ce­to so­cia­le, una clas­se ti­pi­ca­men­te in­ter­sti­zia­le, frut­to del­lo spap­po­la­men­to o del­l’e­mar­gi­na­zio­ne o del vo­lon­ta­rio mu­ti­smo del­le al­tre, pri­va as­so­lu­ta­men­te di cul­tu­ra e di va­lo­ri, igna­ra di pro­get­to, de­pri­va­ta al­l’o­ri­gi­ne e se­co­lar­men­te di ogni po­te­re, og­gi fa­me­li­ca­men­te al­la ri­cer­ca di un in­den­niz­zo che la ri­sar­ci­sca del­la lun­ga asti­nen­za (ol­tre che i con­si­gli re­gio­na­li riem­pie fre­ne­ti­ca­men­te gli ou­tlet, inon­da le au­to­stra­de di Suv, aspi­ra ad una vi­si­bi­li­tà da ot­te­ne­re con qual­sia­si mez­zo, non te­me per que­sto né il grot­te­sco né l’o­sce­no, par­la una lin­gua che non è più l’i­ta­lia­no ma una sua ba­star­da, ri­di­co­la ca­ri­ca­tu­ra). In­som­ma, co­me in un in­cu­bo not­tur­no il so­gno ber­lu­sco­nia­no ha pre­so cor­po.
Ta­le clas­se, non so­lo pro­mos­sa ma an­che fu­ri­bon­da­men­te cor­teg­gia­ta da al­cu­ni, ma an­che au­to­pro­mos­sa in­nu­me­ro­si al­tri ca­si, ha co­min­cia­to a in­va­de­re la po­li­ti­ca na­zio­na­le, si af­fac­cia qua e là nei grup­pi di­ri­gen­ti di ta­lu­ni par­ti­ti, sie­de or­mai in ab­bon­dan­za nel­le au­le par­la­men­ta­ri. Ma ha pre­so già di­ret­ta­men­te il po­te­re in nu­me­ro­se real­tà re­gio­na­li, sot­to e so­pra la li­nea del­le pal­me, a te­sti­mo­nian­za del fat­to che il fe­no­me­no è ef­fet­ti­va­men­te na­zio­na­le, non lo­ca­le.

Alberto Asor Rosa su Repubblica di oggi.

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Si candida

Per scacciare il fantasma del Monti bis e trasformare le primarie, da ennesima faida di partito a occasione di svolta per il Paese, ci vediamo al MAV di Ercolano, sabato 6 ottobre alle 18. Accetto la sfida: per vincerla.

Lo dice Nichi Vendola. C’è un candidato con una netta posizione contraria al montismo. Ora le primarie (e il PD, finalmente) devono sciogliere il nodo.

La Germania archivia Sant’Anna di Stazzema

La Procura di Stoccarda ha archiviato l’inchiesta sulla strage di Sant’Anna di Stazzema: non ci sono documenti che provano la «responsabilità individuale» di 17 persone che erano state accusate dell’uccisione di 560 civili, il 12 agosto 1944. L’indagine era iniziata dieci anni fa: tra gli imputati c’erano dieci ex militari, otto dei quali ancora in vita, condannati all’ergastolo in contumacia dalla Procura Militare di La Spezia nel 2005, per aver partecipato al massacro. E anche Gerhard Sommer, condannato all’ergastolo in Italia, per cui era stata chiesta l’estradizione, negata però dalla Germania. I soldati tedeschi responsabili della strage appartenevano alla 16esima divisione corazzata Reichsfuehrer SS.

Secondo la Procura di Stoccarda, per emettere una sentenza d’accusa nei confronti degli imputati era necessario provare, per ogni singolo imputato, la partecipazione alla strage. E questo non è stato possibile, per la mancanza di documenti. Per la Procura, il fatto che i militari appartenessero alle unità delle Waffen-SS, non basta, da solo, per dimostrare la colpa individuale nell’esecuzione della strage. Inoltre, nonostante i reati di omicidio e concorso in omicidio della strage di Sant’Anna di Stazzema non siano prescritti, per la Procura tedesca non è stato possibile accertare con sicurezza che la strage sia stata un’azione di rappresaglia nei confronti della popolazione civile.

Nella sentenza di archiviazione, si spiega anche che non è stato possibile stabilire il numero esatto delle vittime, perché in quella zona, all’epoca, c’erano molti rifugiati di guerra proveniente da altre parti d’Italia. Secondo i giudici italiani, invece, il numero delle vittime è stato di 560 persone, tra cui 100 bambini. L’eccidio è stato compiuto la mattina del 12 agosto 1944: all’alba, tre reparti delle SS, il gruppo paramilitare del Partito Nazista tedesco, raggiunsero Sant’Anna di Stazzema, un paese in provincia di Lucca, mentre un quarto gruppo chiuse ogni via di fuga dal paese, accompagnati da militari fascisti. (via Il Post)

Ecco perché raccontare storie: per evitare l’archiviazione della memoria o peggio la prescrizione degli eccidi.

