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Ambiente

Un manifesto per riqualificare gli edifici

Ricevo e sottoscrivo un appello che vale la pena leggere e condividere. Gli edifici in cui passiamo il 90% del nostro tempo sono un tema politicissimo di cui ci si occupa sempre troppo poco. Lo trovate qui.

  1. Adoperarmi affinché aumentino le riqualificazioni profonde degli edifici

    Occorre redigere e attuare efficaci piani e programmi per la riqualificazione degli edifici pubblici e privati, migliorando la Strategia Nazionale per la Riqualificazione Energetica del Parco Immobiliare (STREPIN) e il Piano per l’incremento degli Edifici a Energia quasi Zero (PANZEB), ed integrando le attività di comunicazione e incentivazione già esistenti con nuovi strumenti.

  2. Stimolare il Governo a migliorare le disposizioni sulle riqualificazioni profonde

    Occorre sviluppare specifiche ed appropriate indicazioni per gli interventi di ristrutturazione, per evitare che norme rigide e stringenti, concepite per gli edifici di nuova costruzione, risultino inapplicabili e quindi inefficaci per le riqualificazioni dell’esistente.

  3. Promuovere la cooperazione tra i diversi Ministeri competenti

    Le disposizioni per gli interventi sugli edifici attengono a competenze di diversi Ministeri (Sviluppo Economico, Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare, Infrastrutture e Trasporti, Interno); occorre che questi ministeri lavorino insieme, e per questo può risultare utile l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio di una struttura di missione per la riqualificazione del patrimonio edilizio.

  4. Instaurare un dialogo permanente all’interno della filiera istituzionale, dal livello nazionale agli enti territoriali

    Regioni e città necessitano di supporto per completare, in modo chiaro, coerente e immediatamente applicabile, il quadro regolativo e incentivante delle riqualificazioni profonde degli edifici.

  5. Rendere visibile il ruolo esemplare e di stimolo della Pubblica Amministrazione

    Nei propri immobili la pubblica amministrazione ‘ci mette la faccia’ con i cittadini. La riquali cazione degli edi ci pubblici deve avvenire attraverso bandi che prevedano dichiarati e verificabili risultati in termini di risparmio energetico, comfort e sicurezza.

  6. Promuovere la collaborazione con i diversi soggetti della filiera industriale e finanziaria

    La filiera delle riqualificazioni edilizie è composta da diversi soggetti, dalle imprese edili agli utenti finali, dagli istituti di credito ai professionisti: le regole del gioco e i meccanismi di accesso agli incentivi, per essere e caci e avere successo, devono essere predisposti attivando tavoli che prevedano il concorso di tutti gli attori della filiera

  7. Adoperarmi affinché la certi cazione energetica diventi strumento di valutazione del patrimonio immobiliare

    La certificazione energetica ha nora deluso molte aspettative; occorre migliorarne il contenuto, l’applicazione e il sistema pubblico dei controlli, affinché diventi strumento e cace e veri cabile, che orienti il mercato e consenta di praticare misure di incentivo e bene ci scali di erenziati in funzione delle reali prestazioni conseguite.

Cosa succede sul fronte TAP

Condivido (in tutti i sensi, mica solo social) quanto scritto dai Comitati di Possibile di Legge e “Renata Fonte”:

 

I due circoli salentini sono contrari a quest’opera. Dal punto di vista energetico la Puglia, in particolare il Salento, ha già dato. Ha già contribuito, in maniera sin troppo eccessiva, all’interesse nazionale. La politica energica del nostro Paese è decisamente iper stressante per il nostro territorio, con conseguenze nefaste: dai fumi di Cerano alle emissioni nocive dell’Ilva di Taranto. Poi uniamo le recenti autorizzazioni ministeriali date a società petrolifere per la ricerca di petrolio al largo di Santa Maria di Leuca. E se, a queste condizioni,  aggiungiamo al tavolo della discussione il gasdotto TAP che coinvolge il nostro territorio,  la frittata è fatta. Senza dimenticare, che oltre l’impianto TAP che ha visibilità nazionale, c’è in ballo anche  l’impianto “Eastmed” un «tubo» che porterà in Italia, ad Otranto (Le), il gas estratto dai giacimenti offshore di Israele e Cipro. Entrambi i gasdotti sono ritenuti di importanza strategica nazionale, ritenuti fondamentali per una diversificazione dell’approvvigionamento del gas per il nostro Paese. Ed è anche questo interesse strategico che noi mettiamo in discussione, con le conseguenze normative che questa valutazione porta con sé. Ovvero la serie di  provvedimenti d’urgenza attinenti alle infrastrutture ritenute strategiche in fase di programmazione, approvazione dei progetti, anche con finalità di accelerazione delle procedure di realizzazione delle opere.

La questione Tap, a Melendugno, come dicevamo ha avuto la ribalta nazionale. E’un caso eclatante perché non c’è mai stato il coinvolgimento degli enti locali, della cittadinanza e delle associazioni attive sul territorio. Un silenzio assordante davanti alle richieste provenienti dalla cittadinanza più o meno organizzata. Siamo anche preoccupati per quello che accade in queste ore a Melendugno (Le). Il paese si è risvegliato militarizzato: con un’ordinanza, il prefetto assegna un pezzo del territorio “nella disponibilità delle forze di polizia” . Nelle diverse zone interdette sono presenti oltre 250 agenti.

