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Piccole notizie (e soddisfazioni) antimafiose

Scusate, sono mancato qualche giorno e qualcuno dei miei dieci lettori mi si è preoccupato ma sono stati giorni in cui è sembrato di tornare indietro di dieci anni, nel bene e nel male. Il male non lo diciamo (già, non vi diciamo più da un pezzo, non vi diamo nemmeno la soddisfazione di raccontarvi, cari guappetti) ma il bene è proprio un bel bene.

Sono tornato in scena (quanto tempo perso senza assaggiare palco) con Nomi, cognomi e infami e mi si è aperto il cuore di fronte al teatro pieno per due giorni consecutivi senza nemmeno lo spazio di uno spillo. Ogni volta, quando si chiude il sipario, ho la soddisfazione di una curiosità popolare e virale: questo spettacolo (che ha appena compiuto dieci anni) è stata una lunghissima assemblea condominiale  sulla forza della parola. Ora è tempo di svilupparlo: la nuova giullarata arriverà a breve. E ci saranno sorprese.

Sono stato a Crema, in una scuola, con i bravissimi ragazzi di Libera (quanto tempo anche che non tornavo a parlare nelle scuole) e alla fine come sempre sono io che ho imparato. Ero l’allievo che portava la propria esperienza, interrogato sul senso del fare e li ringrazio. Quanta energia c’è nelle nostre scuole.

Poi c’è la vicenda di quello scempio a forma di villaggio turistico a Capo Colonna, Crotone. Ne avevo scritto qui e i fratelli Scalise (gli imprenditori, anzi i prenditori, su quella meravigliosa zona di costa e di storia) se l’erano presa parecchio. Pippo Civati è sceso anche di persona personalmente però chiedere che il governo intervenisse e fa niente che secondo gli Scalise noi saremmo pupari in mano a qualche padrino (noi, capite, gli ho risposto qui). Alla fine dove non è arrivata la politica di governo (Franceschini in primis) è arrivata la magistratura. Forse ci avevamo visto giusto, no?

A proposito di appalti: ci ha lasciato Ivan Cicconi che agli appalti e alla legalità da rispettare negli affidamenti ha dedicato tutta la sua vita. Per me è stato un’inesauribile fonte di ispirazione averlo come “collega” nel comitato antimafia di Regione Lombardia. È un vuoto grande: tra i professionisti dell’Antimafia (nel senso altissimo del termine) lui era tra i primi. Ciao Ivan.

“Siate realisti: chiedete l’ impossibile”

(di Stefano Rodotà)

“Siate realisti: chiedete l’ impossibile”. Questo ammonimento, che Albert Camus affida a Caligola, dovrebbe rappresentare un costante criterio di riferimento per tutti coloro che pensano e agiscono politicamente – e comunque identificano la politica con il cambiamento. Il rischio concreto, altrimenti, è quello di una sorta di tirannia dei fatti che, se considerati come un riferimento da accettare senza alcuna valutazione critica, come l’ unica misura e regola del possibile, ben possono trasformarsi in una trappola, o una prigione. Una questione di evidente rilievo culturale e che, se trasferita sul terreno politico, può aprire una strada verso finalità sostanzialmente conservatrici.

È quel che sta accadendo in molti casi, con una scelta che non può essere considerata inconsapevole o innocente. L’ attribuire ai nudi fatti la competenza a dettare le regole della vita sociale e politica dà origine ad una sorta di naturalismo che sconfigge la necessaria e consapevole artificialità della regola giuridica e della decisione politica. E che, nella sostanza, trasferisce il potere di scelta dalla procedure democratiche alla dinamiche di mercato. È così nato un nuovo diritto naturale, al quale viene attribuita una specifica legittimazione grazie al riferimento ad un mondo globale dove non sarebbe possibile ritrovare soggetti che abbiano la competenza per governarlo. Conclusione che trascura il passaggio da una concentrazione ad una moltiplicazione dei soggetti e dei luoghi delle decisioni, sì che il problema è piuttosto quello di creare le condizioni istituzionali per la democraticità di questi processi per quanto riguarda partecipazione e controllo. In questa prospettiva non muta soltanto la dimensione spaziale, con la globalizzazione, ma pure quella temporale, con la rilevanza assunta dall’ insieme delle dinamiche che determinano e accompagnano nel tempo l’ azione di una molteplicità di attori.

L’attuale discorso pubblico mette in evidenza, quasi in ogni momento, la necessità di spingere lo sguardo oltre gli specifici fatti che la realtà quotidiana concretamente propone, di ragionare considerando anche la prospettiva di lungo periodo. Compaiono con insistenza parole che invitano, spesso in maniera perentoria, a riflettere e ad agire seguendo vie che portano, si potrebbe dire, ad incorporare il futuro nel presente. Si insiste sull’utopia, fin dal titolo dei libri, e si accenna addirittura alla profezia.

Si riscopre l’”utopia concreta” di Marc Bloch, sull’utopia dialogano Paolo Prodi e Massimo Cacciari. Il senso di questi riferimenti, fino a ieri inusuali nella discussione corrente, è evidente. La riflessione e la stessa azione politica non possono essere amputate della dimensione della progettazione, che molto ha sofferto in questi anni per una sua impropria identificazione con l’ abbandono delle ideologie. Nel momento in cui si torna a sottolineare l’ impossibilità di trascurare la discussione sulle idee, non dovrebbe essere troppo tardi per acquisire piena consapevolezza del fatto che la cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura.

Ma non sempre nella discussione pubblica si può cogliere questa consapevolezza. Sta accadendo per la questione del reddito, che gioca un ruolo sempre più rilevante per la costruzione di una agenda politica adeguata al tempo che stiamo vivendo. Tema che davvero può essere collocato tra le questioni “impossibili” di Camus, poiché esclude la possibilità di distogliere lo sguardo da una realtà sempre più chiaramente caratterizzata da una rilevanza nuova del rapporto tra esistenza e risorse finanziarie.

