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Afghanistan, a che punto siamo?

La minaccia della fame, la sanità al collasso e l’oppressione dei talebani. «La situazione è disastrosa. Si sta preparando una tempesta perfetta», ha detto Ylva Johansonn, Commissaria europea agli Affari interni

C’è una partita in corso sull’Afghanistan e forse sarebbe il caso di parlarne prima che ci scoppi in faccia un’altra volta e ancora ci fingiamo stupiti come se non ce l’aspettassimo. Dall’inizio della crisi afgana sarebbero 22mila i cittadini evacuati in 24 Paesi Ue ad agosto del 2021 ma rimangono i 3 milioni di sfollati fino all’anno scorso e qualcosa come circa 700mila sfollati interni di cui tener conto.

L’Europa si sta muovendo su un doppio binario: un’accoglienza dei profughi afgani controllata che faccia riferimento solo alle persone più vulnerabili (con tutti i limiti che l’interpretazione del concetto di vulnerabilità ogni Stato compie molto a modo suo) e un aiuto ai profughi interni. «La situazione in Afghanistan è disastrosa. Si sta preparando una tempesta perfetta. Oltre il 90% degli afgani affronta la minaccia della fame, il sistema sanitario rischia il collasso. E così l’economia. Ci sono notizie preoccupanti di oppressione, coloro che hanno lavorato con noi e condividono i nostri valori hanno molto da perdere: interpreti e le loro famiglie sono vittime di minacce; operatori per i diritti umani vengono arrestati. Ed è peggio per le donne e le ragazze, che spesso hanno paura di andare a scuola o al lavoro: donne giornaliste e dipendenti pubblici licenziate, donne giudici braccate dagli uomini che hanno messo in prigione» ha dichiarato Ylva Johansonn, Commissaria europea agli Affari interni, durante il vertice del 7 ottobre, da lei presieduto insieme all’Alto Commissario Ue, Josep Borrell.

Come al solito però, oltre alle dichiarazioni di rito, sono pochi i Paesi che hanno dato una reale disponibilità ad accogliere gli afgani che verranno (e non parliamo di numeri spaventosi nonostante verranno sicuramente usati per fare spavento visto che Filippo Grandi dell’Unhcr ha parlato di circa 42.500 afghani nei prossimi 5 anni). In compenso ci sono 12 Stati (Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Slovacchia) che chiedono all’Europa di poter costruire muri e di farseli anche pagare. La Grecia l’ha già fatto con la Turchia e la Lituania si sta preparando a farlo per difendersi dalla pressione della Bielorussia.

Il miliardo promesso (l’Afghanistan non si regge in piedi economicamente senza soldi dai Paesi esteri e già ora si stanno fermando alcuni servizi essenziali come la sanità) dall’Europa serve soprattutto a “tenere fermi” i profughi e a evitare problemi di sicurezza. Come al solito insomma sembra che gli assegni servano soprattutto a subappaltare la gestione dei problemi senza un reale e strutturato processo di soluzione. Gli ultimi attentati interni tra l’altro spaventano non poco l’Europa.

In tutto questo l’assenza della Russia e della Cina evidenzia ancora di più la partita che si gioca sul piano internazionale: Putin e Xi Jinping hanno intenzione di percorrere una democrazia parallela a quella occidentale e non hanno avuto remore a invitare Pakistan, Iran e India, a una delegazione dell’Emirato di Kabul nel prossimo summit a Mosca. I Talebani quindi vengono di fatto riconosciuti e legittimati. Del resto per Mosca e Pechino i diritti umani sono da sempre una “questione interna” in cui non mettere bocca. Del resto Cina, Pakistan e Russia hanno tenuto le proprie ambasciate aperte a Kabul.

E come al solito sulla pelle dei disperati si gioca una guerra diplomatica in cui si vorrebbe imporre la propria visione del mondo. Intanto in Europa ci sono circa 290mila afgani a cui negli anni scorsi è stato rifiutato lo status di rifugiati politici che ora appare molto difficile riuscire a rifiutare di nuovo. E quel limbo è qualcosa che va risolto piuttosto in fretta.