Cosa sta succedendo in queste ore?

I lavori sono ripresi nella notte 1 e Melendugno si è risvegliata militarizzata: con un’ordinanza, il prefetto assegna un pezzo del territorio “nella disponibilità delle forze di polizia” . Nelle diverse zone interdette sono presenti oltre 250 agenti. I residenti bloccati: “Sembra la guerra” 2

Anche questa volta i lavori sono ripresi in notturna, così come è accaduto questa estate con altri fortissimi momenti di tensione. 3

Che seguono quelli del Marzo 2017 con una carica della polizia sui manifestanti e  tra i «caricati» ci sarebbero anche due consiglieri regionali, Mino Borraccino, di Sinistra Italiana, e Tony Trevisi, del Movimento 5 Stelle oltre il sindaco di Melendugno. 4

Il fronte dei sindaci salentini è diviso in due 5

:

  1. da una parte il fronte guidato dal Sindaco di Trepuzzi (da qui non passa Tap, sic!) Giuseppe Taurino (Pd) che, pur ritenendosi contrario alla Tap, ha lanciato l’iniziativa di una partecipazione al tavolo interministeriale con Tap e Snam che ora mettono sul piatto circa 50 milioni di euro oltre le compensazioni territoriali. A Taurino si aggiunge Mario Accoto Sindaco di Andrano (csx) ed il Presidente della Provincia, Antonio Gabellone (cdx).
  1. I Sindaci dei Comuni di Castrì di Lecce, Martano, Melendugno, Vernole e Zollino, guidati da Marco Potì (Socialista)  Sindaco di Melendugno  che hann convocato gli STATI GENERALI DELLA SALUTE E DELL’AMBIENTE DEL SALENTO con questa descrizione dell’evento 6 
    Il Salento vive oggi un momento drammatico a causa delle molteplici emergenze ambientali e sanitarie.Sentiamo forte il dovere, da cittadini prima e da Amministratori locali poi, di rinsaldare quel vincolo di sana solidarietà che ci deve appartenere per riuscire a far prevalere gli interessi dei cittadini, gli unici interessi per cui vale la pena battersi.A tal proposito per il giorno venerdì 17 novembre 2017, alle ore 18, ci autoconvochiamo per discutere delle emergenze di cui sopra, a partire dalla TAP e tutto ciò che, grazie alla grande coesione dimostrata sino ad ora, può essere combattuto.Ti aspettiamo alle Officine Cantelmo a Lecce, insieme a tanti Sindaci e Amministratori locali, Rappresentanti Istituzionali, libere associazioni, cittadini e tutti coloro che amano veramente il Salento. Il Salento ha una sola voce, e questa voce chiede il rispetto dell’ambiente e della salute dei suoi cittadini.”

Ghosh accusa “Noi, carnefici incoscienti del pianeta”

da Repubblica, 14 settembre 2017. «Per stoppare l’avanzata del cambiamento climatico e del riscaldamento globale è necessario fermare la crescita economica. Questa è la realtà». Intervista ad Amitav Gosh, autore di “La grande cecità

 

Siamo tutti vittime e colpevoli, dice Amitav Ghosh. Pare di riascoltare le parole dell’ultima intervista di Pier Paolo Pasolini. Altra epoca, altro «gioco al massacro ». Ma il finale è lo stesso. Siamo tutti «deboli e vittime» del cambiamento climatico, perché ne subiamo le spietate conseguenze. Ma siamo anche tutti colpevoli perché, dice lo scrittore indiano, «il silenzio e l’indifferenza verso la più grande e imminente catastrofe del presente umano è di tutti. Non solo dei politici, ma anche di scrittori e intellettuali, che si occupano raramente di questo problema, e dei cittadini, che oramai dimenticano le sempre più frequenti catastrofi naturali, da Livorno ai Caraibi, dall’India a Houston».
Benvenuti dunque nell’epoca della “Grande cecità”, dove un cavalluccio marino nuota con un cotton fioc e dove neanche l’occhio di Irma, il più terribile uragano della storia recente degli Stati Uniti, ci illumina la vista, né «smuove le coscienze. O meglio, la nostra incoscienza», racconta affranto Ghosh, autore, tra le altre cose, de Il paese delle maree e della Trilogia dell’Ibis. La Grande Cecità
che ha annebbiato il nostro immaginario e l’istinto ecologico, è anche il nome dell’ultimo saggio di Ghosh, edito da Neri Pozza (pagg. 284, euro 18). Sottotitolo «il cambiamento climatico e l’impensabile». Impensabile, spiega lo scrittore, «è l’autocensura del termine climate change, che compare raramente in libri e media, nonostante la gravità del problema. È una questione di narrativa, di immaginazione».
E perché capita questo, Ghosh?
«Alla base c’è sicuramente una colpa dei politici e della inerme comunità mondiale. È una cosa scandalosa, ma in fondo la capisco. Oggi i politici hanno mandati di 4-5 anni in media ed è impossibile limitare una piaga così ampia e a lungo termine come il cambiamento climatico in tempi così brevi. Gli accordi di Parigi, già rinnegati da Trump, sono stati importanti ma si tratta di un passo minuscolo verso una soluzione del problema».
Come mai?
«Innanzitutto perché ne affrontavano una parte piccolissima, concentrandosi solo sulle emissioni e non su agricoltura, acqua e altri aspetti cruciali. Più in generale, per stoppare l’avanzata del cambiamento climatico e del riscaldamento globale è necessario fermare la crescita economica. Questa è la realtà. I politici lo sanno ma non lo ammetteranno mai, altrimenti si brucerebbero la carriera. Invece continueranno a ripetere “crescita, crescita, crescita”. Così i disastri e il calore cresceranno sempre di più, oramai l’aria condizionata la usano anche a Seattle, saranno necessari energia e fondi sempre maggiori, e continueremo a morderci la coda fino al prossimo disastro».
Cosa bisogna fare secondo lei?
«Limitare l’uso di energia, e ricalibrare quest’ultima sul consumo pulito. Ridefinire il modello economico e la globalizzazione. Così non si può andare avanti. Il Pakistan per sopravvivere deve esportare sempre più cotone, ma per farlo crescere ci vuole tanta acqua, e così prosciuga le sue riserve. Lo stesso accade in India per la canna da zucchero. Ma la crisi idrica è una delle tante conseguenze di questo sistema insostenibile. E nessuno ne parla seriamente ».