In Francia nel programma proposto da Benoit Hamon per la sua candidatura alle elezioni presidenziali il riferimento ad un reddito universale ha una evidenza particolare e sollecita la discussione sul fatto che siamo di fronte appunto ad una utopia concreta. Da anni, in Italia, Luigi Ciotti parla di un reddito di dignità, sottolineando così proprio l’ impossibilità di eludere una questione che riguarda l’ antropologia stessa della persona. E non si tratta di discussioni astratte. Il ceto politico italiano – qui distratto, come in troppi altri casi – dovrebbe sapere che, soprattutto grazie alle provvide iniziative di Giuseppe Bronzini nell’ ambito delle attività della Rete italiana per il reddito di base, è nata una cultura che non solo ha reso possibile una impegnativa discussione sui rapporti tra il reddito e l’ esistenza stessa della persona, ma ha consentito ad un centinaio di associazioni di mettere a punto una proposta di legge d’ iniziativa popolare che le Camere farebbero bene a prendere seriamente in considerazione.

Così la realtà “impossibile” può trovare la via per incontrare le sue effettive e molteplici possibilità, che danno concretezza al cambiamento e possono tradursi in istituti diversi per rispondere alle diverse richieste determinate da una molteplicità di condizioni materiali. Qui si colloca quello che ormai possiamo, anzi dobbiamo, definire come un vero e proprio “diritto all’ esistenza”: unico nel suo riconoscimento, articolato per consentirne l’ effettiva attuazione. Questo spiega la ragione per cui il riferimento al reddito è quasi sempre accompagnato da specificazioni che possono riguardare la sua misura (da minimo a universale) o un particolare contesto (familiare) – un insieme di variazioni esaminate nel bel libro di Elena Granaglia e Magda Bolzoni, che mostra come si tratti di un tema che è parte integrante della questione della democrazia “possibile”, e nello scritto di Stefano Toso dedicato proprio a reddito di cittadinanza e reddito minimo.

Un tema tanto significativo per la costruzione dell’ agenda politica non può essere separato da tutti gli altri ai quali si vuole attribuire rilevanza. E la dialettica tra possibilità e impossibilità esige l’ individuazione dei principi e dei criteri che devono guidarla, dove la possibilità diventa ovviamente anche quella legata alla realizzazione di una politica costituzionale.

È una ovvietà il sottolineare che si debbono prendere le mosse dal lavoro, indicato fin dal primo articolo come il fondamento stesso della Repubblica e più avanti, nell’ articolo 36, come la condizione sociale necessaria per una esistenza libera e dignitosa. E, poiché non si possono certo ignorare le situazioni di disoccupazione o sottoccupazione, è ben comprensibile che, accanto all’ attenzione diretta per il lavoro, compaia quella sempre più intensamente rivolta ad altri strumenti, che possono comunque mettere le persone nelle condizioni materiali inseparabili appunto dall’ effettiva condizione di libertà e dignità del vivere.

Una esistenza che, come sottolineava già la costituzione tedesca del 1919, non può essere identificata con la semplice sopravvivenza, ma deve concretamente manifestarsi come esistenza “degna dell’ uomo”, “dignitosa”. Una novità non soltanto linguistica. Un impegnativo riferimento – appunto la dignità – compare oggi in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea, affiancando in maniera particolarmente significativa gli storici principi della libertà, dell’ eguaglianza, della solidarietà. Nella storia degli ultimi decenni, anzi, proprio l’ evocazione della dignità è divenuta addirittura più intensa di ogni altra e costituisce ormai un dato che unisce gli ammonimenti di Papa Bergoglio alla richieste dei nuovi “dannati della terra”, come i braccianti della piana di Rosarno. Questo sguardo più approfondito e consapevole arricchisce nel loro complesso gli obiettivi costituzionali, porta con sé un chiarimento del potere dei cittadini e un rafforzamento dei loro diritti, e rende più evidenti e ineludibili le responsabilità della politica.

(La Repubblica, 12 gennaio 2017)

L’ipocrita? Ci disturba perché lancia falsi segnali virtuosi.

A nessuno piacciono le persone ipocrite, ma a pensarci bene, è strano che le disprezziamo tanto. Certo, non è corretto predicare bene e razzolare male, ma almeno predichiamo. Se continuo a parlare dell’importanza di allevamenti meno intensivi e meno crudeli, sto trasmettendo un messaggio giusto, anche se il sabato potreste beccarmi mentre addento un hamburger di dubbia provenienza comprato da un furgone in un vicolo. È sempre meglio di niente, no? Be’, no.

Sia la ricerca sia l’esperienza ci dicono che è peggio di niente: odiamo gli ipocriti più delle persone che si comportano apertamente male. Di recente ne abbiamo avuto una deprimente riprova, tra le altre cose, anche in politica: se non puoi essere di un’onestà specchiata – e chi può esserlo? – forse fai meglio a comportarti direttamente come un mostro.

Perché mai proviamo questa particolare ostilità per l’ipocrisia? Potremmo dire che le persone ipocrite mancano di autodisciplina, e che questo è un difetto morale, ma non mi sembra una spiegazione sufficiente. Il mese scorso, la psicologa Jillian Jordan e i suoi colleghi di Yale ne hanno trovata una migliore: odiamo gli ipocriti perché sono colpevoli di lanciare “falsi segnali”.

Una scorciatoia morale
Secondo la teoria evoluzionistica, i segnali sono il nostro modo di comunicare per ottenere quello che vogliamo dagli altri e comprendono tutto, dalle danze di accoppiamento dei pavoni al mimetismo delle lucertole. Chi condanna aspramente gli altri perché giustificano forme di allevamento crudeli, anche se non lo dice, lascia intendere di non accettarle. È un segnale. E funziona: la condanna morale, come hanno dimostrato gli psicologi di Yale, aumenta la nostra reputazione più che se ci vantassimo apertamente della nostra moralità. È una scorciatoia per ottenere rispetto. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se ci siamo abituati, per motivi evolutivi o sociali, a reagire con tanta rabbia quando scopriamo che quella reputazione è immeritata.