L’Afghanistan è sparito dalle prime pagine dei giornali (del resto la notizia sta sempre nei morti e nei disperati mentre urlano ma poi non fanno più notizia mentre lentamente e silenziosamente si consumano) eppure è un tema su cui si decide molta credibilità dell’Europa. Vale la pena ricordarsene.

Buon giovedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Afghanistan: che fine hanno fatto i bambini?

L’Unicef ha registrato 300 bambini afgani evacuati dal Paese, non accompagnati e separati dalle proprie famiglie. Ma è un numero destinato a crescere. E in Afghanistan sono 10 milioni i piccoli che hanno bisogno di assistenza umanitaria

Le scene dell’aeroporto di Kabul hanno fatto il giro del mondo. I bambini passati di mano in mano, con i genitori che accettavano lo strappo pur di salvarli. Di bambini poi si sono riempiti la bocca tutti, perfino i più sovranisti dei più destrorsi sovranisti, quelli che ci dicevano che bisognasse “salvare i bambini” e noi ci siamo permessi fin dall’inizio di fare notare che dividere le famiglie fosse davvero un modo discordante con la sacralità della “famiglia tradizionale” che proprio loro continuano a cavalcare.

Ma che fine hanno fatto i bambini? L’Unicef e i suoi partner hanno registrato circa 300 bambini non accompagnati e separati evacuati dall’Afghanistan. Ma sono numeri assolutamente precari, destinati a crescere mentre proprio in questi giorni sono in corso le identificazioni. Parliamo di circa 300 bambini che non hanno accanto a loro nessun legame famigliare, vulnerabili e scossi. Per questo Unicef ieri ha raccomandato che «durante i processi di tracciamento e ricongiungimento, i bambini dovrebbero ricevere un’accoglienza alternativa sicura e temporanea, preferibilmente con parenti o in un contesto familiare. La collocazione all’interno di centri di accoglienza dovrebbe essere l’ultima risorsa, e solo temporanea».

Dice Henrietta Fore, direttrice generale del’Unicef: «I governi dei Paesi in cui si trovano i membri della famiglia di bambini separati e non accompagnati dovrebbero cooperare e facilitare il ricongiungimento e percorsi migratori sicuri e legali per questi bambini, se ciò è nel superiore interesse del bambino. La definizione di membri della famiglia dovrebbe essere abbastanza ampia affinché i bambini non accompagnati possano essere affidati in sicurezza a parenti che si prendano cura di loro. Allo stesso modo, i bambini che viaggiano con adulti di fiducia dovrebbero rimanere con loro se ciò è nel loro superiore interesse. Separare i bambini da adulti che conoscono e dai quali ricevono cure potrebbe causare ulteriori problemi. Tutti i bambini hanno il diritto di stare con le loro famiglie. Le parti coinvolte nell’evacuazione e nell’accoglienza delle persone che fuggono dall’Afghanistan dovrebbero compiere ogni sforzo per evitare la separazione delle famiglie in primo luogo. Questo significa assicurare un adeguato coordinamento tra gli attori civili e militari, stabilire una registrazione di base dei bambini e delle famiglie, e verificare le liste di volo».

La solidarietà non si decanta, la solidarietà si attua mettendo in campo tutti gli strumenti a disposizione. Ora, passati i giorni convulsi dell’assalto all’aeroporto per la fuga, è il tempo di stabilire le priorità e di trovare le soluzioni. Quei bambini (così come tutti gli afgani) non durano il tempo utile per essere filmati in qualche servizio di un telegiornale ma esistono anche (e soprattutto) dopo, mentre soggiornano in centri di accoglienza senza avere la bussola per immaginare una ricostruzione affettiva. Non è un questione di bontà, è quello che si deve fare. A proposito: in Afghanistan più di 550mila persone sono state sfollate a causa del conflitto e 10 milioni (10.000.000) dei bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria. Il dolorosissimo disastro è qui, ora, sotto i nostri occhi.