Nella “Grande Cecità” lei affronta proprio questo problema. Quali sono le cause?
«La cultura è connessa al mondo della produzione di merci e ne induce i desideri. Inoltre, non c’è istruzione né educazione su ambiente e cambiamento climatico, né da piccoli, né da grandi. Perciò, al cinema o nei romanzi, un tema del genere non viene ancora considerato realistico, ma surreale, o “fantascienza”. Eppure il disastro è qui, imminente, intorno a noi. La cosa più deprimente è la glaciale insensibilità che persino i cittadini, ormai, mostrano senza ritegno».
Ma perché abbiamo smarrito quest’anima ambientalista? Del resto, anche in Europa, per esempio, i partiti verdi ed ecologisti hanno perso moltissimo consenso.
«È vero ed è sconfortante. La nostra assuefazione emotiva nei confronti dei disastri naturali e del cambiamento climatico si è fortificata parecchio negli ultimi decenni. Quasi non ci spaventano più, ma soprattutto non ci fanno più pensare alle loro conseguenze e, quindi, al nostro futuro. L’attuale modello di vita estremamente materiale, individuale e schiacciato su una singola esistenza influisce profondamente su qualsiasi domanda sul nostro destino e sul futuro del mondo. Non che avessero fondamento scientifico, ma almeno in passato, quando le religioni avevano molto più seguito, le catastrofi naturali ci inducevano a riflettere sulle loro cause, sul perché di quella “punizione divina”. Era un ragionamento errato, ma almeno si rifletteva. Oggi abbiamo rinunciato anche a questo. Paradossalmente, nell’era della globalizzazione, non abbiamo più quello spirito globale nell’avversità. Per questo si tratta di un problema soprattutto culturale».

E, conseguentemente, molto spesso non si fa nulla neanche per la prevenzione dei disastri.
«Difatti sono rimasto sconvolto da quello che è successo a Livorno qualche giorno fa. È incredibile che in un paese come l’Italia possano accadere drammi simili senza alcuna protezione pregressa, date anche le condizioni particolarmente ostiche del territorio italiano. Persino le Mauritius hanno un ottimo sistema di allerta anti cicloni, per esempio. Anche la vituperata Cina sta facendo molto rispetto al passato. Ma nemmeno questo oramai mi stupisce più. Le grandi nazioni occidentali, nonostante la facciata, sono paradossalmente quelle che fanno meno per risolvere il problema. Non solo Trump, ma anche uno come il premier canadese Justin Trudeau, icona dei liberal e della sinistra nel mondo, sta facendo poco per l’ambiente. L’influenza della cultura economica, estrattiva e coloniale del mondo anglosassone non si è indebolita nei decenni. Eppure affrontare il cambiamento climatico risolverebbe tanti problemi dell’Occidente, anche quelli migratori. E invece… Con questo assordante silenzio intorno, è impossibile essere ottimisti».

(il libro di Ghosh si può acquistare qui)

Terra, sesta estinzione di massa. “La popolazione animale già dimezzata”

(di Rosita Rijtano su Repubblica)

Dimezzato. È il numero di animali che ci circonda in poco più di un secolo: dal 1900 al 2015. Succede ovunque sul Pianeta: a sud come a nord, a est come a ovest. Branchi di giraffe, elefanti, rinoceronti e oranghi che via via si assottigliano. Fino, a volte, persino sparire da alcune aree geografiche. Uno spopolamento dalle proporzioni inimmaginate che ha ricadute sull’intero ecosistema. Sono le prime, corpose, stime della “sesta estinzione globale”, così la definiscono tre biologi dell’università di Stanford in uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Pnas. Un’analisi quantitativa diretta a documentare le dimensioni del problema, inquietanti. “In tutto il mondo si sta verificando un annichilimento biologico”, sostiene Rodolfo Dirzo, noto ecologo che negli anni trascorsi ha già lavorato su quella che lui ha etichettato “defaunazione antropocentrica” e uno degli autori della ricerca.