Questo, direi, è il fondo di verità che c’è quando accusiamo qualcuno di “autoincensarsi”, la critica rivolta alle persone sospettate di essere più interessate a sbandierare le proprie credenziali progressiste – di essere antirazzisti, antisessisti eccetera – che non alla vera moralità (naturalmente, accusare qualcuno di autoincensarsi è a sua volta un tentativo di dimostrare quanto siamo astuti e smaliziati). Quello che rende fastidiosi questi segnali è, senza dubbio, il sospetto che siano falsi, che la persona che li lancia non sia affatto virtuosa, o che potrebbe addirittura usarli come alternativa a un comportamento etico. Ogni volta che un articolo esprime una condanna morale, varrebbe la pena chiederci se per caso chi scrive non stia cercando un modo dinegare i suoi pregiudizi.

Il che mi porta alla parte più interessante dello studio di Yale: se siamo “ipocriti onesti”, se cioè ammettiamo apertamente di avere difficoltà a rispettare il principio che predichiamo, la nostra ipocrisia non dà fastidio a nessuno (essendo così sinceri, non siamo più colpevoli di lanciare falsi segnali).

Ma di solito ci vergogniamo di ammettere i nostri travagli interiori, anche se quasi sempre ci rendono più umani. Quindi la cosa migliore da fare è evitare di essere sia rigidi moralisti sia cinici freddi e distaccati. È meglio sostenere con forza quello in cui crediamo, e ammettere sinceramente le nostre debolezze. Così saremo veramente virtuosi, e piaceremo a tutti. Questo è il mio consiglio. Se solo riuscissi a essere il primo a seguirlo…

(Traduzione di Bruna Tortorella)

(fonte)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

Cara di Mineo: voti per NCD in cambio di assunzioni. Tra i rinviati a giudizio il sottosegretario Castiglione. Che ne dice Alfano?

Promesse di voti in cambio di assunzioni al centro per richiedenti asilo di Mineo. E poi turbativa d’asta nella gara da quasi cento milioni di euro per la gestione dello stesso Cara in provincia di Catania. Sono i reati contestati dalla procura etnea che oggi ha emesso diciassette richieste di rinvio a giudizio per altrettanti indagati coinvolti nell’inchiesta sul centro per richiedenti asilo più grande d’Europa. Tra loro c’è anche Giuseppe Castiglione, sottosegretario all’Agricoltura e leader del Nuovo Centrodestra.

Per i pm etnei la turbativa d’asta è stata commessa durante la concessione dell’appalto per i servizi del Cara tra il 2011 e il 2014. Nello stesso periodo le assunzioni al centro garantivano un discreto pacchetto di voti ai politici coinvolti nell’indagine. I magistrati però contestano anche alcuni reati amministrativi alla Sol. Calatino, il consorzio che gestiva il centro di Mineo, a sua volta destinatario di una richiesta di rinvio a giudizio. Oltre a Castiglione, tra le 17 persone per le quali la procura chiede il processo c’è Luca Odevaine, l’uomo che gestiva il business dell’accoglienza per Mafia capitale, il sindaco di Mineo (anche lei di Ncd), Anna Aloisi, ex presidente del consorzio dei Comuni “Calatino Terra d’Accoglienza“,  l’ex direttore del consorzio, Giovanni Ferrera e gli ex vertici dell’Associazione temporanea d’imprese che gestiva il centro. L’udienza preliminare – come racconta il quotidiano La Sicilia – è stata fissata per il 28 marzo prossimo, davanti al gup Santino Mirabella.

Nel provvedimento di 14 pagine firmato dai sostituti Raffaella Agata VinciguerraMarco Bisogni, e vistato dal procuratore Carmelo Zuccaro e dall’aggiunto Michelangelo Patanè, è stata stralciata la posizione di cinque indagati, su cui sono in corso ancora accertamenti e valutazioni. Secondo l’accusa, Castiglione, che entra nell’inchiesta non per l’attuale incarico da sottosegretario ma perché all’epoca dei fatti era presidente della provincia di Catania e quindi soggetto attuatore del Cara, avrebbe “predisposto il bando di gara con la finalità di affidamento all’Ati appositamente costituita”. Accusa contestata anche a Odevaine e Ferrera, rispettivamente presidente e componente la commissione aggiudicatrice.

Gli  inquirenti ritengono inoltre che le coop interessate si “costituivano appositamente in Ati” dopo avere “ricevuto rassicurazioni sull’aggiudicazione degli appalti”, il cui “bando era concordato con lo stesso Castiglione, Odevaine e con Ferrera”. Ferrera e Odevaine sono indagati anche per falso ideologico per l’assunzione di quest’ultimo al Cara di Mineo come esperto di fondi Ue. Quell’appalto da 100 milioni di euro aveva focalizzato anche l’attenzione dall’Autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone che aveva definito la gara “illegittima” e lesiva dei principi di “concorrenza” e “trasparenza“.

A Castiglione, al sindaco di Mineo Aloisi e a Paolo Ragusa, presidente del consorzio Sol Calatino, è contestata anche la corruzione “per la promessa di votiper loro e i gruppi politici nei quali gli stessi militavano” in cambio di “assunzioni al Cara”. I gruppi politici verso i quali erano indirizzati i voti sono diversi e cambiano ad ogni elezione: alle politiche del 2013 era il Pdl, alle amministrative di Mineo era la lista Uniti per Mineo, mentre alle europee del 2014 le preferenze vengono indirizzata verso il Nuovo Centrodestra.

In pratica secondo la ricostruzione dell’accusa il sottosegretario Castiglione era riuscito a trasformare il centro richiedenti asilo in una sorta di massiccia macchina elettorale. E non è un caso che –  secondo quanto messo a verbale da Odevaine – ad ogni nuova assunzione al centro, “tutti i sindaci appartenenti al consorzio si sono riuniti con Paolo Ragusa per spartire il numero delle assunzioni da fare”. Del resto gli stessi dipendenti del Cara hanno raccontato ai magistrati che gli veniva chiesto di prendere la tessera del Ncd. È in questo modo che il partito di Angelino Alfano è diventato fortissimo nei comuni della zona.

Una prova di forza elettorale è arrivata nel maggio del 2014, poco prima che venisse bandita la gara d’appalto da 100 milioni per la gestione di Mineo: Giovanni La Via, ex assessore regionale all’Agricoltura di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, viene eletto europarlamentare con più di 56mila preferenze. Nel suo partito è il primo degli eletti a Bruxelles: prende addirittura diecimila voti in più rispetto a quelli raccolti da Maurizio Lupi, che all’epoca era ancora ministro. Si sarebbe dimesso alcuni mesi dopo, perché coinvolto – seppur da non indagato – nello scandalo sulle Grandi Opere.  Castiglione, invece, rimane ancora al suo posto.