Buon mercoledì.

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Ma chi abbiamo salvato in Afghanistan?

Chi abbiamo salvato in Afghanistan? Non è una domanda da poco, le democrazie si misurano dalla capacità di progettare e istituire sistemi che rispondano in modo sistematico ai bisogni. Le buone democrazie, quelle con un impianto valoriale e legislativo solido, non hanno per forza bisogno di “brave persone” per funzionare poiché sono talmente robuste da garantire una veloce individuazione dei bisogni e una pronta e costante risposta.

Dopo 20 anni imbottire 87 aerei in 15 giorni può considerarsi un successo?

Chi abbiamo salvato in Afghanistan? Il ministero della Difesa guidato da Lorenzo Guerini snocciola i numeri dopo l’ultimo decollo di ieri alle 18.35 dell’ultimo C-130J in direzione Fiumicino: con 87 voli sono state evacuate 5.011 persone di cui 4.890 cittadini afghani di cui 1.301 donne e 1.453 bambini. Guerini parla di «un’operazione molto delicata e complessa sin dalle fasi iniziali», di «un numero di persone ben oltre superiore a quello previsto inizialmente» e ringrazia «l’operato dei nostri militari, silenzioso e costante». Un ponte aereo in piena emergenza non è roba da poco: richiede professionalità, lucidità, mezzi e organizzazione. Però, chi abbiamo salvato in Afghanistan? Perché stiamo parlando di una vera e propria occupazione militare che è durata 20 anni, di un dispendiosissimo impegno in termini economici e di tempo: in 20 anni imbottire 87 aerei negli ultimi 15 giorni è un successo? Posta così la domanda fa tutt’altro effetto, vero?

chi ha salvato l'occidente in afghanistan
Cittadini afghani imbarcati in un aereo militare Usa (Getty Images).

L’11 settembre si è ripetuto, 20 anni dopo

E qui forse conviene fare il primo slancio per uscire dalla narrazione edulcorata e compita di queste ultime due settimane, dove a molti fa comodo lasciare intendere che qualcosa si sia abbattuto sull’Afghanistan e poi l’Occidente sia intervenuto con prontezza per salvare il salvabile quando invece tutto quello che non è stato salvato è sua responsabilità: sono 38,04 milioni gli abitanti in Afghanistan censiti nel 2019. Lo stato di salute dell’Occidente si misura anche nell’onestà intellettuale che si usa per raccontare le proporzioni: in un Paese in cui «in questo momento metà della popolazione rischia di morire di fame e di sete e di non avere un tetto sopra la testa» (parole di Carlotta Sami, portavoce di Unhcr) qualche migliaio di persone sono state salvate dall’Occidente travestito da salvatore (immaginate un salvatore che salva la sua stessa vittima dopo averci convissuto 20 anni, ma ne salva solo la falange di un dito) sono un risposta immorale, gravemente minuscola e che non si può regalare a una narrazione fiabesca. Non possiamo concederlo, non dobbiamo concederlo. L’11 settembre 2001 si è ripetuto 20 anni dopo, le stesse bombe, gli stessi corpi che stramazzano dal cielo, e 20 anni non si incipriano con le foto opportunistiche delle ultime ore. Mi spiace, no. Davvero, no.

la fine delle evacuazioni e il fallimento in afghanistan
Militari britannici e Usa impegnati nelle operazioni di evacuazione (Getty Images).

