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La classe dirigente sommersa

Insegnanti, bidelli, autisti dei mezzi pubblici. La pandemia ha evidenziato l’importanza del ruolo pubblico di questi ed altri lavoratori. E la loro responsabilità nel dettare la crescita sociale del Paese che verrà

Primo giorno di scuola in buona parte d’Italia. Fioccano i commenti, le interviste a volte un po’ leziose a genitori e ai ragazzi, si moltiplicano i racconti e accade che moltissime scuole in Italia, ancora una volta, si siano arrangiate e abbiano fatto i salti mortali per applicare regole incerte (e piuttosto contestabili) e protocolli che spesso rimangono lettera morta perché si scontrano con una realtà che è spesso molto diversa da quella discussa in certi ambienti ministeriali.

Però è stato il primo giorno di scuola e ieri, nell’aria, si respirava la speranza che la scuola riparta davvero, che un po’ di normalità possano godersela anche i nostri figli, quei giovani che per mesi sono scomparsi dal radar dell’informazione per tornarci solo qualche settimana nella veste degli untori.

Però il primo giorno di scuola ci racconta ancora una volta qualcosa che sembra difficile raccontare: gli insegnanti, gli operatori della scuola, chi si occupa degli spostamenti dei nostri ragazzi, chi si occupa della loro sicurezza (mica solo in tempi di pandemia) e chi si occupa della loro istruzione e della loro formazione culturale (non solo in tempo di pandemia) sono classe dirigente di questo Paese, nel seno pieno del termine, sono quelli che hanno la responsabilità di dettare la crescita sociale (e politica e economica) del Paese che verrà. E ieri, complice il coronavirus, ci si è accorti che un pezzo importante delle famiglie sta negli istituti scolastici, quei palazzotti spesso decadenti a cui si fa sempre troppo poco caso.

Ricordo quando uno dei miei figli andò al suo primo giorno di scuola, lo ricordo perfettamente. Ricordo l’arrivo all’istituto, era il periodo delle minacce, della paura e della scorta e ricordo quei minuti all’ingresso mentre lo tenevo per mano, Ricordo perfettamente che un collaboratore scolastico venne fuori, da me e lui e i carabinieri e prese per mano mio figlio per portare all’interno dell’istituto e mi ricordo di avere pensato che quell’uomo in quel momento era il più importante rappresentante dello Stato che interveniva nella mia vita, una responsabilità enorme. E avrei voluto dirglielo.

Il punto è questo e non vale solo per la scuola: ci ritroviamo nelle nostre funzioni e nelle nostre professioni a avere responsabilità da classe dirigente e non ce ne rendiamo conto, abbiamo un importante ruolo pubblico, ognuno nel suo mestiere e se ce ne assumessimo l’orgoglio e le responsabilità questo sarebbe un Paese sicuramente più solidale e più unito. E la smetteremmo di delegare, e vedremmo anche quanta orgogliosa responsabilità c’è intorno. Nonostante certa classe dirigente.

Buon martedì.

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Il linguaggio di certi giornali sul caso di Caivano rivela l’arretratezza italiana sull’omotransfobia

I fratelli proteggono le sorelle. E, badate bene, i fratelli non proteggono le sorelle dalle azioni con cui loro non concordano, i fratelli difendono le sorelle dai pericoli e amare non è un pericolo. Anche se Maria Paola Gaglione amava un uomo che, essendo trans, risultava inconcepibile all’ignoranza e alla sopraffazione che diventa spirito di proprietà, dove la sorella diventa un bene provato che viene concesso solo grazie alla disponibilità della famiglia.

Che il fratello di Maria Paola Gaglione, quello stesso che ha dato vita a un inseguimento finito così tragicamente, ora ci dica, con l’appoggio di anche tutta la sua famiglia, che volesse solo dare una lezione a quella sorella che si era infettata per colpa di quell’amore fuori dai miopi canoni dell’amore è già grave ed è già il senso della violenza e dell’ignoranza che questo Paese continua a sventolare come tradizione e che invece è e continua a essere un’incapacità di leggere il presente.