 

Un fenomeno che va al di là dei singoli esemplari considerati scomparsi dal mondo, in media due ogni anno. È, per esempio, il caso del Ciprinodonte Catarina (Megupsilon aporus), specie di pesce d’acqua dolce. O dei pipistrelli dell’Isola di Natale, in Australia. Le ultime notizie raccontano che anche il pinguino imperatore, in Antartide, non se la stia passando molto bene. Sarà costretto a migrare per trovare altri luoghi in cui riprodursi e cacciare, altrimenti rischia di non superare la fine del secolo. Storie di per sé significative. Eppure non bastano a darci un quadro complessivo della situazione, dicono gli studiosi: “Focalizzarsi sulle estinzioni porta alla comune, falsa, impressione che il biota della Terra (cioè quella parte che ospita gli esseri viventi ndr), non sia immediatamente minacciato. Ma stia solo attraversando una fase di maggiore perdita della biodiversità”. Ed è per chiarire questo aspetto che ha preso forma il nuovo lavoro.

 

I ricercatori hanno analizzato la distribuzione geografica di 27,600 specie di vertebrati: uccelli, anfibi, mammiferi e rettili. A cui hanno aggiunto i dati dettagliati di un campione di 177 esemplari di mammiferi, ben studiati, dal 1900 al 2015. Utilizzando la riduzione dei luoghi in cui si possono trovare questi animali come indicatore di un numero più esiguo, sono arrivati alla conclusione che “il calo demografico è estremamente alto, anche nelle specie considerate a basso rischio”.

 

In particolare, i risultati mostrano che più del 30% dei vertebrati è in declino sia in termini di dimensioni sia di distribuzione geografica. Non solo, dei 177 mammiferi presi in considerazione, tutti hanno perso almeno il 30% delle loro aeree di residenza. Mentre oltre il 40% ne ha abbandonato più dell’80%. “Le specie maggiormente coinvolte sono tantissime”, spiega a Repubblica Gerardo Ceballos, coordinatore della ricerca. “Alcune delle più conosciute sono il ghepardo, elefante e leone africano, rinoceronte nero, orangotango sia del Borneo che del Sumatra”.

 

A soffrirne di più sono le zone tropicali del globo, dove la fauna ha lasciato ampi spazi liberi. Con l’Africa a fare da capofila, seguita da Australia, Asia e Europa. Le conseguenze? “La distruzione del sistema di supporto vitale da cui la nostra civiltà è totalmente dipendente per il cibo, molti prodotti industriali, e un ambiente vivibile”. Uno scenario sconfortante. A margine, però, c’è una nota positiva, avverte lo scienziato: “Dato che a trainare questo processo sono le attività umane, possiamo fare molto per minimizzare il nostro impatto e quindi le proporzioni del fenomeno”. Ridurre l’inquinamento e lo sfruttamento delle risorse, limitare i traffici delle specie in pericolo di vita, aiutare le popolazioni povere a preservare la biodiversità: sono solo alcune delle azioni da intraprendere. “È necessario un impegno internazionale”, puntualizza Ceballos. Anche perché “il cambiamento climatico sta aggravando la situazione”. E per agire “rimane una piccola finestra di tempo, che si sta chiudendo rapidamente”. Il rischio è di rimanere i soli sulla Terra.

Ricapitolando. Ora la siccità. In autunno le piogge. A gennaio le frane. Poi gli smottamenti. Poi gli approfondimenti televisivi. E qualche funerale.

Un’intervista di Antonello Caporale a Luca Mercalli da stampare, condividere, tenere attacca alle pareti di casa. Perché il problema non è il caldo.

I meteorologi, gli scienziati del clima, fisici e astrofisici, sono sull’orlo di una crisi di nervi. “Non c’è allarme che tenga, sapere che convinca, disastro che allerti. La gente se ne sbatte di noi, delle nostre previsioni, della cura con la quale dimostriamo l’ineluttabile, il mostro che ci mangerà. La questione è divenuta così seria che abbiamo chiesto aiuto agli psicologi, qui siamo di fronte a un enorme fenomeno di dissonanza cognitiva”.

Luca Mercalli conduce, insieme alla brigata dei climatologi, campagne quotidiane di illustrazione dei rischi. Lui illustra e noi sbadigliamo.
È così. Ora stiamo friggendo sotto il sole, abbiamo 38 gradi sulla testa e la temperatura si innalzerà ancora. Tutto chiaro e previsto, e quando dico previsto voglio specificare che anche il dettaglio minimo del più grande tema del riscaldamento globale era stato ampiamente annunciato. Ma sembra che non sia servito a niente.

Ci prepariamo per i quaranta gradi.
Così sarà, e poi quarantadue.

Noi umani siamo divenuti impermeabili, incoscienti al punto estremo.
Mi chiedo come sia possibile. E infatti non avendo una risposta credibile, ragionevole, abbiamo chiesto aiuto agli psicologi. Indagheranno sull’inconscio collettivo.

Magari c’entra qualcosa la cultura capitalistica, la teoria dell’accumulo infinito?
Ci sta, ma non basta a spiegare perché gli elementi naturali della nostra vita, il fondamento della nostra esistenza, siano così disprezzati.

