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8 marzo

Effetti collaterali del “Governo di tutti”: la Lega blocca la legge sull’omofobia

Solo a marzo, con un Paese in piena pandemia, il quadro è questo: a Brugherio l’auto di Danilo Tota e del suo compagno Sasha Di Cicco viene vandalizzata, sempre lì a Brugherio Danilo Tota era stato aggredito perché gay al parco cittadino, “checchina” e “feminuccia” gli urlavano addosso; il 14 marzo a Vicenza Andrea C. è stato adescato su Facebook e si è ritrovato di fronte 12 ragazzini che l’hanno preso a calci e pugni, è stato salvato da alcune persone di passaggio; il 15 marzo esce la notizia Thomas racconta di essere stato offeso, circondato e preso a sassate da un branco di 15 persone che l’hanno preso di mira per i suoi capelli tinti di rosa e per il fatto di essere gay.

Thomas racconta che le Forze dell’Ordine gli hanno perfino sconsigliato di sporgere denuncia; il 24 marzo Aurora e Valentina sono in un parco a Voghera vengono aggredite da un uomo che le rimprovera per essersi date un bacio, il video è uno spaccato di omofobia benpensante; il 26 marzo a Asti Nicholas Dimola viene invitato ad andarsene mentre era seduto su una panchina del parco (“sei un travestito di merda, vattene”, gli dicono) perché quella era “una zona per bambini”. È proprio Nicholas che nella sua denuncia pubblica ricorda che a Asti tre suoi amici omosessuali si siano suicidati; nella notte tra il 28 e il 28 marzo a Perugia l’auto di un giovane viene vandalizzata con la scritta “sono gay” durante la notte.

Questi sono solo i casi di cui si ha conoscenza, quelli che sono diventati pubblici in mezzo ai molti episodi che si ripetono tutti i giorni e che per vergogna vengono taciuti e rimangono nascosti. La questione dell’omofobia è una costante nelle cronache locali, con azioni e esiti più o meno gravi, eppure viene derubricata nella categoria delle “ragazzate” dove si infilano spesso i problemi complessi che non si vogliono affrontare.

Per anni si è nascosta sotto il tappeto ma ora quel tappeto è una montagna che incombe sulle responsabilità della classe politica. Eppure il centrodestra compatto ieri ancora una volta ha incagliato il disegno di legge contro l’omotransfobia (la “legge Zan”) con la solita patetica scusa di “altre priorità”. E fa niente che siano gli stessi che presentano proposte di legge sui crocifissi o sulle canzoni di Casadei: il governo Draghi, piaccia o no, tiene insieme una compagine così larga che non riuscirà mai a trovare la quadra per smuovere qualcosa in tema di diritti. Siamo in zona rossa anche per i diritti, sospesi, in attesa che torni la politica. Non è una buona notizia, no.

Leggi anche: 1. Legge contro l’omofobia: no secco della Lega. Ora il ddl è a rischio al Senato /2. Omotransfobia, il difficile cammino e le polemiche sulla legge che vieta l’odio contro omosessuali e trans /3. Caivano, Zan a TPI: “Meloni strumentalizza l’omicidio, ma è la prima a ostacolare la mia legge sull’omotransfobia”

4. Il linguaggio di certi giornali sul caso di Caivano rivela l’arretratezza italiana sull’omofobia (di G. Cavalli) /5. Il senatore della Lega Pillon condannato per aver diffamato un’associazione Lgbt /6. La legge contro l’omofobia? Serve proprio perché c’è chi non la vuole (di Fabio Salamida)

L’articolo proviene da TPI.it qui

A pochi metri dalla solita manfrina

Che Matteo Salvini sia terribilmente scomodo in questo governo allargato è un’evidenza negata solo da quelli che per convenienza hanno voluto rivenderci la svolta del leader leghista, tanto per magnificare preventivamente le doti di Draghi nel mondare salvificamente una politica che invece (purtroppo) rimane sempre uguale a se stessa. Che la base di Salvini sia in subbuglio, soprattutto quella più estrema ai limiti del negazionismo che ha accarezzato di sponda in tutti i mesi di questa pandemia è un fatto che basta verificare scorrendo i commenti ai suoi post su uno qualsiasi dei social che il segretario leghista utilizza con veemente frequenza. Anche i molti imprenditori che confidavano in lui per un fulmineo ritorno alle aperture e a una presunta normalità (perfino sfidando i ragionevoli rischi del virus) sono parecchio incazzati.

