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«Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi»

Le parole sono ancora più inquietanti perché arrivano da un Giudice: Chiara Schettini.

Giusto per ripristinare i rapporti di forza: «Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». E ancora, sempre al telefono con uno dei «suoi» curatori fallimentari (Federico Di Lauro): «Gli ho detto (riferendosi al suo compagno Piercarlo Rossi, ndr ) guarda, io ci metto un attimo a telefonare a dei miei amici calabri che prendono il treno, vengono, te danno una corcata de botte e se ne ripartono». Così parlava Chiara Schettini, l’ex giudice fallimentare del Tribunale di Roma, arrestata per peculato, ricordando di volta in volta ai suoi interlocutori che il giudice era lei.

Che lei, una volta informata, era in grado di risolvere i problemi. Nelle sue vene, sottolinea spesso sforzandosi di prevalere sui suoi interlocutori, c’è sangue «calabrese». Di buona famiglia, cresciuta ai Parioli, ottimi studi, curriculum prestigioso, conversazione colta, eppure Chiara Schettini, è la stessa donna che, con brutale determinazione, firma e spedisce un fax di incontrovertibili minacce nei confronti di uno degli avvocati che l’aveva denunciata ai magistrati di Perugia. Fax peraltro indirizzato a un personaggio controverso, Massimo Grisolia, ingaggiato in prima battuta per convincere un testimone a ritrattare accuse contro di lei.

Nel documento, trasmesso ai primi del 2013, si legge: «Ho riflettuto sul fatto che potrei soprassedere alla richiesta restitutoria (15mila euro utilizzati da Grisolia , ndr ) ma lei caro professore mi deve togliere dalle palle il suo amico Massimo (l’avvocato Vita, ndr ); ho saputo che ha richiesto la riapertura di due procedimenti ovviamente da lui stesso promossi e conclusi con conferma di archiviazione…. È veramente una rottura senza limiti… Lei deve far capire al suo amico che è meglio che non insista perché non domani, nè magari dopo domani ma anche fra dieci anni io lo ammazzo». (via)

Salinger

Ecco, io penso che ci sarebbe da volare via a essere Salinger.

Una barca sul bagnasciuga (ricordo di Giuseppe Bommarito)

(Il testo che ho recitato ieri sera nella piazza della sua Balestrate in ricordo dell’omicidio dell’appuntato dei carabinieri Giuseppe Bommarito)