“A due anni dall’avviso di garanzia provvisorio apprendo finalmente che il 28 marzo si terrà l’udienza preliminare davanti al gup di Catania sulla vicenda cara di Mineo. Ribadisco, come ho fatto costantemente ed energicamente in questi anni, la mia assoluta estraneità ai fatti che vengono contestati – commenta Castiglione –  Il 28 marzo, nell’unica sede a ciò proposta – aggiunge il sottosegretario – davanti al tribunale, affronterò ogni singola contestazione, dimostrando sia la piena legittimità delle procedure amministrative che le fantasticherie sul presunto, quanto inesistente, vantaggio elettorale di un partito che, tra l’altro, èstato costituito quasi tre anni dopo i fatti contestati”. Il Movimento 5 Stelle, invece, commentando la notizia della richiesta di rinvio a giudizio mette nel mirino il ministro Alfano.  “Quando era ministro degli Interni non si è accorto di quanto stava accadendo e che vede il suo partito coinvolto in tutti i maggiori scandali legati al business dell’accoglienza degli immigrati: Alfano deve dimettersi insieme al sottosegretario Castiglione”, dice Michela Montevecchi, capogruppo del M5S al Senato.

(fonte)

‘Ndrangheta, operazione “Cumbertazione”: orologi e viaggi per corrompere i funzionari.

Soggiorni con tutta la famiglia all’hotel “Villa Diodoro” di Taormina e nell’albergo “Colomba” di Firenze. Ma non solo. “Questo è per il signor Gianni”. Il regalo era un Rolex e serviva a corrompere, secondo la Dda di Reggio Calabria, l’ingegnere dell’Anas Giovanni Fiordaliso arrestato per corruzione in quanto avrebbe favorito gli imprenditori Bagalà impegnati nella realizzazione dello svincolo autostradale di Rosarno.

Orologi che sono stati trovati dagli uomini della Guardia di finanza, guidati dal colonnello Agostino Brigante, durante la perquisizione a casa del funzionario dell’Anas, finito tra i 25 soggetti destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip nell’ambito dell’inchiesta “Cumbertazione” Molti di loro erano già in carcere perché sottoposti al fermo firmato nelle scorse settimane dal procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho e dall’aggiunto Gaetano Paci.

Un inchiesta che, assieme a quella congiunta della Dda di Catanzaro, ha scardinato il sistema degli appalti in Calabria. Un sistema che si avvaleva anche di Giovanni Fiordaliso al quale è stato concesso il beneficio degli arresti domiciliari. Secondo la Dda di Reggio, infatti, avrebbe fornito a Francesco Bagalà, soggetto ritenuto vicino alla cosca Piromalli, informazioni riservate nonché il format del file Anas con il relativo logo grazie al quale l’imprenditore che aveva vinto l’appalto per lo svincolo di Rosarno poteva compilarsi da solo la “relazione riservata del direttore dei lavori” poi firmata da Fiordaliso.

Inoltre, quest’ultimo, avrebbe più volte favorito le imprese dei Bagalà facendo pressioni su una dipendente dell’Anas affinché venisse accelerata la procedura di firma dello stato di avanzamento lavori cercando di convincere altri funzionari dell’Anas ad attivare la procedura finalizzata a giungere ad un accordo bonario il più possibile remunerativo per l’appaltatore. I Bagalà, infatti, avevano vinto l’appalto con un ribasso di oltre il 40% e per recuperare quei soldi avevano fatto ricorso a “riserve” del progetto che dovevano giustificare una maggiore spesa da parte dell’Anas. “L’ingegnere Fiodaliso – scrive il gip nell’ordinanza – patrocinava ripetutamente gli interessi del Bagalà, abdicando alla neutralità della sua posizione di direttore dei lavori. Nella stessa prospettiva, si impegnava ad ostacolare l’operato dell’ingegnere Consolato Cutrupi”.

In qualità di responsabile unico del procedimento dei lavori, infatti, Cutrupi (anche lui dipendente dell’Anas) aveva riconosciuto nella sua relazione solo alcune riserve per un importo di poco più di un milione di euro ma nettamente inferiore a quello proposto da Fiordaliso nella “relazione riservata”, compilata direttamente dagli imprenditori Bagalà. “Alle sue resistenze, il Cutrupi veniva invitato a rinunciare all’incarico tanto dal Fiordaliso (‘Io se fossi al posto tuo me ne tirerei fuori’ è la frase intercettata dalla guardia di finanza, ndr) quanto da Bagalà Francesco”. “Ingegnere, ma cu va faci fari” è la frase che l’imprenditore espressione della cosca Piromalli avrebbe detto al funzionario dell’Anas che voleva svolgere il suo lavoro correttamente.

“Vi ho preso un telefonino con una scheda tre e l’ho inserita dentro”. “Va bene, siete un grande. A nome vostro è la scheda sempre?” “Sempre a nome mio, non vi preoccupate”.  Il funzionario dell’Anas veniva dotato anche di cellulari “puliti”per discutere dell’appalto con i responsabili dell’impresa di Bagalà.

Il gip Davide Lauro, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare, ha definito “infedele” la condotta del funzionario dell’Anas Giovanni Fiordaliso in quanto avrebbe violato “il dovere di segretezza” e avrebbe speso la sua “funzione perorando le ragioni dei Bagalà”. In più occasioni, inoltre, nei confronti di questi ultimi “si rapportava come autentico consigliori”. Viaggi e Rolex che hanno convinto il giudice per le indagini preliminari a definire il comportamento di Fiordaliso “ispirato al baratto dell’utile pubblico con l’interesse personale”.

Sebbene incensurato, il funzionario dell’Anas finito agli arresti domiciliari, “intratteneva – scrivono i magistrati – una relazione di perdurante asservimento agli interessi dei Bagalà sintomatica, oltre che della gravità della condotta, anche di una non comune perseveranza nell’illecito, testimoniata anche dalla disinvoltura nel chiedere a terzi di procurargli telefoni e sim card ‘puliti’”.