A questo aggiungeteci che all’interno del partito Salvini comincia a perdere appoggi importanti e a soffrire figure come quella di Giorgetti che viene considerato molto più affidabile dai ceti produttivi del nord, senza dimenticare Zaia che da tempo aspetta solo il momento giusto per provare a tirare la sua zampata e prendersi il partito. Se non bastasse là fuori c’è anche Giorgia Meloni che nella più comoda posizione di oppositrice al governo ha le mani libere per sparare a palle incatenate contro le decisioni di Draghi e dei ministri senza doversi prendere la responsabilità di proporre per forza delle alternative.

E che farà Salvini? Tornerà a essere il solito Salvini. Anzi, ha già cominciato. Nella distrazione generale ha cominciato a spargere un po’ di messaggi di odio e di razzismo: l’8 marzo ha commentato la notizia del referendum in Svizzera sul burqa mischiando un po’ le carte e parlando di «una decisione dei cittadini a difesa dei valori della civiltà occidentale ed europea, contro ogni violenza, discriminazione e sopraffazione»; lo stesso giorno ha scritto che «serve più rigore nel controllo degli sbarchi, anche alla luce del recente allarme dei Servizi di intelligence sui rischi di infiltrazione terroristica: i confini dell’Italia sono confini europei»; il 9 marzo è tornato ai fasti di un tempo annunciando l’intenzione di «confrontarmi al più presto con il Presidente Draghi e il ministro Lamorgese per trovare soluzioni. L’Italia soprattutto in pandemia – e con molti cittadini costretti a casa – non può permettersi sbarchi a raffica, clandestini a spasso e illegalità»; ieri è partito con le solite menzogne sbraitando «che il traffico di esseri umani sia un business per la malavita organizzata e che alcune Ong siano complici era una mia convinzione ed ora lo è anche di diverse procure» e dicendo chiaramente «continuo a pensare che, anche in un momento di pandemia, tornare a difendere i confini sia una necessità».

Come al solito, quando si trova in difficoltà, estrae dal cilindro migranti e confini che gli hanno fruttato tanta fortuna. Solo che il difficile momento nazionale (e la conformazione di questo governo) renderanno ancora più difficile la sua propaganda e allora urlerà ancora più forte, ancora più feroce, ancora più violento. E tornerà il solito Salvini, la sua conversione si dimostrerà una semplice posa e si ricomincia tutto da capo.

Segnatevelo.

Buon venerdì.

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Commissariate la Lombardia

La sentite intorno quest’aria tutta concorde? Sembra una pacificazione e invece è lo stallo che si crea quando partiti e poteri si allineano, lo fanno spesso in nome di una non meglio precisata “unità nazionale”, quando tutti insieme si deve uscire da una “crisi” e questa volta funziona perfettamente in nome dell’epidemia. Accade che partiti lontanissimi tra loro si trovino seduti nello stesso governo, quelli che si erano sputati addosso fino a qualche minuto prima e quelli che hanno spergiurato un milione di volte “mai con quelli là” e accade che anche l’osservazione di ciò che non funziona improvvisamente si ottunda.

La Lombardia, ad esempio. La campagna delle vaccinazioni anti Covid in Lombardia è una drammatica sequela di errori e di ritardi, di incomprensibili scelte e di gravi inadempienze. Qualcosa che grida vendetta ma che soprattutto meriterebbe un dibattito politico nazionale, una parola, un ammonimento, almeno uno sprono, qualcosa qualsiasi.