È un gioco e se provi funziona. Basta crederci, certo, le cose che ci credi così forte da farti sanguinare il naso poi succede che succedono davvero.
Prendi una strada, un marciapiede, ci metti il bene e il male, poi ci aggiungi un poco di mafia (poco, e sottovoce, però) e niente mandanti. Poi ci sono i morti gli applausi e il sangue. E le commemorazioni. Poi arrivano gli esecutori, poi arrivano i mandanti e passa la storia come passano i lutti. Da noi i lutti sono cenere. Cenere che si alza una volta all’anno e si nota ma in fondo poi il dolore è una brace nascosta.
Ecco, io quando mi metto a scrivere o a provare a raccontare una commemorazione mi sento sempre una barca sul bagnasciuga. Si vede che ci sono fatto poco, per le commemorazioni. Per le commemorazioni che sembrano un lunga messa laica in cui al ricordo conta che ci siano giusti il condizionale e il congiuntivo e si perde l’aria, l’acqua, il mare e tutto il sentimento; e alla fine ci si sente sul bagnasciuga, ecco, appunto, non so se oggi qui in piazza succede anche a voi.
È che Giuseppe Bommarito trent’anni fa era appuntato dei carabinieri, era scorta fedele di D’Aleo, era collega di Pietro Morici, tutti nel solco di Basile e lì dove galleggiano i corpi degli eroi e le feci dei mafiosi, ecco, è che Giuseppe Bommarito forse trent’anni dopo si meriterebbe, lui con tutti e gli altri, che uscissimo dalle parole e provassimo ad essere anche noi coraggiosi, per una sera, come lui. Coraggiosi nelle domande che fischiano più delle pallottole e rimangono conficcate nel cuore per almeno altri trent’anni.
Quante parole dobbiamo inventare ancora per parlare ad una piazza dove stanno i sopravvissuti di questi trent’anni? Che aggettivo dovrei riuscire a martellare per parlare agli orfani, i fratelli e quelli per cui via Scobar è l’indirizzo del loro inizio del restare soli? Come guardiamo negli occhi queste vedove che prese tutte per mano sono lunghe come una nazione? Come parliamo a questi orfani che sono un nodo in gola che pesa come un pianeta con una faccia sempre al buio?
Oggi leggevo del padre di Giuseppe che appena saputo della nascita del figlio torna di corsa dai campi per abbracciare la moglie e il neonato o di quando Giuseppe concedeva un “cinema” a sua sorella con i soldi del proprio lavoro, ecco, io, dico a me, piacerebbe che in questa piazza si stilasse un patto. Un patto per esercitare la memoria oltre che commemorarla. Un patto perché Giuseppe non galleggi su Balestrate, su Monreale ma sedimenti. Scenda adesso con tutto il dolore così, senza aggettivi inutili da teatranti, ma con tutta la pelle dura, le lacrime fiere e il ricordo inchiodato ogni giorno, ecco, che Giuseppe scenda dalla testa e scivoli giù dal collo per il bracciolo della sedia e sia terra. Terra di una terra che tra le parole che ha da confiscare ha anche le ferite che abbiamo sempre avuto troppa paura di esibire. E terra che ci tenga forti e dritti.
Caro Giuseppe, io con le commemorazioni ultimamente sono una barca sul bagnasciuga che non si sente nemmeno all’altezza di scegliere la punteggiatura per una morte di servizio. Non riesco nemmeno a dirlo che burrone c’è tra la dicitura “dell’omicidio di Cosa Nostra” e la voce com’è rimasta in gola ad un tuo figlio, non riesco a non sentire la vertigine tra il rumore degli spari e il silenzio compito della memoria.
Possiamo, questo sì, però prometterci che non stiamo ad aspettare, andiamo a prendercele le onde per disincagliarci dal bagnasciuga e andare in mare aperto. Eroici nello stare diritti e professionali. Professionali nel senso bellissimo del professare ideali e la propria natura nel proprio lavoro. Così come insegnavi tu. Buona notte.

La domanda del mattino

Ogni tanto al mattino mi sveglio e trovo nel caffè una domanda. Mi insegue tutto il giorno finché non trovo almeno un mezzo straccio di risposta dato almeno per finta.

Ma sulla questione del datagate che sta investendo Obama e gli USA qualcuno ha qualcosa da dire? Perché non abbiamo un politico al governo che veda almeno mezzo metro più in là del proprio orto?

 

Il Governo, gli sputi e internet

Aspettiamo da tempo un governo che conosca i modi e le parole per potere affrontare il tema della rete e tutti i suoi derivati. Da anni abbiamo intelligenze (e attività) che chiedono che l’Italia esca dalla preistoria tecnologica e di approccio per allinearsi agli Stati che finalmente hanno fatto pace con i luoghi comuni su internet e riescono ad utilizzarne i vantaggi senza sclerotizzarsi sulle paure. Il convegno sulla “violenza in rete” organizzato dalla Presidenza della Camera dei Deputati avrebbe potuto essere una buona occasione per cominciare a fare le cose seriamente: non è andata così.

Lo spiega bene Massimo Mantellini qui e Vittorio Zambardino:

Quindi me ne vado. E mentre scendo le scale della Camera ripenso che ognuno di noi affonda le sue convinzioni anche nella vita, nella conoscenza di ciò che ha visto o vissuto. Ripenso a un ragazzino di dodici anni, in una scuola in provincia di Napoli, pestato ogni giorno. Gli dicevano ” ricchione”. Lo pestarono fino a quando lui imparò a difendersi. Parlarne ai genitori o ai professori sarebbe stato solo moltiplicare la condanna e le botte. Come spesso oggi. Però era la prima metà degli anni ’60, più di 50 anni fa. Non c’era la Rete. Ma c’era già l’ odio. C’era il disprezzo, c’erano gli sputi, c’erano l’avvilimento e il ricatto. Andava in linea ogni giorno all’uscita. Ora vorrebbero farmi credere che c’entra la Rete, mentre io ricordo bene che c’entra quell’ abisso che è il cuore degli umani. (qui)