Si stupisce? Ma l’America ha eletto Trump.
Mi stupisco, sì. Perché l’uomo per 200 mila anni ha fatto il cacciatore. Uccideva l’antilope e magari non gli serviva, pensava: vabbè qualcun altro l’avrebbe uccisa, sarebbe morta uguale. Per ottomila anni ha fatto l’agricoltore, e soltanto da 200 ha avuto abilità industriali di massa. Il problema è che negli ultimi 200 anni ha fatto fuori il mondo.

D’inverno ci allaghiamo, d’estate moriamo di sete.
In città moriamo di smog. Moriamo per davvero.

Sembra un teatro, invece. Voi che indossate i panni dei profeti di sventura e noi che osserviamo muti e un po’ distratti.
La mia disperazione è tutta questa conoscenza che sprechiamo, tutto questo sapere che buttiamo al vento. Come non capire che se allaghiamo di cemento la terra, poi l’acqua ci infligge la pena? Non è ipotesi di scuola, è realtà. Ma noi cementifichiamo alla carlona.

Non vogliamo vedere.
Abbiamo un problema psicologico, altro non saprei dire. Perché non è possibile considerare ragionevole questa corsa a saturare la fonte della nostra vita. Stiamo avvelenando l’acqua, riducendo la sua portata, annientando la linfa vitale dell’esistenza. Diamine, accorgitene che hai un cancro e ti sta uccidendo.

Siamo affaccendati e abbiamo mille pensieri.
Siete veramente degli stronzi.

Siamo buffi.
Siete irresponsabili. Esempio: la tecnologia ci documenta a un prezzo alla portata delle tasche di quasi tutti che il sole, anziché arrostirci, può anche raffreddarci. Abbiamo i pannelli solari, abbiamo l’energia che ci serve per stare caldi d’inverno e freschi d’estate, abbiamo la possibilità di non pagare la bolletta elettrica, abbiamo incentivi che arrivano al 65 per cento dell’importo totale. Dico: solo un matto non capisce che la scienza ti offre la possibilità di sporcare di meno il mondo e fare un buon affare. Cos’altro devono darci o dirci?

Eppure…
Eppure una minoranza ha i pannelli solari, le pompe di calore, le case isolate termicamente.

Una minoranza con i soldi.
La questione sarebbe meno seria se fosse come dice lei. Il problema è che non adottano misure minime, casalinghe, per tutelare la propria vita familiare anche coloro che i soldi ce li hanno.

È una indietro tutta.
Con Trump il cerchio si chiude e io sono sempre più pessimista. Gli Stati seguono questo crinale irresponsabile che pagheremo in modo così salato. Tutto intorno silenzio.

Ricapitolando. Ora la siccità.
In autunno le piogge.

A gennaio le frane.
Poi gli smottamenti.

Poi gli approfondimenti televisivi.
E qualche funerale.

(fonte)

Il processo “all’incosì” di Matilde C.

Matilde Casa è il sindaco di Lauriano, nella città metropolitana di Torino, e ha fatto l’esatto opposto di quello che avviene nella maggior parte dei nostri territori: ha trasformato un terreno edificabile in area agricola, attraverso una variante al Piano regolatore. La sua scelta politica non solo non ha ricevuto il plauso di politici e amministrazioni locali, ma l’ha costretta ad affrontare un processo penale. Si è trovata sul banco degli imputati con l’accusa di abuso d’ufficio per aver, come lei stessa dice, riportando le parole della pubblico ministero: “impedito la costruzione di quaranta belle villette”.

“Un mondo all’incosì” è la definizione che Matilde Casa dà di quello che le è successo e che ha raccontato recentemente nel libro Il suolo sopra tutto, scritto a quattro mani con l’urbanista e docente del Politecnico di Milano Paolo Pileri, edito da Altraeconomia. Il mondo al contrario è quello che ha vissuto il sindaco di Lauriano nei mesi successivi, quando si è trovata a dover difendere in tribunale una scelta contro corrente a tutela del suolo agricolo. “Un mondo in cui se fai la scelta giusta , non solo non sei premiato come dovresti ma sei punito per questo”: così descrive la situazione paradossale che ha vissuto per quasi un anno, prima dell’assoluzione.

La giunta di Matilde Casa, durante il suo primo mandato, ha approvato un piano regolatore, votato in consiglio comunale, che riduceva la superficie edificabile nel comune, non limitandosi a mantenerle stabili. “Abbiamo fatto un passo in più: abbiamo invertito la tendenza”, spiega Matilde Casa. “La mia formazione mi ha certamente aiutata in questa scelta a tutela del suolo”, spiega il sindaco laureata in agraria e che di agricoltura si occupa anche per lavoro. “C’è una cosa fondamentale che si impara attraverso la conoscenza del suolo: più cementifichiamo meno acqua sarà assorbita dal terreno. Meno terreno sarà coltivato, meno le acque saranno irreggimentate – e aggiunge- non stupiamoci poi quando arrivano le alluvioni”.