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Denunciare una banca

Quando ho letto la notizia che il Governo di Obama ha chiesto i danni a JpMorgan per il crollo dei mercati nel 2008 ho pensato ad un paio di cose d’impulso. Innanzitutto leggendo la cronologia degli eventi e la dinamica dei fatti come li racconta oggi Repubblica:

Il New York Times per la verità scrive che siamo solo all’inizio: e che altre grandi patiranno la gogna. Eric T. Schneiderman, il capo della procura dello stato di New York, non si fermerà certo qui. La causa intentata è civile: non ci sono cioè riflessi penali. E da tempo sono già state aperte d’altronde diverse inchieste che puntano a evidenziare le responsabilità delle singole banche e dei loro singoli amministratori su altrettanti singoli e diversi casi. Ma l’indagine di New York è la prima appunto partorita dalla task force ordinata da Obama. Ha dunque un valore soprattutto politico. Anche perché non entra nel merito dei casi ma si prefigge di stabilire la responsabilità – in questo caso di Bear Sterns – nella lenta e inevitabile esplosione della grande depressione che esplose proprio con la crisi dei mutui.

La denuncia sostiene che Bear Sterns e la Emc Mortgage, cioè il braccio della banca che si occupava dei mutui, truffarono consapevolmente gli investitori che comprarono i pacchetti azionari – che in realtà erano “pacchi” veri e propri.

Le vendite avvennero dal 2005 al 2007: fino insomma alla vigilia della crisi poi esplosa nel 2008. La banca, dicono i magistrati newyorchesi, mentì sulla qualità dei titoli ignorando consapevolmente i difetti pur di vendere le azioni. Di più. Quando uno di questi, diciamo così, difetti fu individuato, non solo la banca costrinse il prestatore dei mutui che formavano le azioni spazzatura a ricomprarsi quelle schifezze: ma ottenne che il riacquisto avvenisse in contanti e – ci mancherebbe – si guardò bene dal rigirare i soldi ai clienti che già avevano abboccato.

Sempre nella denuncia si legge che le perdite sui mutui impacchettati dalla Bear Sterns ammontano alla astronomica cifra di 22 miliardi e mezzo di dollari: un quarto in più di quello che sembrava accertato. E JpMorgan come reagisce? Siamo stupiti che ci abbiano denunciati senza darci la possibilità di spiegare, ha abbozzato il portavoce. E già: come se dopo tutti questi anni, i 7 milioni di posti di lavoro persi soltanto in America, la crisi che da un anno sta bruciando tutta l’Europa, ci fosse ancora bisogno di spiegare.

Basta leggere d’impatto per avere la sensazione di ritrovare una storia ciclica di questi ultimi anni che potrebbe essere accaduta negli USA, che é in fondo anche roba nostra e che si é ripetuta uguale a sé stessa in giro per l’Europa. Come se in fondo un certo modo di fare finanza goda di un’impunità di attenzione oltre che giudiziaria. Una truffa ripetuta senza che i truffati siano riusciti a passare parola (l’informazione, signori) e escogitare le difese (la finanza, appunto).
E poi mi è venuto in mente (un lampo, una cosa del genere) che le volte che mi capita di porre il tema dell’etica nella finanza e nel mondo bancario vedo sempre sguardi attoniti, furiosi o stufati come se fossi un inguaribile idealista che non vuole prendere atto che le cose siano così e non si cambiano, che c’è piuttosto da concentrarsi sulle cose realizzabili. Ed è sconfortante come può essere sconfortante pensare che ci siano battaglie giuste ma già date per perse.

Il secondo dubbio (e anche a New York lo stanno scrivendo in molti) è che questa denuncia caduta poco prima delle elezioni americane abbia un retrogusto spiacevole di propaganda.
È che da noi nemmeno per propaganda si riesce a compiere un atto del genere, nemmeno per quell’antico gioco di racimolare consenso facile abbiamo sentito un uomo di governo alzare la voce contro i piccoli o grandi scandali finanziari di questi anni (e i cittadini truffati) nonostante abbiano riempito giornali e telegiornali. C’è una riverenza servile nei confronti della finanza che impedisce anche l’apertura del dibattito. E allora ho pensato che sarebbe bello almeno per populismo vedere qualcuno alzare la voce. Ma non ci è concesso nemmeno quello. Ci teniamo la politica come “casta” e intanto ci perdiamo il punto dei politici camerieri della “casta” della finanza.

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Incendiano Telejato, accendiamo la voce

Un incendio doloso ha danneggiato gravemente la postazione di Telejatosu Monte Bonifato. Una denuncia è stata sporta dal direttore Pino Maniaci presso la caserma dei Carabinieri di Alcamo. I danni calcolati ammontano a 25mila euro. Che l’incendio fosse doloso non ci sono ormai dubbi, quel che non è chiaro è come sia possibile che le uniche apparecchiature danneggiate siano quelle di Telejato. Si sospetta che il rogo sia partito proprio dal gabbiotto della tv partenicese. Mancano solo tre giorni all’inaugurazione della nuova sede, da cui Telejato comincerà a trasmettere nelle province di Palermo Trapani e Agrigento. La sua voce si sta allargando. E questo fa paura. (qui la notizia)

A Pino Maniaci e a tutta la redazione di Telejato va il mio abbraccio. E va l’abbraccio di tutti coloro che preservano le voci libere in una terra che Pino riesce sempre a perdonare e coltivare di speranza mentre continua a riceverne minacce. Ora vedremo cosa fare e come farlo. Pino non può essere lasciato solo.