Ecco chi è finito nelle Schilnder’s List dei Paesi occidentali

Ma chi abbiamo salvato in Afghanistan? Abbiamo salvato le persone che hanno avuto la sorte di finire sulle Schindler’s List dei Paesi occidentali per avere collaborato con loro, per avere brigato con pezzi delle loro diplomazie. Abbiamo salvato quelli che hanno avuto il “merito” di esserci amici. Sia chiaro: è un metodo proficuo per individuare una priorità in caso di emergenza. Ma quelli che non sono entrati nelle liste? Quelli che rischiano e moriranno senza avere avuto la fortuna di entrare nei radar di qualche Paese straniero? «Dobbiamo salvare chi ha lottato con noi», ha detto il generale Petraeus che ha guidato il contingente Usa in Afghanistan, con la solita trappola del guardare gli altri solo in riferimento a noi stessi. Abbiamo salvato gli amici e gli amici degli amici. Quindi abbiamo dato la priorità alle disperazioni più appuntite? No. Le famiglie allo stremo fuori dai riflettori di Kabul, periferiche per luogo e per condizione, non abbiamo avuto il tempo nemmeno di sentirle. Compilare una lista di salvabili significa prendersi l’enorme responsabilità di escludere gli altri. Ci abbiamo pensato? Ci penseremo? Viene da scommetterci che no, che quelli saranno gli avanzi di una festa che ha già svolto il suo ruolo per fomentare un po’ di superficiale perdono e anche quelli finiranno con i piedi congelati nel prossimo inverno a percorrere la rotta balcanica cozzando contro i bastoni e i fili spinati.

L’Occidente si illude di aver salvato almeno la faccia

Chi abbiamo salvato in Afghanistan? Abbiamo salvato i bambini, dicono, perfino i bambini che sono passati sopra le teste della mandria accalcata ai cancelli dell’aeroporto non prima di una foto da spedire in giro. Gli abbiamo detto «siete troppo dolci e carini per lasciarvi sbudellare dalle bombe nel canale di scolo dell’aeroporto e quindi vi portiamo da noi». Dei loro genitori invece niente: «I bambini hanno bisogno di un papà e di una mamma», si sente ripetere da anni ma se il papà è afghano allora niente, la regola non vale e siamo a posto così. Chi abbiamo salvato in Afghanistan? Abbiamo salvato la faccia. Almeno così credono quelli per cui la politica è l’ingegneristica produzione di una sensazione che duri almeno fino alle prossime elezioni. Negli ultimi 10 anni nei Paesi dell’Unione europea sono arrivate circa 697 mila richieste di protezione da parte di afghani: lo sentite lo scricchiolio dei numeri di questi giorni di fronte alla realtà più ampia e rispettata nella sua complessità?

fallimento dell'occidente e evacuazione dall'afghanistan
Operazioni a un checkpoint al confine tra Afghanistan e Pakistan (Getty Images).

Chi abbiamo salvato in Afghanistan? Siamo alle solite: l’Occidente che si era prefissato lo scopo di essere la patria del diritto dove i bisognosi potevano godere del diritto di essere accolti si è sfaldato. Basterebbe avere l’onestà di dirselo. Nell’Occidente si entra per amicizia, per merito, per utilità o perché si è finiti in una lista. E pensare che l’Occidente farebbe l’Occidente ogni volta che qualcuno arriva sulla battigia, nudo, apre le braccia e dice: «Non so niente, non ho niente, non sono capace di fare niente, sono niente» e nessuno gli chiede nient’altro che della sua disperazione. Pensate come suona un’utopia oggi il pensiero fondante di una parte di mondo. Buona fortuna agli afghani e buona fortuna a noi. Presto avremo 240 milioni di migranti di cui un 20 per cento per motivazioni “politiche” e tutto il resto per desertificazione e inondazioni. Chi abbiamo salvato in Afghanistan? Per l’ennesima volta ci illudiamo di esserci salvati. Poveri noi.

L’articolo Ma chi abbiamo salvato in Afghanistan? proviene da Tag43.it.

Oggi piangete per l’Afghanistan ma chi fugge da Kabul non è così diverso da chi volete rimandare a casa

Saranno stati quegli uomini caduti come uccelli senza ali dalla carlinga di un aereo militare degli Stati Uniti in decollo, sarà stata la foto della pancia di quello stesso velivolo in cui si sono strette 640 persone disperate e in fuga come animali sull’Arca o sarà che la paura gocciola dalle voci e dalle immagini ma la caduta dell’Afghanistan in mano ai talebani ha riportato la guerra sugli schermi con una potenza impressionante, riattivando (per fortuna) uno scricchiolante senso di compassione collettivo.