A denunciare il sindaco è stato un cittadino, che sosteneva di possedere un permesso di costruzione su una delle aree interessate dalla variante al piano regolatore e accusava il comune di averlo danneggiato. L’imprenditore che ha portato in aula il sindaco si è anche costituito parte civile. In caso di condanna Matilde Casa avrebbe dovuto scontare un anno e mezzo di carcere e pagare 120 mila euro di danni. “Quello che più mia colpito – spiega il sindaco – dopo il primo interrogatorio in cui avevo dettagliato tutto il programma e le mie scelte ambientali è stata la reazione della pm che mi disse: ‘Ma lei lo sa che in questo modo ha impedito a questo signore di costruire quaranta belle villette?’. Lì ho capito che stavamo parlando due lingue diverse”.

Rinviata a giudizio nel 2015 il processo si è concluso con sentenza di assoluzione in formula piena del Tribunale di Torino nel mese di giugno del 2016. Una soddisfazione per il suo ruolo di amministratrice e un sollievo per la sua vicenda privata. “ E’ stato un periodo molto difficile, molto pesante – racconta Matilde Casa – quello che accade normalmente in questi casi è un ricorso al TAR, io ho dovuto affrontare un processo penale che mi metteva in gioco in prima persona”.

Matilde Casa durante il processo si è sentita abbandonata dalle istituzioni, trovandosi da sola a sostenere la scelta di riportare quei terreni alla loro vocazione originaria. “Quello che ho provato è stata solitudine, almeno inizialmente, per l’assenza delle istituzioni e del mondo del sapere, degli atenei, che avrebbero potuto aiutarmi”, spiega il sindaco. I terreni in questione erano originariamente terreni agricoli trasformati in terreni edificabili, senza che fossero già stati rilasciati permessi per costruire. La variante votata in consiglio comunale e proposta dalla giunta guidata da Matilde Casa si poneva anche un altro obiettivo: mettere in sicurezza un terreno collinare ad elevato rischio idrogeologico. “Non lo fa nessuno”, è la frase che più spesso si è sentita ripetere durante le sue battaglie politiche, quando da amministratrice voleva apportare cambiamenti.

Nello stesso anno della sua vittoria giudiziaria Legambiente l’ha premiata con il titolo di Ambientalista dell’Anno.“Non voglio essere un eroe, ma voglio semplicemente fare bene il mio lavoro di sindaco, preservando i nostri territori”. La sua vicenda è diventata mediatica e Matilde Casa ha ottenuto la solidarietà dei colleghi amministratori, dei cittadini e di tante altre persone che l’hanno portata ad esempio. “Quando il mio caso è diventato nazionale – conclude il sindaco – mi è arrivata la solidarietà anche da costruttori, architetti e consulenti”.

(fonte: Libertà e Giustizia)

«Vado a fare il terrorista»

Il 15 marzo dell’anno scorso all’aeroporto di Bologna alcuni poliziotti notano un giovanotto agitato in coda al check-in del volo per la Turchia. Un biglietto di sola andata e uno zainetto erano  un’accoppiata piuttosto insolita per passare inosservata e così, quando gli uomini delle forze dell’ordine, gli hanno chiesto il motivo del suo viaggio quel passeggero rispose candidamente “vado a fare il terrorista”.

La madre, convocata in Questura, raccontò di essere molto preoccupata per quel figlio che “non sembrava più lui”: “non lo riconosco più – disse -, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer, vede cose stranissime”. Aggiunse che il ragazzo ormai viveva stabilmente a Londra dopo avere trovato lavoro in un ristorante pachistano e che da quando aveva cominciato a frequentare quell’ambiente i suoi atteggiamenti erano diventati molto preoccupanti.

Da un primo sommario esame del suo telefonino gli investigatori scoprirono video che inneggiavano l’Isis e la sua propaganda. Non fu possibile eseguire una ricerca più approfondita sui suoi dispositivi elettronici poiché il Tribunale del Riesame ordinò la restituzione del materiale informatico al sospettato accogliendo un suo ricorso.

Quel giovane era Yousef Zaghba, il terzo attentatore del London Bridge. Questa storiella, che oggi conosciamo e di cui possiamo scrivere, era stata inviata a suo tempo alla polizia inglese. Com’è andata a finire è cronaca di queste ore.

Buon mercoledì.

 

(continua su Left)

Intanto la Basilicata muore sepolta dal petrolio. Ma all’ENI tutti baciano le mani.

Il federalismo della responsabilità e la servitù verso l’ENI ha già prodotto un grande risultato: un’intera regione è stata lasciata sola a marcire sotto il petrolio. Ecco l’aggiornamento del Fatto Quotidiano:

Il 28 marzo scorso veniva rilevato un livello di benzene nelle aree esterne al Centro Olio dell’Eni di Viggiano (Cova) 2.380 volte superiore la soglia consentita. Soglia che invece il primo marzo, nell’area interna all’impianto, superava ben 19 mila volte i limiti. Parliamo di un’area di circa 6 mila metri quadri, grande quasi come un campo da calcio. È in quest’area che, da uno dei serbatoi – come denunciato dal Fatto e da Striscia la Notizia – tra agosto e novembre 2016 fuoriuscirono 400 tonnellate di greggio. Di queste, fa sapere l’azienda, 280 sarebbero state recuperate. Ma i danni restano. E sulla vicenda, nei mesi scorsi, la Procura di Potenza ha aperto un fascicolo d’indagine. L’allarme è confermato dai dati depositati dalla stessa Eni e resi pubblici dalla Regione Basilicata. Il movimento Nuovo Senso Civico Onlus e l’associazione Intercomunale Lucania denunciano: “È una situazione gravissima – spiega Augusto De Sanctis, referente del movimento – e confermano una contaminazione di acqua e suolo. Dal 15 aprile all’11 maggio di quest’anno, solo per il drenaggio della zona Fossa del Lupo, l’acqua estratta risulta contaminata per 6.425 metri cubi”. Il Cova di Potenza, lo ricordiamo, è fermo dal 18 aprile, dopo la delibera della giunta regionale della Basilicata che ne chiedeva lo stop a fronte delle “inadempienze e dei ritardi” da parte dell’Eni.