In Lombardia accade che alcune persone che non hanno diritto al vaccino riescano a prenotarlo e a farlo tranquillamente per un link del sistema regionale che presenta un’evidente falla. L’ha scoperto Radio Popolare e lo confermano lombardi che raccontano di averlo ricevuto nei gruppi di watshapp. «Ho fissato l’orario – racconta una testimone – e dopo dieci minuti ho avuto la mail di conferma per andare lunedì 8 marzo alle 12.05 all’ospedale militare di Baggio. Non ci credevo fino in fondo, ma quando sono arrivata lì incredibilmente ho verificato che ero davvero in lista». I direttori sociosanitari dicono che non hanno nessun modo per controllare le liste che sarebbero tutte in mano all’Asst. Tutto bene, insomma.

Il magico software regionale tra l’altro convoca i cittadini (vale la pena ricordare: quasi tutti anziani) con un preavviso di poche ore, la sera precedente. Alcuni sono costretti a fare chilometri e chilometri nonostante abbiano punti vaccinali molto più vicini. Alcuni addirittura hanno ricevuto invece due messaggi: «Ho ricevuto la convocazione dopo pochissimi giorni dall’iscrizione – racconta Maria Grazia alla consigliera regionale (Lombardi Civici Europeisti) Elisabetta Strada – ahimè però ho ricevuto due sms, a distanza di qualche ora, il primo mi convocava in piazza Principessa Clotilde alle ore 11 e il secondo ad Affori alle 16. Non sapevo quale dei due messaggi fosse corretto e al numero verde mi hanno risposto che non lo sapevano nemmeno loro. Sono andata dove mi era più comodo». Ovvio che se la gente non si presenta all’appuntamento i vaccini poi a fine giornata vadano buttati. In Regione giacciono interrogazioni che chiedono conto di quante dosi siano state sprecate finora: nessuna risposta, ovviamente.

All’8 marzo su oltre 720mila over 80 lombardi circa 575mila hanno aderito alla campagna e ne sono stati vaccinati 150mila. Dei 140mila che non hanno aderito non si sa nulla: non sono riusciti a prenotarsi? Non sono informati? Rifiutano il vaccino?

Poi ci sono gli errori di gestione degli spazi: ad Antegnate, provincia di Bergamo, è stato previsto un punto vaccinale nel centro commerciale del paese. Per un errore di pianificazione domenica 28 febbraio c’erano in coda quasi duemila persone. Sempre anziani, ovviamente assembrati. A Chiuduno, sempre nella bergamasca, il punto vaccinale è invece in un centro congressi che potrebbe gestire 2600 vaccinazioni al giorno e si viaggia a un ritmo di 800.

Perfino Bertolaso ha dovuto ammetterlo: «Il sistema delle vaccinazioni degli over 80 continua a funzionare male, a creare equivoci, ritardi», ha dichiarato. Addirittura Salvini: «Problemi nella campagna vaccinale della Lombardia? Se qualcuno ha sbagliato paga, e quindi anche della macchina tecnica di Regione Lombardia evidentemente c’è qualcuno che non è all’altezza del compito richiesto». Ora la Regione Lombardia ha deciso di appoggiarsi al portale delle Poste, scaricando di fatto il gestore Aria, un carrozzone voluto da Fontana e soci per “guidare la trasformazione digitale della Lombardia”. Ottimo, eh?

Stiamo parlando della regione che ha collezionato un terzo dei morti per Covid di tutta Italia, della regione che ancora oggi sta vedendo i suoi dati peggiorare più di tutti. Serve una testimonianza? Eccomi qui: padre dializzato, invalido al 100%, ovviamente ultraottantenne e per ora l’unico segno di vita è un sms di scuse per il ritardo.

Tutto questo dopo un anno di sfaceli politici e organizzativi. Ma davvero, ma cosa serve di più per commissariare la Lombardia?

Buon mercoledì.