E che il parroco dica ai giornali che la famiglia di Maria Paola era “solo preoccupata” racconta ancora una volta, per l’ennesima volta, che l’omofobia in questo Paese è qualcosa che ha bisogno urgentemente di una legge, certo, ma anche di una cultura che sia capace di vedere quello che accade qui intorno, qui fuori. E qui c’è anche tutto lo schifo che certa stampa ieri ha vomitato per tutto il giorno: “due ragazze lesbiche”, Ciro che è diventato “Cira”, in molti si sono dimenticati di raccontare le minacce e le botte subite dal ragazzo perché trans (il fratello di Maria Paola ha infierito su di lui mentre era ferito per terra e mentre la sorella moriva) e la differenza tra identità di genere e orientamento sessuale che sembra essere tornata al secolo scorso.

Un linguaggio rivoltante che ha reso questa storia ancora più indecente e non parliamo solo di giornali locali ma addirittura di telegiornali nazionali (di Stato) in prima serata. Da Il Mattino al Tg1, passando per Repubblica e altri. E basta parlare di ignoranza: la stampa non può permettersi di essere ignorante quando racconta la contemporaneità e ha l’obbligo di perseguire un’ecologia lessicale e sentimentale che già è troppo deturpata da troppa politica.

Perché ogni volta non si perde l’occasione di fare schifo? Perché ogni volta si tende a normalizzare seguendo semplificazioni che sono un’ossessione contro una comunità che non riesce nemmeno ad avere il diritto di essere descritta? Si dice che le parole siano importanti e creino le azioni: in questa storia ci sono un mucchio di parole sbagliate.

Leggi anche: 1. Investe e uccide la sorella perché aveva una relazione con un ragazzo trans: 22enne uccisa nel Napoletano/ 2. Maria Paola Gagliano, il messaggio del compagno Ciro: “Amore mio non posso accettarlo, ti amerò per sempre” / 3. Legge contro l’omotransfobia: cosa prevede e perché fa discutere

L’articolo proviene da TPI.it qui

Scambiare un omicidio per una rissa

Pregiudizi razzisti e agiografia dei violenti: nel raccontare l’uccisione di Willy Monteiro Duarte una parte del giornalismo italiano ha dato di nuovo il peggio di sé

Insuperabile il Corriere della Sera che descrivendo uno degli arrestati per la morte di Willy Monteiro Duarte scrive: «Ma Gabriele Bianchi, uno dei quattro fermati (insieme al fratello Marco e altri due) per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro, nei mesi di lockdown si era posto anche un problema più concreto: come tirare avanti, mettere insieme pranzo e cena. Da giovanotto sveglio e concreto lo sapeva: non potevano essere gli sport da combattimento a dargli una sicurezza economica. Così s’era inventato una vita meno bellicosa, quella del fruttivendolo».

Giovanotto sveglio e concreto: l’agiografia dei violenti ultimamente va per la maggiore e ogni dettaglio utile per sminuire l’accaduto sembra ricercatissimo da certi giornalismi per farci un bell’articolo. Eppure si sta parlando di pregiudicati, conosciuti da tutti come violenti, simpatizzanti dell’estrema destra e che si dedicavano volentieri alle risse. Questo piccolo dettaglio viene omesso.

Del resto i fatti raccontano che Willy Monteiro Duarte sia stato ammazzato di calci e di pugni, ovviamente in molti contro uno, come si conviene ai vigliacchi e sia rimasto lì, morto per terra. “Rissa”, scrivono certi giornali: come se fosse una “rissa” massacrare di botte un ragazzetto che pesa la metà di te insieme ai tuoi amici e contro cui usi le tue tecniche di combattimento imparate per diventare ancora più efficace nella tua violenza.

Poi c’è il racconto che ci dice che Willy Monteiro Duarte e la sua famiglia fossero “ben integrati”. Di grazia, qualcuno vorrebbe dirci che informazione è? Se non fossero stati “bene integrati” sarebbe stato più immaginabile un omicidio del genere?

Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti, e aveva proprio ragione.