Sempre nel documento si legge come a inquinare acque e sottosuolo intorno al Cova ci sarebbe anche l’m,p-Xilene, un idrocarburo aromatico: in uno dei campionamenti risulta 39 volte la soglia, gli idrocarburi totali invece la superano di 5 volte. Le perforazioni nel sottosuolo attraverso cui viene monitorata la falda, fotografano una situazione preoccupante. A partire dai livelli di toluene. Nel comunicato si legge infatti che l’idrocarburo aromatico, classificato come sostanza nociva e facilmente infiammabile, supera di 20 volte i livelli consentiti (campione del 19 marzo). Anche Arpab – Agenzia regionale per l’Ambiente della Basilicata – dal 9 marzo al 15 aprile, rileva che i campioni delle acque sotterranee registrano un livello di manganese nelle aree esterne al Cova quasi 12 mila volte i limiti consentiti. Nello stesso punto gli idrocarburi, invece, superano di 9.800 volte la soglia. “L’attenzione è alta, c’è un’importante contaminazione dell’area – spiega l’ingegnere Arpab Maria Angelica Auletta – tanto che la fase di messa in sicurezza che spetta a Eni in quanto soggetto che ha inquinato, è seguita anche dalla nostra agenzia. Dopo l’incidente di gennaio (in cui si verificò uno sversamento di greggio da uno dei serbatoi dell’impianto, ndr) abbiamo richiesto una serie di prescrizioni, tra cui il monitoraggio del dreno con cadenza bisettimanale”.

A vigilare sul Cova c’è anche il ministero dell’Ambiente. Il caso è diventato di “rilevante interesse” nazionale. Per questo Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) e Arpa Basilicata stanno lavorando insieme per monitorare messa in sicurezza e funzionamento complessivo dell’impianto.

E se all’esterno del Centro Olio della Val d’Agri i livelli di contaminazione sono elevati, nell’area interna la situazione peggiora. “È un impianto – dichiara Augusto De Sanctis – che non va assolutamente riaperto. È troppo pericoloso per la salute e per l’ambiente”.

Per l’Eni “i dati riportati sono superati”. Secondo la compagnia le concentrazioni dei contaminanti sono in drastica diminuzione: “Nell’area interna al Centro Olio il benzene è passato da 19.100 microgrammi per litro di marzo a 7.410 microgrammilitro il primo aprile. L’m,p-Xilene è passato a 2.020 microgrammi/lt il primo aprile con una riduzione del 98%”. Eni inoltre precisa che “non si è verificata alcuna contaminazione di falde acquifere al di fuori dell’area industriale grazie alle barriere idrauliche e all’efficacia degli interventi realizzati” e che “il problema che ha causato la perdita è stato chiaramente identificato e bloccato”. C’è grande attenzione anche sull’invaso del Pertusillo, che con suoi 155 milioni di metri cubi fornisce acqua a Puglia e Basilicata, ma Arpa rassicura: “Per quanto riguarda fiume Agri e Pertusillo – spiega l’ingegnere Auletta – non ci sono dati che evidenzino la contaminazione delle acque rispetto ai limiti di legge”.

«Se pensiamo che l’uomo possa tornare a essere non il centro o il padrone ma «la misura di tutte le cose»

(un testo preziosissimo di Piero Bevilacqua)

Viviamo certamente e da spettatori spesso impotenti, nell’epoca dei paradossi. Se ne potrebbe stilare un elenco esemplare. Uno di questi, davvero clamoroso, è la foga di accumulazione di nuovi beni da parte dei contemporanei. Una bulimia consumistica che crede di acquisire, di impossessarsi, di conquistare, e invece non si accorge di quante perdite va accumulando nel suo vorace avanzare.

L’agricoltura del nostro tempo è un ambito eccellente per scorgere il vasto continente di beni perduti mentre ci si schiude al presente un’abbondanza da sovrapproduzione. Ricade nell’esperienza di tutti. Mai, in nessuna epoca del passato, i banchi dei mercati, al chiuso e all’aperto, erano stati così traboccanti di verdure, di legumi, di frutta. Un’abbondanza abbagliante. Eppure essa maschera un grave processo di impoverimento generale. L’abbondanza in bella mostra è solo di quantità, non di qualità e soprattutto non di varietà. Pensiamo alla frutta, che è il bene agricolo più familiare ai consumatori.