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A proposito di Dana

Lo scorso 17 settembre all’alba a Bussoleno, in Valsusa, è stata arrestata nella sua abitazione Dana Lauriola attualmente nel carcere Le Vallette di Torino per scontare una pena detentiva di due anni, a seguito di una condanna definitiva per “violenza privata” e “interruzione aggravata di servizio di pubblica necessità” per un’azione dimostrativa pacifica realizzata il 3 marzo 2012 sull’autostrada Torino-Bardonecchia, all’altezza del casello di Avigliana, alla quale parteciparono attivisti del movimento No Tav, in protesta contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità.

Cosa ha fatto Dana? Era il 3 marzo 2012 e la tensione in Val di Susa era altissima per l’incidente occorso a un attivista, Luca Abbà, inseguito da un poliziotto e folgorato su un traliccio. Vengono organizzate manifestazioni di protesta e di solidarietà e tra queste circa 300 manifestanti si sono diretti a Avigliana, dice la sentenza del tribunale: «occupando l’area del casello, rendendo inefficienti gli impianti di videosorveglianza e bloccando con nastro adesivo le sbarre di pedaggio in modo da consentire il passaggio continuo dei veicoli in transito». Dana, dice sempre la sentenza «ponendosi alla testa dei manifestanti, con l’utilizzo di un megafono intimava agli automobilisti di transitare ai caselli senza pagare il pedaggio indicando le ragioni della protesta» (così la sentenza 28 marzo 2017 del Tribunale di Torino che ha quantificato in 777 euro il danno patrimoniale riportato dalla società concessionaria dell’autostrada per mancata riscossione dei pedaggi).

Dana Lauriola viene condannata a due anni di carcere. È incensurata per cui si presume che, avendo partecipato a una manifestazione pacifica, possa, come sempre succede, accedere a misure alternative. Qui si entra nell’assurdo. Le vengono negate misure alternative per la mancata presa di distanza di Dana dal Movimento No Tav (pur in un quadro di revisione critica «delle modalità con le quali porre in essere la lotta per le finalità indicate») e il luogo della sua abitazione, prossimo all’epicentro dell’opposizione alla linea ferroviaria Torino-Lione). In sostanza a Dana vengono contestati i suoi ideali politici e il luogo in cui abita. Una cosa mostruosa. Quando ho letto la sentenza mi sono detto che sicuramente i difensori della libertà, quelli che scrivono tutti i giorni sulle proteste in giro per il mondo, si sarebbero preoccupati anche di Dana. Niente.

Amnesty International dice: «Esprimere il proprio dissenso pacificamente non può essere punito con il carcere. L’arresto di Dana è emblematico del clima di criminalizzazione del diritto alla libertà d’espressione e di manifestazione non violenta, garantiti dalla Costituzione e da diversi meccanismi internazionali. È urgente che le autorità riconsiderino la richiesta di misure alternative alla detenzione e liberino immediatamente Dana Lauriola, arrestata ingiustamente per aver esercitato il suo diritto alla libera espressione e a manifestare pacificamente».

Non lo sentite tutto questo silenzio intorno?

Buon venerdì.

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Il signor M. e il femminismo. Una storia al contrario e un discorso di parità.

(Nel numero di Left che trovate in edicola o in digitale qui c’è un mio racconto per il prossimo 8 marzo. Al di là del fatto che un settimanale italiano che dedica pagine a un racconto è un’ottima notizia per me è stata una bella soddisfazione. Questo che segue ne è l’inizio. Il maglio, come al solito, è nel finale.)