(fonte)

Attilio Manca, parla il pentito: «Era il medico di Provenzano. Ucciso da Cosa Nostra, per mano anche del cugino.»

(di Lorenzo Baldo, fonte)

Barcellona Pozzo di Gotto. Dichiarazioni shock. Sono quelle del pentito Giuseppe Campo, classe 1964, ex mafioso della provincia di Messina, rese all’avvocato Antonio Ingroia (che assieme a Fabio Repici difende la famiglia Manca). E’ stato lo stesso Ingroia ad averne fatto cenno ieri sera durante la commemorazione per il 13° anniversario della scomparsa di Attilio Manca. Dal canto suo l’ex pm non ha riferito il nominativo del collaboratore, né tanto meno i nomi dei principali protagonisti del racconto di Campo; nomi che, però, sono emersi alla prima lettura del relativo verbale. La morte del giovane medico siciliano? Nessun suicidio a base di droga: un vero e proprio omicidio a cui avrebbe partecipato, tra gli altri, il cugino dell’urologo barcellonese, Ugo Manca. L’integrazione ai verbali precedentemente resi da Campo alla Procura di Messina è stata depositata dai due avvocati alla Procura di Roma. Che ha disposto una proroga delle indagini modificando il fascicolo del caso Manca, contro ignoti, questa volta però sotto la dicitura “omicidio”.
Era stato lo stesso Campo, nel settembre del 2016, a scrivere una lettera all’ex pm Ingroia manifestandogli l’intenzione di voler approfondire quanto di sua conoscenza su questo caso. Dopo aver ricevuto la missiva, il legale dei Manca si era quindi recato presso la località segreta dove Campo è detenuto per scontare una pena definitiva per reati precedenti la sua collaborazione (associazione mafiosa, estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti) e aveva verbalizzato le sue affermazioni. A dir poco agghiaccianti.

Il (mancato) killer
L’indicazione che il decesso di un medico di 34 anni, in piena salute, sarebbe in realtà un omicidio, giunge questa volta da colui che a suo dire sarebbe stato incaricato di sparare ad Attilio Manca. Un progetto di morte che si sarebbe dovuto realizzare nel mese di dicembre 2003 e che invece sarebbe stato bloccato: la morte del dott. Manca sarebbe dovuta sembrare un suicidio, quindi niente armi. Il racconto diGiuseppe Campo inizia con il suo incontro con Umberto Beneduce (indicato da alcuni rapporti di polizia come contiguo ad ambienti mafiosi barcellonesi, condannato in primo grado per droga nel maxi processo “Mare Nostrum” assieme al cugino di Attilio Manca, Ugo, entrambi assolti in via definitiva, ndr) avvenuto su sollecitazione di un suo amico. Campo riferisce quindi che Umberto Beneduce gli avrebbe chiesto di sparare al giovane urologo e che lui stesso non avrebbe osato replicare pur non avendo mai ammazzato in vita sua. Il collaboratore spiega inoltre che successivamente, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2004, il suo amico lo avrebbe ricontattato per confidargli che l’omicidio Manca non era più necessario in quanto era già stato commesso fuori dalla Sicilia. L’amico gli avrebbe specificato che la ragione di quella uccisione era legata al fatto che Attilio aveva curato Bernardo Provenzano che, tra l’altro, a suo tempo, si sarebbe nascosto nel barcellonese. Il sodale di Campo gli avrebbe inoltre confidato che ad uccidere Attilio a Viterbo sarebbe stato il mafioso Carmelo Di Pasquale (cognato del boss di Terme Vigliatore Carmelo Vito Foti) assieme ad Ugo Manca e ad un’altra persona di cui non ricordava il nome.
Per quanto riguarda i personaggi citati nelle dichiarazioni del pentito bisogna evidenziare alcuni aspetti: Carmelo Di Pasquale è stato ucciso nel 2009 in un agguato mafioso, dell’amico di Campo (individuato dagli investigatori) non si hanno notizie, così come non si hanno elementi sulla terza persona coinvolta nell’assassinio di Attilio; su Umberto Beneduce non risultano attuali condanne per mafia, e infine Ugo Manca, mai indagato per omicidio, e mai condannato per mafia, ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento nella morte del cugino.

I verbali
“Andai a Barcellona Pozzo di Gotto – dichiara Campo ad Ingroia –, a casa del Beneduce Umberto, e poi andammo in un bar nelle vicinanze, ci sedemmo in un tavolo all’aperto assieme a (omissis), e qui Beneduce mi propose di commettere un omicidio”. Inizia così il racconto di quella giornata che cambiò la vita all’ex mafioso messinese. “Avrei dovuto uccidere un personaggio che non era della malavita e perciò Beneduce mi tranquillizzò dicendomi che non ci poteva essere ‘reazione’ a quell’omicidio da ambienti criminali. Mi disse che era un medico, e se mi sentivo di fargli quel favore, sarei diventato ‘uno di loro’. In verità, lì per lì, ragionai molto e mi ponevo fra me e me molte domande: perché a Barcellona, pur avendo molti killer a disposizione, Beneduce chiedeva proprio a me, che non avevo mai ucciso nessuno? Nel frattempo, acconsentivo apparentemente, ma pensavo che non eravamo in quella confidenza tale per chiedere a me di commettere un omicidio per lui; non poteva conoscermi così bene da affidarmi una cosa del genere; pensai mi stessero mettendo alla prova; e però mai ho pensato di aderire ed accettare quel progetto”. L’avvocato Ingroia chiede maggiori dettagli su cosa gli fosse stato riferito in merito al luogo e al progetto di esecuzione di quell’omicidio. Lo stesso Campo riferisce che Beneduce gli disse “che quel personaggio da uccidere poteva ‘dare fastidio a livello processuale’. Non chiesi altro, e feci capire di accettare la proposta”. Secondo la ricostruzione del pentito, a quel punto Beneduce gli spiega che gli avrebbe fornito l’arma e una moto. “(omissis) – prosegue il pentito –, che era presente, seppur non richiesto in quella sede di commettere il fatto, si offrì di guidare la moto, e si dimostrò ben disposto a collaborare. Ci saremmo dovuti vedere dopo circa una settimana, una domenica. Preciso che eravamo a dicembre 2003. Mi avrebbero dato la foto ed i dettagli per individuare la vittima”.