Infine c’è la narrazione di chi vorrebbe farci credere che Willy si sia trovato “nel posto sbagliato nel momento sbagliato”. Anche questo è un falso: Willy ha ritenuto opportuno difendere un amico dalla foga e dalla violenza di questi picchiatori professionisti. Willy ha deciso di essere altruista e solidale in un territorio in cui evidentemente è un lusso che non ci si può permettere. Willy ha incocciato uno di quei quartieri presidiati dalla violenza di qualche gruppetto di pestatori professionisti che vorrebbero comandare il territorio. Willy ha fatto la cosa giusta. Siamo noi che gli abbiamo fatto trovare il Paese sbagliato.

Buon martedì.

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Chi difende Willy? Se a uccidere un bianco fossero stati 4 neri sarebbe scoppiato il finimondo

Eppure ci sono dentro tutti gli elementi della propaganda salviniana: c’è una zona che, a detta degli stessi abitanti che la abitano, è completamente sfuggita al controllo delle forze dell’ordine, una zona di quartiere e spaccio, una zona dove spesso accadono atti di violenza. Una zona franca, direbbe Matteo Salvini, che è sempre pronto a prendere parola quando accadono cose di questo tipo. Ci sono persone dedite allo spaccio, alla violenza, che fieramente si mostrano in tutta la loro prepotenza sui loro canali social. I due fratelli Marco e Gabriele Bianchi vengono raccontati come ragazzi che sfociavano spesso nell’uso delle mani, forti della loro preparazione sportiva e di un pensiero in cui la forza diventa una virtù da esibire con cura.

Cè tutta la vigliaccheria di chi se la prende con un ragazzo di 21 anni, Willy Monteiro Duarte, che ha avuto la sfortunata idea di provare a difendere un amico, la sua colpa sarebbe tutta qui, ha avuto l’ardire di sedare una rissa che invece era un fiume di violenza inarrestabile e che si sarebbe sfamato solo con la morte. L’hanno ucciso a calci e pugni, a mani nude, come un in brutto video di quelli che circolano in rete. E Willy era un ragazzo come tanti, con il sogno di giocare nella Roma di cui era tifosissimo e con la passione della cucina. Giovani, italiani, spacciatori, picchiatori, pregiudicati. Sono il prototipo dei nemici di Matteo Salvini, solo che quelli contro cui sbraita Salvini ogni volta devono essere neri e invece questi, per sua sfortuna, sono bianchi.

Ora immaginate questa notizia invertita: immaginate gli editoriali, immaginate i politici sbraitare, immaginate l’emergenza sicurezza scritta su qualche prima pagina, immaginate le pelose descrizioni di quello che rischiamo, immaginate il leader leghista accusare il governo, le istituzioni, magari organizzare una bella fiaccolata. E invece sulla tragedia di Willy non si dice niente, non esce niente. Il caso di Colleferro contiene tutti gli ingredienti per raccontare che la violenza non ha un’etnia, non ha un colore e non ha una fede religiosa e notare la differenza di trattamento che questa notizia ha rispetto alle altre simili è una cosa che fa rivoltare lo stomaco. Invocano sicurezza tutti i giorni, ma hanno bisogno che i protagonisti corrispondano ai loro pregiudizi. Altrimenti non se ne fa niente, questa morte non è usabile, è da scartare, da cacciare via.

Leggi anche: 1. “Vi prego basta, non respiro più”: la testimonianza di una donna che ha visto morire Willy / 2. “Sognava di diventare come Totti”: chi era Willy, il 21enne ucciso dal branco a Colleferro / 3. Dal culto per le arti marziali ai precedenti per spaccio: chi sono gli aggressori di Willy Monteiro

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Non c’è un giudice a Strasburgo?

Tocca parlare ancora di Turchia, perché i diritti sono sempre quelli degli altri e perché la finta contrizione per la morte di Ebru Timtik sembra non avere insegnato nulla, niente.