C’era bava sul colletto. La prima sensazione fu quell’umidiccio scivoloso che gli leccava il collo, poi ci fu la bocca bolsa, tutta stracciata, da ricomporre in un morso che fosse almeno civile. Quando aprì gli occhi il Signor M. la prima cosa che fece fu di controllare se fosse stato visto da qualcuno; l’idea di essere stato inconsapevolmente osservato in quel suo sonno gocciolante e piegato in due lo metteva terribilmente a disagio. Pensò anche che, forse, il disagio si potesse vedere.
Poi si disse di smetterla.
Fuori dal finestrino c’era un’alba piuttosto stantia con le luci ancora troppo buie. I campi che passavano in fila con solo qualche curva di una vecchia strada provinciale non suggerivano nessun posto in particolare: avrebbe dovuto arrivare alla stazione di Roma alle otto e undici minuti secondo la tabella ferroviaria e, con un calcolo a spanne, pensò di essere nell’ultima Toscana, forse Umbria.
Due file più avanti la controllora chiacchierava a bassa voce con un’elegante signora. M. ne scorgeva i capelli ramati dal poggiatesta, tenuti insieme da una molletta color avorio. Dalla voce seppur bassa si sarebbe detto che potesse avere una quarantina d’anni. Di certo era presa da qualche preoccupazione.
«Era una decisione che prima o poi si sarebbe dovuta prendere», diceva la controllora, marziale in una divisa che aveva qualcosa di militaresco più che ferroviario.
Dal suo sedile, sporta verso il corridoio centrale in cui sbucavano solo le dita, la signora seduta continuava a ripetere che comunque era importante non arrivare allo scontro, fare tutto con intelligenza e misura. Intelligenza e misura, continuava a ripetere. Anche se ogni volta il tono si faceva più cupo, intenso, infine quasi commosso.
«Certo», le disse la controllora con il tono di chi non vuole disturbare ma comunque farsi sentire, «ma la pazienza ha un limite. Anzi, non è questione di limite. È questione di dignità. Prossima fermata: dignità!» disse in un crescendo che si ruppe dentro una risata chiassosa. Durò qualche minuto, con tutti i rivoli. M. provò un brivido di imbarazzo per quel tono che l’avrebbe svegliato se non fosse stato sveglio.
Dall’altro lato, sulla coppia di sedili oltre al corridoio, una ragazza lo fissava con un libro tenuto sulle gambe solo per posa. A vederla si sarebbe detto che fosse lì dall’inizio del viaggio a vivisezionarne i centimetri di pelle: M. tentò di sostenere lo sguardo, qualche secondo, poi si abbassò. «Cosa guardi» fu il pensiero che fece accompagnandolo con le labbra. Non che non fosse abituato agli sguardi, M., per carità: nel suo lavoro di “selezione del personale” gli capitava di rovistare tutto il giorno in mezzo agli occhi degli altri. Imploranti, arresi, speranzosi, stanchi, liquidi, torvi: la sua carriera era stata tutto uno sfilare di occhi. Ora che l’azienda affrontava la crisi invece si ritrovava a porgere con ferma cortesia la proposta di cassa integrazione, mobilità e tutte quelle altre fregole per camuffare il licenziamento e gli occhi, alla fine, erano diventati tutti spenti. Tutti uguali. I licenziati hanno tutti lo stesso colore addosso, anche in faccia. Pensò. Sbirciò ancora a lato: la cacciatrice era sempre in punta. Per quel poco che riuscì a tenerle lo sguardo si accorse della sua immagine di preda riflessa. Provò imbarazzo. Il caldo gli salì dalla schiena diventando rossore a macchie su per il collo. Pur non vedendosi M. avrebbe potuto disegnarsi il rosso che aveva addosso. Sentiva il fiato di quella che gli evaporava nel naso. Gli venne da allargarsi il colletto del maglione nonostante non fosse stretto. Si sarebbe sbucciato, pur di non essere lì. Ebbe anche l’istinto di sfidare quegli occhi sconci ma quando riguardò la donna se la ritrovò con un’espressione tronfia di chi sapeva che sarebbe tornato. Rinunciò.