Il nuovo rendez-vous
“Prima di andare al nuovo appuntamento – specifica Campo –, mi incontrai con (omissis), a quell’epoca mio compare e molto amico, e gli confidai ciò che stava avvenendo. (omissis) mi consigliò di non accettare, perché secondo lui si trattava di una ‘trappola’, vista la irritualità di quella richiesta rivolta a me. Probabilmente stavo già dando fastidio nella gerarchia criminale. A quel nuovo incontro con Beneduce, questi mi disse che per ora il ‘lavoro’ era sospeso; e aggiunse – avanti al fratello Fabio Beneduce – che si doveva attendere. Mi avrebbero ricontattato più in là. Di quel fatto non parlai più con nessuno”.

Contrordine: Attilio è già stato ucciso
La verbalizzazione entra nel vivo, Campo racconta di essere stato informato che quel progetto omicidiario era stato abortito: Attilio è già stato ammazzato. “A fine febbraio-primi di marzo 2004 (omissis) mi disse che il medico era già stato ucciso, e perciò non era più necessario il mio aiuto. Mi raccontò che il medico era stato ucciso a casa sua a Viterbo, e che dell’omicidio si erano occupati il cugino Ugo MancaCarmelo De Pasquale, ed una terza persona di cui non ricordo il nome, aggiungendo che lo avevano eseguito ‘senza fare rumore’. Rimasi stupito, e (omissis) mi spiegò che era il medico che aveva curato ‘Binnu’, e cioé Bernardo Provenzano, che all’epoca si diceva fosse nascosto nel barcellonese, e che perciò il medico ‘se lo erano portato’ fino in Francia”.

La scelta
Prima di concludere, Ingroia intende esplorare le motivazioni di questo pentimento. Cosa le fece prendere coscienza?, chiede l’ex pm. “Il fatto che avrei dovuto uccidere io Attilio Manca – replica asciutto Giuseppe Campo –, e che a parole avevo accettato l’incarico; ormai ero uno di quelli che  prima o poi avrebbe dovuto fare quel ‘salto di qualità’ ed assunzione di responsabilità”.
“Questa cosa fu un campanello di allarme che era ora di fermarsi finché non era troppo tardi?”, insiste Ingroia. “Esatto – replica Campo –, ed il 31 marzo 2004 iniziai a collaborare”. Il legale dei Manca lo incalza chiedendogli se di recente sia stato sentito su questi fatti dalla Magistratura. “Sì; ogni tanto, vedendo le trasmissioni ad esempio su Rai 3, pensavo a quella situazione (la morte di Attilio Mancandre però non volevo tornare su quel che feci all’epoca; dal mio punto di vista potrei considerarmi una vittima io stesso; se non avessi collaborato, avrei potuto finire in galera, ammazzato oppure ancora pieno di soldi; in ogni caso ci avrei guadagnato rispetto alla condizione di collaboratore. (…) Nel 2013 mi hanno arrestato per le cose che ho confessato io e mi hanno condannato a circa 20 anni”. Poi Campo si ferma un attimo e si domanda amaramente: “In fondo, a distanza di 10 anni e più, possibile che non si arrivi alla verità su Manca? Allora decisi di scrivere a lei ed ai magistrati”.

L’appello alla Procura di Roma
L’attenzione si sposta ora verso la Procura capitolina diretta da Giuseppe Pignatone titolare del fascicolo sul caso Manca (nelle mani del procuratore aggiunto Prestipino e del sostituto Palaia). I magistrati romani dovranno vagliare i riscontri delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che associano la morte di Attilio Manca ad un omicidio dietro il quale si muovono servizi segreti, massoneria e quella rete di protezione “istituzionale” eretta attorno a Provenzano. Tornano in mente le parole dell’ex mafioso di Ficarazzi, Stefano Lo Verso che riferisce ai magistrati di sperare che quanto da lui dichiarato “possa essere utile per risolvere l’evento dell’urologo Manca”. Ma c’è anche l’ex capo del clan dei Casalesi, Giuseppe Setola, che, però, dopo aver inizialmente rivelato quanto aveva appreso dal boss Giuseppe Gullotti decide inspiegabilmente di ritrattare. Lo scenario a tinte fosche dipinto dall’ex capo dell’ala militare di Cosa Nostra barcellonese, Carmelo D’Amico, è quello che indubbiamente ha squarciato il velo su un caso che si collega palesemente all’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.
L’appello accorato della madre, del padre e del fratello di Attilio Manca rimbalza nuovamente sul palazzo di giustizia di Roma: investigate, cercate i riscontri, abbiate il coraggio di mettere in discussione tesi precostituite, contrassegnate da pregiudizi, che impediscono di arrivare alla verità. Quella verità che spetta di diritto a due anziani genitori prima di morire.

Mihai, uomo invisibile: lavoratore in nero morto in cantiere e buttato in discarica

«Stai zitto, non dire niente a nessuno… Bada alla tua famiglia, pensiamo noi a tutto». Meglio farlo scomparire, il cadavere di quel manovale rumeno precipitato dall’impalcatura di un cantiere dalle parti di Venaria Reale, nel Torinese: se lo avessero visto i carabinieri, le rogne sarebbero state inevitabili. Assunto al nero; e poi quella caduta dovuta alla mancanza di imbracature mentre, con un martello pneumatico, era alle prese con la «stonacatura» delle pareti di una villetta da ristrutturare. Ecco perché, durante una mattina del giugno 2009, il corpo senza vita di Mihai Istoc, 45 anni, la moglie e i due figli rimasti ad attenderlo in Romania, venne gettato — come fosse un sacco di spazzatura, e non uomo — dai due titolari dell’impresa edile sotto un divano lasciato in una discarica abusiva tra i boschi dell’Astigiano. Dove dieci giorni dopo venne trovato dai cani di due cacciatori di cinghiali che si erano avvicinati per controllare da dove venisse «quel fetore nauseabondo» nell’aria.
Per quattro anni quello di Mihai rimase un cadavere senza nome. Un fantasma sconosciuto all’anagrafe. Sulla lapide unicamente quelle due lettere: «N. N», non nominato. Una storia non differente da altre che si ripetono in tutta Italia: se si muore sul lavoro, e se non c’è contratto, può capitare che il cadavere sparisca per evitare noie giudiziarie.