L’avvocato Aytaç Ünsal, collega di Ebru Timtik e anche lui al suo 214° giorno di sciopero della fame, anche lui condannato per terrorismo e ovviamente sottoposto a un processo farsa, ha rischiato di fare la stessa fine della sua collega e di altri che in questi mesi stanno protestando contro il governo di Erdogan e che sono accusati in modo strumentale per essere messo fuori gioco.

Nelle scorse ore, fortunatamente, la Corte di Cassazione di Ankara ha deciso la sua immediata scarcerazione per motivi di salute. I giudici hanno stabilito che l’avvocato 32enne debba essere “immediatamente liberato” a causa del “pericolo che rappresenta per la sua vita la permanenza in prigione”. Nei giorni scorsi, i sanitari avevano lanciato l’allarme sul deterioramento delle sue condizioni di salute.

Ma solamente due giorni fa, il 2 settembre, la Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) aveva bocciato il ricorso per la scarcerazione di Ünsal confermando la decisione della Corte costituzionale turca dello scorso 14 agosto. E già questo dovrebbe porre delle domande poiché giuristi di tutta Europa stavano sottolineando l’iniquità della giustizia turca nei confronti degli avvocati. Giusto per capire a che punto siamo arrivati basti pensare che il ministro dell’Interno, Süleyman Soylu, ha definito una «terrorista» l’avvocata morta, e ha denunciato l’ordine degli avvocati di Istanbul per averla commemorata. In Turchia sono vietate anche le lacrime.

Ma non è tutto, no: il presidente della Cedu, Robert Spano, è in questi giorni in Turchia per ricevere una Laurea Honoris Causa in Giurisprudenza a Istanbul e poi tenere, ad Ankara, una Lectio Magistralis presso l’Accademia di Giustizia turca. L’Università statale di Istanbul è stata al centro di una massiccia epurazione dopo il fallito “colpo di Stato” del 2016: furono licenziati 192 accademici. Quell’università è il simbolo dell’opera di pulizia da parte di Erdogan e che un giudice super partes decida di esserne ospite accende più di qualche dubbio.

Lo scrittore Mehmet Altan ha scritto a Spano: «Non so come si possa essere fieri di essere membri onorari di una università che condanna alla disoccupazione, alla povertà e al carcere centinaia di docenti solo per il loro pensiero e i loro scritti». Altan è un accademico di fama mondiale ed era stato espulso da quella università per le sue idee e fu tra i primi intellettuali arrestati nella repressione post-golpe. L’accusa, tanto per chiarire di cosa stiamo parlando, sarebbe quella di avere mandato “messaggi subliminali” durante un programma televisivo. Altan è stato poi prosciolto ma non è mai stato reintegrato all’università, marchiato come traditore.

In tutta la Turchia pendono qualcosa come 60mila richieste di reintegro da parte di lavoratori che hanno perso il proprio lavoro per le loro idee politiche. E sapete chi vaglierà quelle richieste? Robert Spano, quello che in questi giorni è in gita d’onore proprio in Turchia.

E questo per oggi è tutto.

Buon venerdì.

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Nascere e morire. A Verona

Secondo la Commissione che indaga sulle infezioni da Citrobacter «sono stati identificati 91 soggetti positivi» e i primi casi risalgono al 2017. Ma la struttura sanitaria non avrebbe mai comunicato nulla

«Il tempo per piangere c’è stato, ora è il tempo della giustizia. Chi ha sbagliato deve pagare. Alice poteva essere qui con me, che almeno la morte di mia figlia serva a qualcosa», sono le parole di Elisa Bettini, mamma di Alice, una dei neonati morti a Verona a causa del Citrobacter, intervistata da La Stampa. Dice Elisa: «Mi dicono che Alice ha la febbre, meningite da Citrobacter. Chiedo se ci sono o ci sono stati altri casi, mi rispondono di no. Nella stanza tiralatte, parlando con le altre mamme, scopro che non è  vero, e che di casi ce ne sono almeno cinque, Alice compresa, e che se ne verificano almeno dal dicembre precedente. Ci dimettono il 22 maggio. Il 12 giugno, Francesca (Frezza, la madre che ha fatto scoppiare lo scandalo, ndr) denuncia la situazione con un’intervista a L’Arena, il giornale di Verona. Ci troviamo con lei e con altre mamme, contiamo i casi di cui siamo a conoscenza, in totale sono una trentina, mentre qui continuano a parlare di dieci o dodici. Adesso veniamo a sapere che sono 96».