Troppo vero quello scappare disperato per non smuovere un senso di cura che difficilmente avviene per le guerre degli altri, isolati come siamo in un sovranismo delle responsabilità che ci invita quotidianamente ad occuparci dei ristretti cortili personali e delle cose nostre. Così per naturale empatia (sempre dileggiata in questi anni) sono ore in cui è terribilmente trendy affannarsi per mostrarsi preoccupati.

Il rischio però è sempre lo stesso: che la sofferenza diventi combustibile per la narrazione finché tira e che la complessità del mondo rimanga schiacciata in una vicenda totalizzante nei media. Le telecamere sono puntate sui fuggitivi afghani eppure nel Mediterraneo due navi bollono in mezzo al mare con disperati ripescati tra le onde in attesa di un porto assegnato dal governo italiano; in Libia, nel Sahel, nel Tigray etiope la gente fugge per non finire ammazzata; c’è la guerra de Kashmir, il conflitto interno in Birmania, la storica guerra nella Striscia di Gaza, si spara in Siria, si muore in Somalia e in Donbass, in Yemen, nelle Filippine. Il mondo è peggiore di come lo immaginiamo.

L’ultimo rapporto dell’Agenzia ONU per i Rifugiati parla chiaro: «Nonostante la pandemia, nel 2020 il numero di persone in fuga da guerre, violenze, persecuzioni e violazioni dei diritti umani è salito a quasi 82,4 milioni». Si tratta di un aumento del 4 per cento rispetto alla cifra record di 79,5 milioni di persone in fuga toccata alla fine del 2019. Oggi, l1 per cento della popolazione mondiale è in fuga e ci sono il doppio delle persone costrette ad abbandonare le proprie case rispetto al 2011, quando il totale era poco meno di 40 milioni.

E i dolori nonostante parlino lingue diverse e provengano da diverse latitudini sono gli stessi. Sono uguali le cicatrici, sono ugualmente cupe le paure: le persone che fuggono suonano tutte la stessa nota lacerante. E sono quelli a cui noi chiudiamo in faccia le porte, sono quelli che in Europa finiscono nelle discariche umane a cui abbiamo appaltato i confini (come la Turchia e come la Libia). Sono quelli a cui non facciamo caso o che addirittura sentiamo come respingenti. Lo sappiamo vero? Perché prima o poi la narrazione cesserà ma le guerre no.

L’articolo proviene da TPI.it qui

La marcia dei Mille, disperati

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di migranti che seguono la “rotta balcanica”. A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro

Qualcuno di molto furbo e poco umano deve avere capito da tempo, dalle parti del cuore del potere d’Europa, che il primo trucco per sfumare l’emergenza umanitaria legata ai flussi migratori sia quello di fare sparire i migranti. Per carità, non è mica una criminale eliminazione fisica diretta, come invece avviene impunemente in Libia con il silenzio criminale proprio dell’Europa, ma se i corpi non sbarcano sulle coste, non si fanno fotografare troppo, non si mischiano ad altri abitanti, non rimangono sotto i riflettori allora il problema si annacqua, interessa solo agli “specializzati del settore” (come se esistesse una specializzazione in dignità dell’uomo) e l’argomento, statene sicuri, rimane relegato nelle pagine minori, nelle discussioni minori, sfugge al chiassoso dibattito pubblico.

In fondo è il problema dei naufragi in mare, di quelle gran rompiballe delle Ong che insistono a buttare navi nel Mediterraneo per salvare e per essere testimoni, che regolarmente ci aggiornano sui resti che galleggiano sull’acqua o sulle prevaricazioni della Guardia costiera libica o sui mancati soccorsi delle autorità italiane.

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di persone, migranti che seguono la cosiddetta “rotta balcanica”, che si surgelano sotto il freddo tagliente di quei posti e di questa stagione, che appaiono nelle (poche) immagini che arrivano dalla stampa in fila emaciate con lo stesso respiro di un campo di concentramento in un’epoca che dice di avere cancellato quell’orrore.

