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Democrazia da asporto

L’Occidente insiste nel suo approccio paternalistico e fallimentare da esportatori di democrazia, nonostante il disastro sia sotto gli occhi di tutti

No, non vanno benissimo le cose in Afghanistan e l’Occidente continua a non farci una bella figura. Per niente. Nonostante la pelosa attenzione ai drammi rimbalzati su tutti i media (perché la sofferenza, si sa, comunque rende parecchio in termini di ascolti) la situazione dell’aeroporto di Kabul smutanda la debolezza di Usa ed Europa incapaci perfino di salvare il salvabile, di imbarcare quelli che dovrebbero essere i salvati secondo gli accordi con i talebani e di riuscire a non sfilacciare le famiglie.

Negli ultimi 7 giorni almeno 20 persone sono morte nei pressi dell’aeroporto: si tratta di civili che facevano parte della massa accalcata mentre cercavano di cogliere l’occasione di abbandonare il Paese. E il numero è indicato da fonti ufficiali della Nato, presumibilmente per difetto. Migliaia di persone (secondo alcune stime Usa sarebbero almeno 20mila) tentano disperatamente di arrivare ai bordi delle piste mentre alcuni bambini per non rimanere incastrati nella calca vengono passati di mano in mano, come un feretro ancora vivo, per essere lasciati ai soldati. Dentro al dramma di un genitore che decide di scindersi dal proprio figlio perdendolo pur di salvarlo c’è tutto l’orrore di questi giorni.

A proposito di bambini: sempre di più si perdono e scompaiono. L’allarme è stato lanciato da media locali come l’emittente ‘Ariana‘, che ha raccontato la storia di una famiglia di Kabul che si sta prendendo cura di un bambino rimasto incastrato nel filo spinato e che, nonostante gli sforzi, non è ancora riuscita a rintracciare i suoi genitori. Il bambino, che ha circa 6 anni, ha dichiarato che la sua famiglia è arrivata in aeroporto per fuggire dal Paese. Apparentemente suo padre è caduto tra la folla e da quel momento in poi il bambino ha perso i contatti con entrambi i genitori. Giornalisti locali riferiscono che diverse persone stanno postando foto di bambini scomparsi all’aeroporto.

I talebani, dal canto loro, hanno gioco facile nel filtrare le persone grazie ai presidi intorno alla zona: si raccontano bastonate e ci sono diversi filmati di colpi da arma da fuoco. Alcuni testimoni raccontano che i talebani chiederebbero 1.500/2.000 euro per fare avvicinare le persone alla pista. Tutto questo mentre sono proprio loro ad accusare: “L’America, con tutta la sua potenza e le sue strutture… non è riuscita a portare l’ordine all’aeroporto. C’è pace e calma in tutto il Paese, ma c’è caos solo all’aeroporto di Kabul”, dicono. Peccato che non sia per niente così: mentre tutti gli occhi del mondo sono puntati su Kabul nelle zone rurali del Paese arrivano frammenti di notizie che raccontano violenze e addirittura rapimenti di bambini nei confronti degli afghani che hanno collaborato con l’Occidente, come ritorsione.

Biden la definisce l’“evacuazione più difficile della storia”, un’operazione “difficile e dolorosa” e intanto ha attivato il programma d’emergenza della Civil Reserve Air Fleet (Craf), richiedendo l’uso anche di aerei civili. Un piano nato 70 anni fa in piena Guerra Fredda, nel 1952, dopo il ponte aereo di Berlino del 1948, quello organizzato dalle potenze occidentali per aiutare i cittadini di Berlino Ovest rimasti isolati col blocco delle vie di comunicazione messo in atto dall’Unione Sovietica. Solo due volte si è ricorsi a una decisione così estrema: in occasione della prima guerra del Golfo nel 1991 e della guerra in Iraq nel 2002. I primi aerei di linea sarebbero già in volo e il Dipartimento della difesa americano potrebbe rafforzare nei prossimi giorni la sua richiesta.

L’Occidente intanto insiste nel suo approccio paternalistico e fallimentare da esportatori di democrazia. Nonostante il disastro sotto gli occhi di tutti non si riesce a capire che perché le democrazie attecchiscano rimangono fondamentali l’educazione, la cooperazione sociale (che è stata una fetta minuscola dell’enorme mole di soldi spesi in Afghanistan) e l’autodeterminazione. Se i soldi della guerra fossero stati divisi per ogni abitante afghano oggi ognuno di loro avrebbe preso 200mila euro: questo per rendersi conto dell’assurdità di un investimento bellico che non ha portato nessun risultato, nemmeno militare.

E da noi? Da noi si insiste con la visione ombelicale di ciò che accade e così ci ritroviamo ad avere sprecato una giornata sorbendoci chi dalle file della destra si domanda dove siano “le nostre femministe?” giusto per accendere un po’ di bile. Come scrive giustamente Michela Murgia, “non hanno tempo, le femministe, per curare anche la strana malattia intermittente del sovranismo locale, che si manifesta invocandole quando c’è da criticare gli abusi stranieri, ma sbeffeggiandole in tutte le circostanze in cui si occupano degli abusi in casa nostra”. Le femministe (e le associazione che operano lì) sono dove sono sempre state: al fianco delle donne. Il punto è che le donne afghane (come tutte le altre) non vanno “salvate” ma vanno messe in condizione di non avere bisogno di salvarsi. Ma questo è un argomento evidentemente troppo complesso per chi ha il pelo sullo stomaco di lucrare anche su un dramma del genere.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.