Il test del Dna

Se questa volta c’è stato un finale differente, ma pur sempre amaro, è grazie alla testardaggine degli investigatori coordinati dalla procura di Asti. E al test del Dna che ha svelato e ridato dignità a nome e cognome altrimenti nell’oblio. Ma nella motivazione della sentenza — quella del 28 novembre e depositata nella cancelleria del tribunale pochi giorni fa — che in primo grado ha condannato per occultamento di cadavere i due costruttori, Antonino Marino e Vittorio Opessi, emerge anche il risvolto della brutta storia di una «morte bianca» condannata a restare seppellita se, appunto, i cani non avessero trovato quel corpo senza vita.
Nulla sembrava aiutare a riconoscere l’identità. Il cadavere scarnificato, mangiato dai cinghiali. Il volto riposto e schiacciato — si legge nel dispositivo pubblicato da La nuova provincia — per meglio nasconderlo, sotto quel divano portato dal cantiere. Senza documenti nelle tasche.

La svolta nel 2012

La svolta del caso arrivò nel 2012, quando l’Interpol segnalò alle autorità italiane la scomparsa del manovale. Una nota vagliata con attenzione dal procuratore di Asti Giorgio Vitari e dal pm Maria Vittoria Chiavazza che decisero di riaprire quel fascicolo a un passo dall’archiviazione. Le denunce di sparizione di tutto il Piemonte vennero ricontrollate una ad una dai carabinieri, individuando possibili collegamenti con la scomparsa del muratore uscito di casa a Torino per cercare un lavoro in cantiere. Sveglia puntata all’alba, nella speranza di essere reclutato al «mercato delle braccia» da un «caporale» per una paga non superiore ai trenta, quaranta euro al giorno. Senza orari, dieci, dodici ore filate. Senza regole, al nero. E senza la certezza di essere pagati. Abitudini vigenti in tutto lo Stivale, tanto al Nord quanto al Sud: il «soldo» pattuito viene pagato a fine lavoro per due terzi. Poi il datore scompare, si nega alle telefonate. «Chi insiste, viene allontanato a spinte dai cantieri, minacciato con la pistola, oppure picchiato. E se per caso hai un malore oppure un infortunio – racconta Marco Bazzoni, uno degli animatori di «Articolo 21», associazione che si occupa di diritti del lavoro – devi stare zitto. E pregare che tu non abbia bisogno di un ospedale, perché altrimenti diventi un problema pesantissimo per i padroncini per cui lavori».

L’ultimo a vederlo fu il fratello

Appunto, un problema per chi ti paga: quel che era divenuto il povero Mihai, ora «solo» un corpo senza vita. L’ultimo a vederlo fu il fratello, che ne denunciò la sparizione. Poi una prima svolta nelle indagini. Il volto del manovale somigliava a quello ricostruito al computer dalla polizia scientifica. Il test del Dna fornì la conferma. I carabinieri scandagliarono tutti i contatti di Istoc, fino a giungere ad un altro manovale romeno. Decisivo al processo, con la sua testimonianza. I due erano amici, e per il pranzo volevano vedersi per consumare un panino assieme. Sotto interrogatorio, fu lui a dire di aver trovato il connazionale: «L’ho raggiunto al cantiere vicino a quello presso cui lavoravo io. Era morto». Mihai era caduto da un’impalcatura, sbattendo violentemente la testa. Era su un ponteggio, senza cinture di sicurezza e imbracature.

«Pensa alla famiglia, stai zitto»

Stando alla testimonianza raccolta dagli inquirenti, i datori di lavoro di Istoc giunti poi in cantiere, avrebbero detto al rumeno di scomparire, intimidendolo. Appunto: «pensa alla famiglia, stai zitto, ci occupiamo noi di tutto». Fatti sparire in qualche modo i documenti e il cellulare del morto, avrebbero architettato la «messinscena», come la definisce Antonio Foti, l’avvocato del testimone. Il cadavere di Mihai venne caricato su un divano preso dal cantiere — probabilmente per meglio trasportare il corpo privo di vita — e gettato, dopo essere andati via in automobile, in quella discarica nell’Astigiano, a una sessantina di chilometri da Venaria Reale e nelle vicinanze dell’abitazione della madre di un dei due costruttori. Poi il passaggio di quei cacciatori, l’indagine che riprende. Un nome e un cognome che vengono riassegnati ad un corpo senza nome. «Ma c’è ancora un rischio – osserva amaro Carlo Soricelli, direttore dell’Osservatorio indipendente di Bologna morti sul lavoro -. E cioè che questo povero lavoratore rimanga uno dei tanti morti che spariscono dalle statistiche, solo perché non assicurate e prive di contratto».

(fonte: Fulloni per il Corriere della Sera qui)

Quando scappa una foto

Il teatro è un tempio, un tempio dove non entra mai il sole. Si lavora sempre con poca luce, nel silenzio più assoluto; il testo va rispettato nelle sue virgole, va approfondito, perché tutto è nella parola. ⠀
(Marcello Mastroianni) via Instagram http://ift.tt/2l5uzXa

Lo sai, mio cielo, tu piovi su di me e io, come la terra, ti ricevo.

Per te ho ricominciato a vivere, a dipingere, ad essere felice, a mangiare meglio per essere forte così che tu potessi trovarmi bella, un po’ nel modo in cui ero prima […]
Mio Bartoli-Jose-Giuseppe-…voglio dirti che tutta me è aperta per te.
Da quando mi sono innamorata di te, tutto si è trasformato ed è pieno di bellezza.
Voglio darti i colori più belli, voglio baciarti…
Vorrei vedere dai tuoi occhi, sentire dalle tue orecchie, sentire con la tua pelle, baciare con la tua bocca.
Per vederti dal di sotto, vorrei essere la tua ombra nata dalla suola del tuo piede, che si estende lungo il terreno su cui cammini…
Voglio essere l’acqua che ti lava, la luce che ti dà forma, vorrei che la mia sostanza fosse la tua sostanza, voglio accompagnarti e aiutarti, amarti e nella tua risata trovare la mia gioia.
Se a volte soffri, voglio riempirti di tenerezza così che tu ti senta meglio.
Quando hai bisogno di me, mi troverai sempre vicino a te.
Perdonami se tutte queste cose che ti scrivo ti sembrano stupidità, ma credo che in amore non ci sia né intelligenza né stupidità, l’amore è come un aroma, come una corrente, come pioggia.
Lo sai, mio cielo, tu piovi su di me e io, come la terra, ti

[Lettera d’amore di Frida al suo amante José Bartoli, 1946-1949 da Frida Kahlo, Lettere appassionate (lo potete acquistare qui)

 

Vi ricordate il «niente tagli alla sanità»? Ecco.

