Vai al contenuto

antifascismo

Il 25 aprile? «Manifestazione non autorizzata»

liberazione-d-italia-25-aprile-1945

Notizie da un Paese con la memoria corta:

«Ieri pomeriggio, in occasione della Festa della Liberazione, alcuni “movimenti antagonisti” hanno organizzato una manifestazione “non autorizzata” nel centro storico di Potenza: al termine, la Digos ha individuato e denunciato l’organizzatore. In un comunicato della Questura è sottolineato che la manifestazione “non era stata preannunciata all’Autorità di pubblica sicurezza che, al fine di evitare problematiche sul piano dell’ordine e della sicurezza pubblica, ha comunque permesso che la stessa si svolgesse regolarmente”.

Al termine, la Polizia “ha individuato l’organizzatore che, non nuovo a queste iniziative e circondato dai partecipanti – è specificato nella nota – ha rifiutato ogni interlocuzione con gli agenti che lo hanno comunque deferito all’Autorità giudiziaria per il mancato preavviso di manifestazione pubblica e resistenza a pubblico ufficiale”.»

(fonte)

Perché non rimangano solo i buchi

In tempi di fascismo strisciante e razzismo edulcorato il 25 aprile non è solo memoria, è un comandamento.

Un particolare di un palazzo all'angolo tra via Rasella e via Boccaccio a Roma, teatro dell'attentato gappista del 23 marzo 1944  in un'immagine del 20 aprile 2015. Ancora visibili i segni delle bombe e dei colpi di mitraglia esplosi dai nazisti. ANSA/MARTINO IANNONE

Un particolare di un palazzo all’angolo tra via Rasella e via Boccaccio a Roma, teatro dell’attentato gappista del 23 marzo 1944 in un’immagine del 20 aprile 2015. Ancora visibili i segni delle bombe e dei colpi di mitraglia esplosi dai nazisti. ANSA/MARTINO IANNONE

Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell’uomo.

di Pietro Calamandrei

[..] Ma fino da allora cominciò la Resistenza: contro l’oppressione fascista che voleva ridurre l’uomo a cosa, l’antifascismo significò la Resistenza della persona umana che si rifiutava di diventare cosa e voleva restare persona: e voleva che tutti gli uomini restassero persone: e sentiva che bastava offendere in un uomo questa dignità della persona, perché nello stesso tempo in tutti gli altri uomini questa stessa dignità rimanesse umiliata e ferita. Cominciò così, quando il fascismo si fu impadronito dello Stato, la Resistenza che durò venti anni. Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile. Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 cominciarono ad uscire i primi foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell’aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c’era un caduto, il cui nome risuonava in quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda: ma era resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura e la più sconsolata.

Vent’anni: e alla fine la guerra partigiana scoppiò come una miracolosa esplosione. Lo storico che fra cento anni studierà a distanza le vicende di questo periodo, narrerà la guerra di liberazione come una guerra che durò venticinque anni, dal 1920 al 1945, e ricorderà che la sfida lanciata dagli squadristi del 1920 fu raccolta e definitivamente stroncata dai partigiani del 1945. E il 25 aprile finalmente i vecchi conti col fascismo furono saldati: e la partita conclusa per sempre.
Non bisogna credere, come qualche pietoso oggi vorrebbe per carità di patria, che gli orrori degli ultimi due anni siano stati così spaventosi solo perché il nemico era mutato: perché gli oppressori non erano più soltanto i fascisti nostrani, ma erano gli invasori tedeschi, gli Unni calati dai paesi della barbarie.
E’ vero sì, che gli ultimi due anni portano il nome di Kesselring; ma Kesselring fu l’ultimo dono che Mussolini fece all’Italia; fu l’ultimo volto di una follia che da venti anni preparava l’Italia a quell’epilogo spaventoso. Su su, regione per regione, borgo per borgo, porta per porta, la furia barbarica, chiamata in casa nostra dal dittatore impazzito, passava e livellava come una falce. […]

La Resistenza alla fine li spazzò via; ma non bisogna oggi considerar quell’epilogo soltanto come la cacciata dello straniero. Quella vittoria non fu soltanto vittoria contro gli invasori di fuori: fu vittoria contro gli oppressori, contro gli invasori di dentro. Perché, sì, veramente, il fascismo fu un’invasione che veniva dal di dentro, un prevalere temporaneo di qualche cosa di bestiale che si era annidato o si era ridestato dentro di noi: e la Liberazione fu veramente come la crisi acuta di un morbo che finalmente si spezzava dentro il nostro petto, come lo strappo risoluto con cui il popolo italiano riuscì con le sue stesse mani a svellere dal suo cuore un groviglio di serpi, che per venti anni l’aveva soffocato.

Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell’uomo. Questo fu il significato morale della Resistenza: questa fu la fiamma miracolosa della Resistenza.
Aver riscoperto la dignità dell’uomo, e la universale indivisibilità di essa: questa scoperta della indivisibilità della libertà e della pace, per cui la lotta di un popolo per la sua liberazione è insieme lotta per la liberazione di tutti i popoli dalla schiavitù del denaro e del terrore, questo sentimento della uguaglianza morale di ogni creatura umana, qualunque sia la sua nazione o la sua religione o il colore della sua pelle, questo è l’apporto più prezioso e più fecondo di cui ci ha arricchito la Resistenza.