Lunedì è stata depositata la relazione stilata dalla Commissione istituita dal presidente del Veneto Luca Zaia per indagare sul caso di infezioni causate dal batterio Citrobacter koseri nei reparti di Terapia intensiva neonatale e pediatrica nell’Ospedale Donna e Bambino di Borgo Trento, a Verona. I risultati mettono i brividi: dall’apertura della struttura (era il 4 aprile del 2017) «sono stati identificati 91 soggetti positivi per Citrobacter», 9 neonati «hanno sviluppato una patologia invasiva causata da Citrobacter koseri» e tra questi 5 hanno riportato gravi lesioni cerebrali e 4 sono morti.

A giugno di quest’anno ci si è accorti che il batterio stava su alcuni rubinetti delle terapie intensive neonatale e pediatrica e sulle superfici interne ed esterne dei biberon utilizzati da due neonati risultati positivi. Molto probabilmente si tratterebbe di latte per neonati preparato con acqua infetta. Acqua del rubinetto. La struttura sanitaria non avrebbe mai comunicato nulla alla Regione e nemmeno all’ente che amministra la sanità veneta. Alice è morta il 16 agosto, dopo giorni di atroce sofferenza. Elisa adesso vuole sapere chi ha sbagliato: «Non tollero che neghino l’evidenza», dice: «Se faccio tutto questo, è perché io non voglio che succeda a un altro bambino».

È una storia che si porta un enorme carico di dolore.

Buon giovedì.

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Buona guarigione, Briatore

L’imprenditore piemontese ha insistito nel negare la pericolosità del virus. Forse, una volta guarito dal Covid, dovrà delle spiegazioni a chi ha messo in pericolo: dipendenti e ospiti del suo locale che si è rivelato un pericoloso focolaio

Giusto qualche giorno fa proprio su queste pagine mi è capitato di contestare Flavio Briatore per le sue idee e per la superficialità con cui ha affrontato il tema dei rischi Covid e la superficialità con cui ha invocato il liberi tutti in nome del fatturato del suo locale che proprio in questi giorni si è rivelato un pericoloso focolaio con ben 63 positivi su 90 tamponi fatti.

Flavio Briatore è ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano (tra l’altro in un reparto che non è attrezzato per il Covid e dove, pagando, ha deciso di stare) perché anche lui è positivo e intorno, ovviamente, si sono avventati un po’ tutti, anche chi con un certo sprezzo del senso di umanità sta augurando all’imprenditore la peggior sorte in nome di una giustizia vendicativa che dovrebbe servirgli da lezione. Beh, qui si augura a Briatore di guarire presto (del resto le notizie dicono che le sue condizioni siano stabili e buone, niente di preoccupante al momento, così dice il comunicato ufficiale del suo staff) però alcune considerazioni meritano di essere fatte.

Come scrive giustamente Massimo Mantellini: «Immaginare di sterilizzare la discussione che lo stesso Briatore ha scatenato, ora che è malato della stessa malattia che negava, e questo in nome dell’umana pietà che dobbiamo riservare a tutti, è semplicemente ridicolo». Briatore, come molti altri, ha insistito nel negare il pericolo e negare la pericolosità del virus (e con lui lo stesso primario Zangrillo che ora se lo ritrova in reparto) e forse, una volta guarito, in quanto personaggio pubblico (e usato spesso dalla politica come profeta, sui social della Lega sono state rilanciate di gran voga le sue dichiarazioni) dovrà spiegare questa sua superficialità, ci dovrà spiegare come sia successo che la sua discoteca abbia numeri di contagio che sono ben superiori a quelle delle altre discoteche e dovrà delle spiegazioni a chi ha messo in pericolo, a tanti dei suoi dipendenti e dei suoi ospiti. Perché, come dice spesso lo stesso Briatore, «le parole stanno a zero e contano i fatti». E infiammare gli animi finisce sempre per rivoltarsi contro, sempre.