(ne scrive Giovanni Rodriquez per Quotidiano Sanità)

Nella serata di ieri le Regioni a statuto ordinario hanno trovato un’intesa con il Governo sul riparto delle quote dei tagli ai bilanci regionali per far fronte al contributo alla finanza pubblica previsto dalla legge di bilancio 2017. Ma all’accordo si sono opposte però due le Regioni autonome (Sardegna e Friuli Venezia Giulia). Inoltre già lo scorso anno le regioni a statuto speciale avevano fatto ricorso contro i tagli della legge di stabilità 2016 (tutte tranne Trento e Bolzano) e questo apre al rischio di un taglio alle disponibilità della sanità in quanto la quota di compartecipazione di quelle Regioni non aderenti andrebbe a caricarsi sui bilanci delle Regioni a statuto ordinario che hanno già chiarito come, a questo punto, sarà impossibile non intaccare i budget della sanità.

Ma come stanno realmente le cose? I 422 milioni di euro di tagli al Fsn di cui si parlava ieri sera sono confermati? E come si è arrivati a questa cifra? Abbiamo cercato di capirlo con il coordinatore della commissione Affari finanziari della Conferenza delle Regioni, Massimo Garavaglia.

Assessore Garavaglia, ci aiuti a far chiarezza su quanto accaduto ieri. Intanto a quanto assomma la cifra del contributo alla finanza pubblica delle Regioni per il 2017?
Le manovre finanziarie approvate dal Parlamento nel 2014-2015 e 2016 fissano in 8.191,80 miliardi di euro la cifra dei tagli a carico dei nostri bilanci per il 2017, in parte già coperti lo scorso anno con tagli strutturali. Di questi 8 miliardi restano ancora da coprire circa 2,7 miliardi: questo è stato l’oggetto dell’Intesa di ieri sera, come cioè le Regioni Ordinarie pagano i 2,7 miliardi.

Ieri per tutta la giornata si è parlato del rischio di un taglio alla sanità di 422 milioni di euro derivanti dalla mancata intesa con le Regioni a statuto speciale. Ma come si arriva a questa cifra?
La cifra fa riferimento, non all’ultima legge di Bilancio, ma alla precedente legge di Stabilità che ‘colpiva’ anche le Regioni a statuto speciale. Bisogna fare però chiarezza su un punto: da una parte c’è l’annunciato ricorso alla Consulta portato avanti da Sardegna e Friuli Venezia Giulia contro l’ultima legge di Bilancio 2017, dall’altra c’è ricorso alla Consulta fatto e la contrarietà al contributo alla finanza pubblica previsto anche per le Regioni a statuto speciale dalla legge di Stabilità 2016, che ha portato Valle d’Aosta, Sicilia, Sardegna e Friuli Venezia Giulia a defilarsi. Da qui i 422 mln che restano in ballo perché le speciali non hanno voluto farsene carico e che, a questo punto, a causa di una clausola di salvaguardia introdotta dal Ministero dell’Economia, ricadono su tutte le Regioni a statuto ordinario. Le speciali non accettano i tagli del 2016 per 422 milioni e il taglio delle ordinarie sale di 422 milioni nel 2017.

Quindi le Regioni a statuto speciale hanno la facoltà di potersi tirare indietro su questo punto facendo ricadere quanto di loro competenza su tutte le altre?
Esattamente. E pensare che con il referendum costituzionale si voleva garantire a queste Regioni la loro ‘specialità’ in modo permanente. Sono orgoglioso di aver votato ‘contro’ quella riforma.

A questo punto quindi si può già parlare di un taglio secco al Fondo sanitario nazionale di 422 milioni?
Sì, il taglio è già cosa certa: il FSN per il 2017 è ridotto di 422 milioni dal momento che le speciali hanno formalizzato proprio in questi giorni la non volontà di partecipare ai tagli. Ma questa non è una novità, è da un anno che lo denunciamo.

E che ricadute potrà avere tutto questo sui cittadini? Procederete come nel 2015 con una nuova intesa con il Governo per individuare i risparmi da conseguire a fronte del minore finanziamento?
Il punto è che ancora una volta siamo alle solite. Qui si vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca. Con il finanziamento alla sanità lo Stato paga alle Regioni una serie di servizi che dovranno poi essere garantiti ai cittadini. Mi pare cosa del tutto evidente che ad un finanziamento minore possano corrispondere meno servizi. Il problema vero, ad esempio, potrebbe essere quello di garantire effettivamente l’erogazione dei nuovi Livelli essenziali di assistenza.

Lea sempre più a rischio, quindi. Considerando che a vostro avviso, come avete sempre detto, neanche gli 800 milioni stanziati dal Governo sono sufficienti a coprire le spese…
Esattamente, noi avevamo fatto una stima di circa 1,4 – 1,6 miliardi. Successivamente abbiamo accettato per senso di responsabilità un finanziamento di 800 milioni, ma ora sarà tutto ancora più difficile. Basta fare qualche calcolo: lo stanziamento per il Fondo sanitario è di 113 miliardi per il 2017, se a questi viene sottratto il miliardo che servirà a finanziare il Fondo per i farmaci innovativi scendiamo a 112 miliardi. A questo dobbiamo poi sottrarre i circa 400 milioni dei contratti e, adesso, i 422 milioni delle Regioni a statuto speciale. Scendiamo così a circa 111 miliardi. Praticamente quanto il Fsn del 2016. E tutto questo lasciando fuori i nuovi Lea. Insomma, la situazione non è certo semplice.