(Passato e avvenire della Resistenza, discorso tenuto da Piero Calamandrei il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano)

Venezia_aprile_1945

Bella ciao, brutto prefetto

Non mi stupisce l’ennesimo caso di anti-antifascismo, no: ormai paragonare fascisti e resistenti mettendoli sullo stesso piano è un esercizio vanaglorioso di neofascisti senza storia. Ma non per questo mi adeguo: sono per la Resistenza, sono per l’antifascismo come dovere costituzionale prima che come valore e mi ingegno per inorridirmi abbastanza ogni volta, tutte le volte.

La vicenda del Prefetto di Pordenone però non è solamente l’ennesimo caso di “leggerezza istituzionale” sui temi antifascisti ma è soprattutto una figuraccia istituzionale della figura prefettizia. Provate ad immaginare: a Pordenone il Prefetto convoca una riunione del Comitato di Sicurezza con Questore, Comandante dei Carabinieri e Comandante della Guardia della Finanza per arginare qualche sparuto gruppo di “anarchici” (hanno detto così eppure gli “anarchici” in questo caso mi sembrano un altro eufemismo) che potrebbe disturbare la parata del 25 aprile e cosa decidono per l’ordine pubblico? Di controllare e identificare gli eventuali “molestatori”? No, grazie. Di controllare eventuali “infiltrazioni” e modalità dei disordini passati? Figurati. Di evitare le provocazioni? Sì, forse. E quali potrebbero essere le provocazioni? Cantare “Bella ciao”. Non è una barzelletta.

Ora è vero che il Prefetto è tornato sui suoi passi (si è preso i rimproveri di mezza Italia, oltre alle risate) ma che un rappresentante del Governo (che dovrebbe, per figura, essere “super partes”) possa considerare l’antifascismo in tutte le sue forme (anzi: nella sua forma canora e corale) una provocazione la dice lunga sull’ignoranza storica. E questo basta per farne un cattivo prefetto. Che poi il sindaco di Pordenone Claudio Pedrotti abbia avvallato la scelta prefettizia nonostante sia del PD può stupire solo chi non ha ancora capito che essere antifascisti oggi in Italia significa essere brigatisti culturali, per resistere in questo marcio.

Alba Dorata (e di imbecilli criminali)

In Grecia si muore di coltellate per la colpa di essere antifascista. Nonostante qualche triste quotidiano che cerca di sfumare i contorni parlando di litigi mai avvenuti, il rapper Killa P è stato ucciso perché simbolo di antifascismo.

E ce n’è bisogno, di antifascismo in tempi di crisi. Non solo in Grecia.

Per questo concedere un teatro storico di Milano come il Manzoni ad un concerto nazirock è qualcosa di più di un affitto sala.

Un impegno antifascista

La Rete Antifascista Milanese ci invia una Carta di impegno antifascista che è un impegno a vigilare sul rispetto della Costituzione. Il vostro affezionato ha aderito:

Logo_RAMCARTA DI IMPEGNO ANTIFASCISTA

Qualora fossi eletto/a il 24-25 febbraio 2013 al consiglio regionale lombardo, mi impegno:

a tutelare il carattere antifascista della Costituzione italiana;

a difendere i valori e la memoria della Resistenza da ogni attacco denigratorio o revisionista;

a sostenere le associazioni partigiane, antifasciste e dei deportati nei campi di concentramento;

a favorire le iniziative in ricordo della Lotta di Liberazione e dei suoi martiri, a partire dal 25 aprile;

a promuovere tutte le iniziative in favore della diffusione della cultura antifascista e della storia della Resistenza, in particolare nell’ambito scolastico e fra le nuove generazioni;

a battermi contro ogni manifestazione di discriminazione o intolleranza etnica o religiosa;

a rifiutare l’installazione di targhe commemorative o l’intestazione di vie o piazze a personaggi legati al ventennio mussoliniano o a ideologie che ad esso si richiamano;

a oppormi all’autorizzazione di manifestazioni in luogo pubblico a organizzazioni, associazioni o movimenti che si rifanno al fascismo e/o al nazismo, che ne propagandano le idee o ne rivalutano le figure di riferimento;

a negare, nell’ambito delle mie competenze, la concessione di spazi e sedi di proprietà pubblica a dette organizzazioni o movimenti, chiedendo altresì la chiusura di quelle già operanti.

Giulio Cavalli

No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere.

Nei miei tanti incontri con i ragazzi delle scuole non tralascio mai di ricordare loro il monito di un giovane martire della Resistenza modenese, Giacomo Ulivi, studente diciannovenne, fucilato dai fascisti nel novembre del 1944. Prima dell’esecuzione nella sua lettera agli amici scrive: «No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto ciò è successo perché non ne avete più voluto sapere». Esortazione a tutti coloro che, ancora oggi, non ne vogliono più sapere e, sfiduciati, si ritraggono dalla lotta per quel mondo diverso che noi resistenti sognavamo.

[Germano Nicolini con Massimo Storchi, Noi sognavamo un mondo diverso, Reggio Emilia, Imprimatur 2012, pp. 89-90]

appunti-partigiani-L-_em15y