Certo, oggi la velocità dei vettori di trasporto e la rete del commercio internazionale ci mettono a disposizione anche i frutti tropicali che non crescono nei climi delle nostre campagne. Ma le mele e le pere che mangiamo correntemente, quelle che dominano il mercato, si esauriscono in quattro, cinque varietà, come le Golden, le Gala, l’Annurca, le Renette e, per le pere, l’Abate Fetel, le Decane, le William, le Kaiser e poche altre. Da tempo vivaisti e amatori hanno rimesso in circolazione un po’ di varietà antiche.

Quel che qui si vuol ricordare è che fino a poco più di mezzo secolo fa, le varietà sia di mele che di pere, susine, ciliegie, ecc, erano centinaia e centinaia, non solo sui banchi del mercato, ma nel paesaggio delle nostre campagne. Costituivano il frutto secolare della straordinaria produttività biologica della natura modellata dalla creatività e dal genio di infinite generazioni di contadini.

La perdita, però, non è solo di ordine materiale. Non è solo un vasto patrimonio genetico, accumulato in millenni di storia, che è stato rovinosamente intaccato per far posto a un’abbondanza seriale e senza qualità. Non meno grave è la mutilazione estetica e culturale che abbiamo subito. La varietà della piante coltivate costituiva anche la condizione della varietà e ricchezza del nostro territorio.

Sotto il profilo del paesaggio agrario il Bel paese – quello oggi in gran parte cancellato dalle uniformi e monotone piantagioni industriali – si identificava con l’agricoltura promiscua della società contadina. Un paesaggio vario e multiforme, in cui si alternavano i seminativi al frutteto, il pascolo all’uliveto, l’orto alla macchia. La varietà era componente intrinseca della bellezza.
In Italia la fuoriuscita dalla penuria e dalle fatiche della società contadina – mai abbastanza lodata per le sue componenti di umana liberazione – ha reso tuttavia insensibili i contemporanei di fronte alle gravi perdite di beni immateriali che si andavano nel frattempo accumulando.

Chi non ricorda la solitaria lamentazione di Pier Paolo Pasolini per la «scomparsa delle lucciole»? Oggi la rammentiamo soprattutto perché quella scomparsa era un segnale dell’inquinamento provocato dall’avanzare della chimica nelle nostre campagne. Ma Pasolini recriminava però una perdita più grande e struggente: la scomparsa di una visione del mondo notturno, il buio formicolante di migliaia di lumi che parlava alla fantasia di chi osservava, che aveva popolato per millenni l’immaginario delle popolazioni contadine.

Non costituiva una perdita rilevante la privazione di quella umana esperienza fatta di fascino, fantasticheria, incanto, poesia, che si dileguava per sempre?
Ma l’avanzare dell’agricoltura industriale ha prodotto una perdita culturale gigantesca e assai meno visibile di quella del paesaggio. Nel 1983 un autorevole storico inglese, Keith Thomas nel suo Man and the natural world (Einaudi, 1994) rivelò , e forse fu il primo storico a farlo, la mirabolante conoscenza che i contadini inglesi ed europei avevano della infinita varietà delle piante presenti nelle campagne in età moderna.

Prima della classificazione tassonomica operata da Linneo nel XVIII secolo, che esemplificava l’intricata foresta di nomi di piante e animali, designati con nomi locali, gli agricoltori possedevano una sapienza vernacolare delle piante che noi oggi stentiamo a percepire. Col tempo la riduzione della biodiversità naturale e di quella agricola si è accompagnata alla perdita del patrimonio di cognizioni e di parole che l’accompagnava e l’aveva trasmesso nel corso di millenni.

Insieme alle varietà della flora e della fauna si sono a poco a poco estinte anche le parole, il ricchissimo dizionario che aveva tessuto la lingua geniale che le aveva catalogate e che le faceva quotidianamente vivere nelle comunità. Un processo di perdita giunto fino ai nostri giorni, che non è stato solo di parole, ma come al solito anche di immaginario, di senso, di emozioni, di rapporto della mente con le cose, di relazione tra il corpo umano e le altre creature viventi.

Una vicenda di desertificazione del sopramondo fantastico che accompagnava la vita quotidiana che oggi possiamo certificare in tutta la sua ampiezza. Gian Luigi Beccaria, in un libro prezioso, un archivio della nostra memoria linguistica (I nomi del mondo. Santi, demoni folletti e le parole perdute, Einaudi 1995) ha ricordato che «Il mondo totalmente profano, il Cosmo completamente desacralizzato è una invenzione recente dello spirito umano. Sono cadute da pochissimo dalla memoria collettiva, insieme alle parole, le leggende di un ieri non lontano, radicate in una Europa cristiana fittamente gremita di racconti, con ogni momento della giornata, ogni data dell’anno che traeva con sé una folla di credenze e di parole che vi alludevano».

Di fronte alla sbornia consumistica, che fa da battistrada al nichilismo contemporaneo, non è oggi tempo di guardare, non con nostalgia a un passato non tutto da rimpiangere, ma alla ricchezza dello spettro dell’umana spiritualità, di cui dobbiamo sempre più tener conto in un’epoca unidimensionale di abbondanza e di sperpero? Se pensiamo che l’uomo possa tornare a essere non il centro o il padrone ma «la misura di tutte le cose».

(fonte: il manifesto, 25 maggio 2017)