Lo scorso 23 dicembre un incendio ha devastato il campo profughi di Lipa, un inferno a cielo aperto che proprio quel giorno doveva essere evacuato, e le persone del campo (nella maggior parte giovani di 23, 25 anni, qualche minorenne, provenienti dall’Afghanistan, dal Pakistan o dal Bangladesh) sono rimaste lì intorno, tra i resti carbonizzati dell’inferno che era, in tende di fortuna, dentro qualche casa abbandonata e sgarruppata, abbandonati a se stessi e in fila sotto il gelo per accaparrarsi il cibo donato dai volontari che anche loro per l’ingente neve in questi giorni faticano ad arrivare.

A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare, indovinate un po’, viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro. Gli orrori, raccontano i cronisti sul posto, avvengono alla luce del sole perché funzionino da monito a quelli che si mettono in testa la folle idea di provare a salvarsi. E le violenze, badate bene, avvengono in suolo europeo, di quell’Europa che professa valori che da anni non riesce minimamente a vigilare, di quell’Europa che non ha proprio voglia di spingere gli occhi fino ai suoi confini, dove un’umanità sfilacciata e disperata si ammassa come una crosta disperante.

«L’Ue non può restare indifferente – dice Pietro Bartolo, il medico che per trent’anni ha soccorso i naufraghi di Lampedusa e oggi è eurodeputato -. Questa colpa resterà nella storia, come queste immagini di corpi congelati. Che fine hanno fatto i soldi che abbiamo dato a questi Paesi perché s’occupassero dei migranti? Ai Balcani c’è il confine europeo della disumanità. Ci sono violenze inconcepibili, la Croazia, l’Italia e la Slovenia non si comportano da Paesi europei: negare le domande d’asilo va contro ogni convenzione interazionale, questa è la vittoria di fascisti e populisti balcanici con la complicità di molti governi».

È sempre il solito imbuto, è sempre il solito orrore. Subappaltare l’orrore (le chiamano “riammissioni” ma sono semplicemente un lasciare rotolare le persone fuori dai confini europei) facendo fare agli altri il lavoro sporco. Ma i marginali hanno il grande pregio di stare lontano dal cuore delle notizie e dei poteri. E molti sperano che il freddo geli anche la dignità, la curiosità e l’indignazione.

Buon mercoledì.

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Dimenticare Assange

Nel processo al fondatore di WikiLeaks si discute anche del ruolo, della libertà e dei doveri dell’informazione. E del diritto della stampa di presidiare le azioni dei governi. Ma se ne parla pochissimo

In fondo è una delle nostre più discutibili e disturbanti debolezze, un atteggiamento che ci trasciniamo da anni e che applichiamo anche alle questione dei diritti come se i diritti potessero seguire le mode, essere qualcosa da stampare su una maglietta e poi dimenticarsene senza che la situazione si sia risolta. Julian Assange, discusso fondatore di WikiLeaks, è sotto processo a Londra, si decide se estradarlo o no negli Usa che gli hanno già promesso una condanna che potrebbe arrivare a 175 anni di carcere e quel processo, che è un processo che discute anche del ruolo, delle libertà e dei doveri dell’informazione è finito per essere raccontato solo da qualche tweet o da qualche ostinato osservatore che insiste nell’informarci.

In questo processo che non sta raccontando quasi nessuno intanto è emerso che non ci fu nessun furto di password di enti governativi americani ma il soldato Chelsea Manning, che aveva accesso a quei documenti, aveva già scaricato tutto il materiale. Non è una cosa da poco: c’è in discussione il ruolo delle fonti, il ruolo del giornalismo investigativo, c’è in gioco il diritto della stampa di presidiare le azioni dei governi. C’è in gioco moltissimo.

Era quello che aveva pensato il governo Obama nel 2013 quando si rese conto che criminalizzare Assange significava in fondo mettere sotto accusa il giornalismo investigativo. Ed è la strada opposta rispetto a quella che ha inforcato Trump quando nel 2018 lo ha accusato di crimine informatico e altri 17 capi di accusa nel maggio del 2019.