Per quanto riguarda i complottisti invece non c’è speranza: comincia già a girare la fake news che Briatore sia stato “infettato dal sistema”. Pensate un po’.

Buona guarigione.

Buon mercoledì.

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La discocrazia

È l’immagine di questa destra che si è involuta nel tempo, che è invecchiata male ballando al Billionaire e al Twiga, allo Smaila’s e al Papeete che negli anni hanno voluto trasformare come simbolo di un Paese che esiste solo nelle loro tasche, nelle loro teste e nella loro ristretta cerchia di amicizia che non ha niente a che fare con il mondo reale e nemmeno con la situazione reale.

Se c’è qualcosa di più stupido di quelli che temono di avere in futuro un microchip sotto pelle iniettato con un vaccino allora è sicuramente questa discocrazia che viene proposta, tra l’altro, mica da giovani che reclamano la propria libertà, ma da attempati signorotti della politica, che di politica hanno vissuto e continuano a vivere, che vorrebbero risultare giovanili e invece sono semplicemente patetici. Daniela Santanchè che balla per fare opposizione è una scena da film dell’orrore che tra qualche anno riguarderemo con disgusto.

È la destra che da anni si propone come il partito del “rispetto delle regole” e invece ora vorrebbe crescere nei sondaggi invitando gli altri a non rispettarle. Badate bene: non propone una nuova regolamentazione e non propone nemmeno una soluzione strutturale a un problema strutturale (perché il virus chiede un nuovo paradigma piuttosto che una serie di interventi tardivi e isolati), no, la destra italiana chiede il “diritto di ballare” dimostrando tutta la sua distanza dalla realtà.

Agli elettori della discocrazia non interessa poi nemmeno troppo in fondo ballare, vivono questa battaglia di resistenza culturale perché qualcuno gli dice che si comincia così, vietando i balli, imponendo le mascherine e poi togliendo i diritti civili. E i leader della discocrazia hanno pensato bene che essere liberi significhi praticare la propria libertà di ammassarsi in nome della loro nuova rivoluzione.

Dalla mignottocrazia di Berlusconi alla discocrazia di Meloni e Salvini il passo è stato breve e, se guardate bene, i protagonisti sono sempre gli stessi.

A un mese dall’apertura delle scuole, nel pieno della discussione sul Mes, mentre si dovrebbe discutere di come ripensare il Paese con i soldi che arrivano dall’Europa, qui si continua a discutere da giorni di discoteche. Nell’anno di una pandemia mondiale.

Ma vi sembra normale?

Buon mercoledì.

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Prima i 49 milioni, poi il pieno di furbetti del bonus: è la Lega, quella che urlava contro la “casta”

I nomi escono a grappoli, dentro c’è di tutto: il bonus da 600 euro che è finito nelle tasche di parlamentari e consiglieri regionali, gente che sicuramente non aveva bisogno di quei soldi e soprattutto gente che avrebbe dovuto mantenere un comportamento etico rispettando il proprio ruolo con disciplina e onore come chiede la Costituzione, è l’argomento di cui tutti parlano nelle chat dei parlamentari. È una di quelle cose che fa schifo a tutti ma che non ne parla quasi nessuno perché si rischia di farsi molto male e così accade, nell’indifferenza generale, che lo stesso Salvini che chiedeva le immediate dimissioni dei parlamentari che si sarebbero ritrovati coinvolti ora cambia linea e parla semplicemente di “immediata sospensione”.

Perché? Perché sono leghisti Elena Murelli e Andrea Dara, i due parlamentari che hanno deciso di venire allo scoperto prima di essere scoperchiati dall’audizione del presidente Inps Pasquale Tridico e volendo vedere è leghista anche il vicepresidente del Veneto Gianluca Forcolin, quello che ha provato a spiegarci che la sua richiesta è partita “in automatico” (ma davvero, ma che significa?): probabilmente si è giocato la ricandidatura. Zaia, a differenza di Salvini, sembra molto più duro del suo segretario. In Veneto ci sono anche due consiglieri regionali leghisti: Riccardo Barbisan e Alessandro Montagnoli (che ha provato fuori tempo massimo a stornare i 600 euro alla Protezione Civile). Male anche per loro, Zaia ha già detto che non ci sarà nessuna ricandidatura.