(Il racconto prosegue sul numero di Left in edicola. Il sommario è qui. Il numero digitale si può acquistare qui)

Donne e Mattarell(a)

295926_340287862729703_1737151009_nHo ascoltato le parole del Presidente della Repubblica Mattarella in occasione della festa della donna per radio, molto velocemente e devo dire che non mi avevano colpito per modernità (beh, direte voi, da Mattarella e in effetti avete anche ragione) ma credo che la sensazione che ho provato l’abbia descritta benissimo Cristiana Alicata nel suo blog:

In nessuna parte del suo discorso – mai – compare un impegno a cambiare questa condizione per cui le donne sono dedite alla cura e alla professione e, silenziosamente, ce la fanno. L’ammirazione che i maschi (che in contrapposizione alle donne quindi sono di solito presi da se stessi e dal potere e non ce la farebberp poverini a fare tutto, quindi…non lo fanno) rivolgono alle donne assume una caratteristica tipicamente maschilista: voi donne siete regine del focolare, svolgete i vostri doveri in modo umile senza vantarvi, noi maschi invece facciamo la guerra, ostentiamo il potere e senza di voi saremmo perduti.

Ecco a me la matrice del discorso di Mattarella appare in assoluto contrasto con la cultura della parità che vorrei che il mio Paese promuovesse e mi sembra invece in linea, pur forse non volendolo, con il movimento reazionario degli invasati di “sposati e sii sottomessa” versione maschilista e sorella stretta delle molto omofobe sentinelle in piedi. Nella adulazione dei ruoli svolti dalla donna, scorgo anche una certificazione della loro giustezza. Il discorso di Mattarella, in sostanza, non è stato politico, ma culturale. Non c’è stato alcun impegno a modificare lo stato delle cose che per la maggior parte, possiamo anche ammetterlo, sono esattamente come il Presidente le racconta, anche se io sono assolutamente convinta che una nuova generazione di maschi attenta alle cosiddette dinamiche di cura sia già nata, esista ed è un errore ignorarlo.

L’8 marzo di Lella Costa e l’archeologia culturale

Un’interessante prospettiva di Lella Costa intervistata su donne, 8 marzo e governo:

Possiamo dire che alle giovani non frega nulla dell’8 marzo, così come sono disinteressate a San Valentino. Lo vedo anche con le mie figlie, la più grande ha 30 anni e la più piccola 17, noto che danno i diritti per acquisiti e forse vivono una visione parziale della realtà poiché non sono ancora entrate nel mondo del lavoro e dunque non conoscono le ingiustizie, le prevaricazioni, il maschilismo della società. Credo che non sia colpa loro se la vita adulta viene posticipata. Però, è vero, alcuni diritti come l’aborto sono oggi minacciati oppure aggirati, in Lombardia per esempio esiste un’altissima obiezione di coscienza e gli ospedali non offrono pienamente il servizio di interruzione di gravidanza.

Tuttavia quasi nessuna protesta con clamore. Perché?
Penso che alle ragazze manchi l’esperienza che abbiamo vissuto, il fatto che negli anni ’60 la contraccezione era reato, sono una generazione smarrita, ma ho registrato un grande turbamento rispetto a quello che è accaduto in Spagna (il governo Rajoy ha cancellato la legge sull’aborto, ndr). Allo stesso tempo penso che moltissime giovani non abbiano davvero compreso quanto fosse importante mobilitarsi per la legge 40 sulla fecondazione assistita, ma sono convinta che non siamo state capaci a farlo capire, esiste un forte scollamento tra la mia generazione e quella delle mie figlie. Credo comunque che ora il tempo è loro, devono trovare i loro slogan, le nuove parole d’ordine.

Negli ultimi mesi il dibattito mediatico e politico ha riservato molto spazio ai diritti delle donne. Il governo Letta ha varato una legge sul femmincidio, la presidente Laura Boldrini è intervenuta spesso dando un’ottica di genere, si è parlato molto di femminicidio. C’è qualcosa che la rende perplessa?
Ho il timore che qualcosa non vada per il verso giusto. Soprattutto temo che non venga compreso che la violenza sulle donne è un problema degli uomini, sta a loro risolverlo. Dobbiamo capovolgere lo sguardo, e continuare a tenere alta l’attenzione sulla violenza domestica, è una piaga molto diffusa e per questo lo spettacolo con il quale ho fatto una tournée, Ferite a morte di Serena Dandini, è stato accolto con grande gratitudine e calore.

