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amore e morte

Un’altra storia anche nelle parole #GiornatamondialecontrolaviolenzasulleDonne

Oggi è la Giornata Mondiale contro la violenza sulle Donne, finalmente anche in Italia il tema è entrato nell’ordine del giorno dell’opinione pubblica (politica, culturale e sociale) grazie alle tante manifestazioni di sensibilizzazione e, purtroppo, alle troppe morte ammazzate. Sul ruolo della cultura in questo femminicidio continuo ne avevamo parlato qui e qui riprendendo le parole di Michela Murgia che da tempo reclama un’igiene giornalistica che sia all’altezza del problema. Oggi Michela ha scritto per La Stampa di Torino un editoriale di cui conviene farsene carico per chi (come me) con le parole bene o male ci vive e ci convive: farsene carico attraversando il problema, ovviamente, piuttosto che scavalcandolo:

Ma in questo moto evidente di sensibilizzazione è accaduto anche che i professionisti della parola – giornalisti e giornaliste, professionisti televisivi e opinionisti a tutti i livelli mediatici – poche volte abbiano sentito altrettanto forte il desiderio di riflettere sul linguaggio che racconta la relazione tra i sessi e sulle sue conseguenze.

Il modo in cui i quotidiani danno le notizie dei femminicidi è un esempio evidente di normalizzazione della narrazione violenta che riguarda i rapporti tra uomini/cacciatori e donne/prede. Delitto Passionale, Violenza Familiare, Dramma della Gelosia, Raptus di Follia: sono tutte espressioni che ripetono e amplificano l’idea che amore e morte siano apparentati, che familiare sia un complemento di specificazione della violenza, che il sentirsi traditi o deprivati la possa giustificare e soprattutto che gli esiti estremi, quelli che lasciano le donne senza vita sui pavimenti delle loro stesse case, siano gesti fuori dalla ragione, colpe senza colpevoli, buchi neri dove far svanire ogni tentativo di lettura più complessa.

È necessario che i narratori delle trame pubbliche si fermino e si riprendano la responsabilità delle parole. Occorre fare insieme la fatica di confrontarsi per provare a rivedere le storie comuni che tutti abbiamo contribuito a consolidare; solo da una nostra differente volontà narrativa può scaturire la possibilità che il futuro delle donne sia un’altra storia.

Quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?

Di chi sono i morti? Di chi li perde, di chi li uccide e anche di chi li dimentica, forse. Riflettevo qualche giorno fa con gli amici di SEL Recanati in un bella serata di bella politica sul fatto che le parole non pronunciate nei comizi siano sempre amore e morte. Sembra banale, lo so, ma non lo è: rimane la sensazione che per le più basse tragedie e le più alte poesie in politica si debba trovare una formula accomodante che eviti di centrare il punto travestendosi da analisi in improbabili sigle: coppie di fatto, omogenitorialità e diritti civili senza pronunciare “amore” e immigrazione, sbarchi, flussi o tragedie del mare piuttosto che pronunciare “morte”.

Non so se mi hanno fatto bene questi due anni e poco più di politica per la mia igiene affettiva. Non so se sia strategicamente sbagliato rinunciare alla rincorsa disperata e disperante dell’anaffettività per essere forte, coraggioso e oltraggioso quanto basta, sempre in difesa di bassezze che sono umane prima che politiche. Non so nemmeno se sia folle coltivare amicizie in un campo dove ogni apertura diventa uno spiffero buono per entrarci a piedi uniti.

Quello che so, e non è poco, è che se la politica diventa disumana e incapace di usare il vocabolario del sentimento e della speranza diventa inattiva, retorica e terribilmente lontana.

Poi a volte leggi lettere come quella del sindaco di Lampedusa di Giusi Nicolini. Le ritrovi di solito in rete o in qualche occhiello basso di un quotidiano mentre sfogli veloce la rassegna stampa insieme al caffè. Di solito sono i lamenti e gli sguardi di qualche amministratore locale (non è un caso, del resto) che precipitano fortunosamente nel cuore più sentimentale del problema, nel nocciolo da cui partire prima di costruire l’analisi, nel dolore da non dimenticare per trovare soluzioni efficaci sì, economicamente sostenibili anche ma umane. Politicamente umane. Senza commissariamenti del dolore, dell’amore e in questo caso della morte:

“Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa

Eletta a maggio, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?

Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce.

Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra.

Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa  motivo di vergogna e disonore.

In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche.

Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene  consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza”.

Giusi Nicolini