È leghista anche il consigliere regionale dell’Emilia Romagna Stefano Bargi, come Ivano Job, consigliere leghista in Trentino che con il contributo della Provincia si è messo in tasca 5mila euro. Eppure i leghisti sono i moralisti, quelli della “Roma padrona” e della politica che avrebbero dovuto “ripulire”. Sono quelli che a parole difendono i soldi dei lavoratori contro gli sprechi della politica e poi si intascano i soldi dei lavoratori. Sono quelli che sull’indignazione e sull’antipolitica (quella politica che usano a tradimento svilendola nei fatti e nelle parole) costruiscono le platee elettorali e poi balbettano quando si tratta di loro che sono presi con le mani nel sacco.

Lo stesso accade per il deputato 5 stelle Rizzone e per il pentastellato sindaco di Campobasso: contribuire alla pessima politica con le scelte imperfette della propria classe dirigente è un errore imperdonabile. Eppure alla fine sono loro: i duri e puri che basta che gratti un po’, appena appena, e scopri che sono ancora peggio degli altri.

Leggi anche: Bonus Inps, il leghista Bocci e quelli che “è sempre colpa dei commercialisti” 

L’articolo proviene da TPI.it qui

Ma cos’è stata Sant’Anna di Stazzema?

Lo racconta un superstite. Enio Mancini aveva 6 anni.

Non avevo ancora compiuto sette anni all’alba di quello splendido sabato estivo; niente faceva presagire ai circa quattrocento abitanti di Sant’Anna e agli oltre mille sfollati che si trattasse di un cupo giorno di terrore e di morte, il giorno del massacro di cinquecentosessanta vittime innocenti, delle quali circa centocinquanta erano bambini sotto i quattordici anni.

Mio padre aveva scorto le colonne naziste che scendevano dai passi montani sui borghi di Sant’Anna.

Prima di andare a nascondersi con gli altri uomini nel bosco, ci sveglio’ e ci invito’ a mettere in salvo la nostra “roba”.

Pensavamo si trattasse di un rastrellamento e temevamo l’incendio delle nostre case, come era avvenuto nel vicino paese di Farnocchia.

Nessuno immaginava che donne, vecchi e bambini avessero a subire violenze.

Poco dopo ecco entrare in casa un gruppetto di S.S., indossavano la tuta mimetica, erano armati fino ai denti e portavano l’elmetto sul capo; notammo che due nascondevano il volto con una specie di maschera e parlavano come noi.

Ci buttarono letteralmente fuori, non permettendoci di prendere nemmeno gli zoccoli e, mentre alcuni con strani attrezzi che lanciavano lunghe lingue d fuoco incendiavano la casa, altri ci condussero sull’aia che dominava il borgo di Sennari.

Li’ trovammo gia’ molte persone, ci addossarono contro un muro di una casa e iniziarono ad installare, su un poggio sovrastante, degli strani attrezzi, tipo treppiedi.

Qualcuno comincio’ a piangere e ad implorare per la disperazione; una vecchina, forse per ingenuita’ o per sdrammatizzare il momento, disse di non preoccuparci che forse stavano per farci una fotografia.

Quando anche la mitragliatrice fu montata e lo sgomento e la paura erano ormai generali, arrivo’ nell’aia un ufficiale tedesco, forse un generale, che imparti’ degli ordini in tedesco: “Raus… Valdicastello”, ripeteva.

Le spregevoli belve con il volto mascherato tradussero: l’ordine era quello di scendere verso Valdicastello.

Al nostro nucleo familiare si erano aggiunti la nonna materna, la zia e gli altri.

Scendendo, passammo davanti alle nostre case, ormai quasi completamente incendiate (si udiva ancora il muggito della mucca rimasta intrappolata nella stalla).