Sia chiaro: Assange ha dimostrato prove di crimini di guerra statunitensi in Iraq e Afghanistan, violazioni di diritti che tutto il mondo ha il diritto e il dovere di conoscere. E poi c’è un altro punto sostanziale: se Assange è colpevole quindi sono colpevoli anche tutti i giornali (NY Times incluso) che hanno pubblicato le sue scoperte, no? Come ci si comporta? Perché la sensazione dieci anni dopo è sempre la stessa: che il governo malsopporti di avere curiosi troppo curiosi che rovistano dove non dovrebbero rovistare. Accade sempre così, con tutti i governi ed è proprio l’atteggiamento che certo giornalismo combatte.

Eppure di Assange si parla poco, pochissimo. Quella che prima era una figura iconica oggi è diventata una notizia laterale. Perché noi siamo fatti così: ci innamoriamo di simboli e poi non ci prendiamo nemmeno la briga di controllare almeno che non vengano buttati via e che non vengano calpestati. Qui una volta era tutto foto e magliette di Assange e ora sembra che il suo processo non ci interessi più. Così si logorano i diritti, così si consumano le persone. Accade così.

Buon lunedì.

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Le macerie della pandemia nel mondo sono i bambini

Scusate se mi permetto di non seguire la polemica di qualche presidentessa di regione che cerca di lucrare su qualche decina di migranti, mi pare davvero troppo spendere qualche riga per una regione con un sistema sanitario completamente devastato dalla politica che si preoccupa di degli arrivi via mare mentre invoca a piene mani e senza controlli quelli via terra, ma ieri è uscito un rapporto di Save The Children che merita attenzione perché parla di un argomento che sfugge da qualsiasi discussione dei cosiddetti grandi del mondo e che rende perfettamente l’impatto della pandemia nel futuro un po’ più largo della visione del nostro semplice quartiere.

Dice il rapporto ‘Save our education – Salvate la nostra educazione’ che a oggi nel mondo sono 1,2 miliardi gli studenti colpiti dalla chiusura delle scuole e che la crisi provocata dal Covid-19 potrebbe costringere almeno 9,7 milioni di bambini a lasciare la scuola per sempre entro la fine di quest’anno, mentre milioni di altri bambini avranno gravi ritardi nell’apprendimento.

L’indice prende in considerazione in particolare tre parametri: il tasso di abbandono scolastico precedente all’emergenza, le diseguaglianze di genere e di reddito tra i bambini che lasciavano la scuola e il numero di anni di frequenza scolastica. L’analisi di questo indice mette in evidenza come in 12 paesi – Niger, Mali, Ciad, Liberia, Afghanistan, Guinea, Mauritania, Yemen, Nigeria, Pakistan, Senegal e Costa d’Avorio – il rischio di incremento di abbandono scolastico sia estremamente elevato. Anche in questo caso sono le donne quelle che rischiano di subire di più: sono 9 milioni le bambine in età di scuola primaria che rischiano di non mettere mai piede in una classe, a fronte di 3 milioni di bambini.

Ha detto Inger Ashing, ceo di Save the Children: «Circa 10 milioni di bambini potrebbero non tornare mai a scuola: si tratta di un’emergenza educativa senza precedenti. Proprio per questo i governi devono investire urgentemente nell’apprendimento, mentre al contrario siamo a rischio di impareggiabili tagli di bilancio, che vedranno esplodere le disparità esistenti tra ricchi e poveri e tra ragazzi e ragazze. Sappiamo che i bambini più poveri ed emarginati che erano già i più a rischio hanno il danno maggiore, senza accesso all’apprendimento a distanza o qualsiasi altro tipo di istruzione, per metà dell’anno accademico».

È qualcosa di spaventosamente mostruoso, una di quelle situazione di cui non ci occupiamo perché ci appare così grande rispetto ai nostri piccoli problemi locali e che poi invece torna qui, sulle nostre coste. No?

Buon martedì.

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Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)