Un governo con la metà ministre, non è simbolicamente positivo?
Sì, Ma quante sono le sottosegretarie?

9 su 44…

Ecco, come temevo. Questo significa che il 50 e 50 annunciato da Renzi era soltanto una operazione di facciata, una spruzzatina di rosa visto che poi la vera squadra di lavoro è quasi interamente maschile. E poi non capisco come una donna capace, Emma Bonino, sia stata esclusa dalla nuova composizione. Sono una antica marxista perciò attendo di vedere se questo governo sarà in grado di assumere un punto di vista femminile, riuscendo a comprendere che la questione femminile non è un’opzione, è universale. So bene che non basta essere donna per avere uno sguardo di genere, e spero allora che gli uomini di questo esecutivo siano all’altezza del proprio compito. Se mi chiede però di analizzare il simbolico, allora dico che Renzi sta facendo archeologia culturale. E anche sentimentale.

Augurare le vertigini

PippiBelezzaRara (alias Valentina Stella) oggi si permette di volare altissima negli auguri per la piccola figlia:

Perché essere donna ha una profondità che dà le vertigini.

E te le auguro tutte, queste vertigini.
Ti auguro di amare il tuo essere donna senza mai cadere nei cliché dell’esserlo. Di saltellare di stereotipo in stereotipo avendo l’intelligenza di non rimanerne prigioniera. Di passare dai tacchi alle converse e dal rosa al blu con lo stesso sorriso con cui ora ti dichiari innamorata del “fuchias”.
Ti auguro di essere folle e libera come Pippi, coraggiosa come Merida (che tu chiami Meringa), simpatica come Peppa ma anche romantica come Cenerentola.
Ti auguro di amare come una donna sa amare, e di lottare come solo una donna sa lottare: con intelligenza, forza e passione.
Ti auguro di piangere senza mai aver paura di far vedere le tue lacrime, e spero che a piangere con te, di gioia, di allegria o di tristezza ci saranno amici che non avranno il timore di mostrarsi fragili.
Ti auguro di essere “sempre contro, finché ti lasciano la voce”.
Ti auguro di avere la parità, ma so che sarà una strada lunga e tortuosa, e allora ti auguro di avere l’energia e la voglia di lottare ancora. Per te e per le donne che vivono lontano da qua, e che non osano nemmeno sperare di avere gli stessi diritti di un uomo.
Ti auguro di vivere in un mondo in cui le donne non dovranno subire tutte le violenze che subiscono oggi, ma soprattutto ti auguro di abitare in una comunità in cui gli uomini non lasceranno le donne ballare da sole, e scenderanno anche loro in strada per dire stop agli abusi.
Ti auguro di amare le differenze, di esplorare ciò che sentirai più lontano da te, e di adorare il metterti nei panni degli altri.
Ti auguro di sentirti libera di essere qualsiasi cosa vorrai. E mi auguro di essere in grado di aiutarti a farlo.

Tanti auguri, piccola donna meravigliosa.

Un 8 marzo di cambiamento

Dedicare l’8 marzo Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola e Lea Garofalo, come propone il Quotidiano la Calabria e riprende Vera Lamonica oggi su L’Unità, è un pensiero di lotta e di cambiamento. Perché la Storia ci ha insegnato che pretendere la normalità di una vita da madre e moglie diventa insostenibile in un sistema criminale che prevede l’assoggettamento e l’umiliazione delle donne come metodo di controllo delle relazioni. Dedicare una giornata nazionale a loro significa che il Paese chiarisce di essere intollerante al welfare mafioso. Non è una rivoluzione, ma ricordarlo non fa male. (E sui balconi ricordatevi lo striscione per Rossella Urru. Chiedetelo ai vostri sindaci)