Decidemmo di non ubbidire all’ordine di scendere a Valdicastello, ma di nasconderci nei pressi, con la speranza di poter fare presto ritorno alle nostre case per salvare il salvabile.

Ci nascondemmo in un anfratto naturale che si trovava nella selva, duecento metri sotto casa.

Dopo circa mezz’ora si udirono quelle voci gutturali che si avvicinavano al nostro nascondiglio; lo sgomento fu totale, ci videro, erano una decina, alzammo le mani in segno di resa.

Ci incolonnarono e ci spintonarono lungo il sentiero che portava verso il centro del paese, verso la chiesa di Sant’Anna.

Malgrado le pedate e i colpi coi calci dei fucili nella schiena, si riusciva a procedere molto lentamente.

Alcuni, infatti, erano scalzi ed il sentiero era pieno di rovi e ricci di castagno.

Ad un certo punto decisero di proseguire (sembrava avessero molta fretta), lasciando di guardia un solo soldato che, nel frattempo, si era tolto l’elmetto dal capo; era molto giovane, quasi un adolescente e non ci faceva piu’ tanta paura.

Quando il gruppo dei tedeschi scomparve dalla nostra vista, il giovane soldato comincio’ ad impartirci degli ordini, che non capivamo, ma ci faceva anche dei gesti eloquenti.

Questi si’ erano facilmente intuibili: ci diceva di tornare velocemente indietro.

Salimmo il ripido pendio, si udi’ una scarica di arma automatica che ci fece trasalire, ci girammo di scatto temendo che ci stesse sparando addosso ed invece imbracciava il fucile verso l’alto e sparava verso le fronde dei castagni.

Si continuo’ a salire verso Sennari, mentre sul versante opposto, verso la chiesa, si udivano in un frastuono generale crepitio di spari, scoppi di bombe, tetti di case che crollavano, lamenti di animali che stavano bruciando vivi nelle stalle e poi si scorgeva il fuoco ed il fumo nero che proveniva da ogni direzione, da ogni borgo del paese.

Non ci rendevamo pero’ conto di tutto quello che realmente stava accadendo.

Giungemmo a casa poco prima delle dieci e tutti ci adoperammo per salvare dal fuoco quella parte non ancora completamente distrutta.

Ci sembrava cosa gravissima aver perso gran parte della nostra roba e soprattutto la mucca che, in quel periodo, ci aveva permesso di sopravvivere.

Verso le cinque del pomeriggio, pero’, la tremenda notizia.

Un giovane della borgata, allontanatosi al mattino con gli altri uomini per nascondersi nei boschi e che, al ritorno, aveva attraversato il centro e gli altri borghi, arrivo’ a Sennari urlando, sembrava impazzito: “Una strage! Sono tutti morti! Sono bruciati!” ripeteva.

Lasciammo le nostre case che ancora fumavano per correre verso il centro, verso la chiesa.

Ogni gruppo andava la’ dove abitavano i propri congiunti, i propri parenti.

Passammo al “Colle”.

Ne avevano uccisi diciassette (una ragazza, ferita, ed un uomo anziano si erano miracolosamente salvati sotto il cumulo dei cadaveri).

Arrivammo alle “Case” dove abitavano i nostri parenti: cadaveri sparsi dappertutto, rovine, fuoco e i pochi sopravvissuti impietriti dal dolore.

In una casa, sventrata dal fuoco, su una trave che ancora ardeva – incastrata – una rete di un letto e sopra tre corpi quasi completamente consumati.

Al nero dei tessuti carbonizzati faceva contrasto il bianco dello scheletro; uno dei corpi era piccolo, il corpo di un bambino.

E poi l’odore acre, intenso, della carne arrostita.

Una nonna, per fortuna, riprese noi bambini per riportarci verso Sennari.

Avevamo visto molto, troppo per la nostra tenera eta’.

Una esperienza drammatica che segna per sempre un’esistenza, ma comunque meno tragica di altri giovani ragazzi sopravvissuti nell’eccidio che, feriti o incolumi, videro massacrare i propri cari.

Poi ci fu il dopo, ma quella e’ un’altra storia.

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