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È la Lega, bellezza

Lombardia in zona rossa: nonostante una mail che conferma l’invio di dati errati da parte della Regione, anche Matteo Salvini, dopo il presidente Fontana, dà la colpa al ministro Speranza. E lo seguono i governatori leghisti che chiedono una «revisione immediata delle procedure». Che finora hanno sempre funzionato

Altra giornata convulsa ieri per Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, il suo capo Matteo Salvini e la distintissima Moratti, assessora al Welfare che non sta per niente bene dalle parti della Lombardia. Mentre Salvini si sbraccia e arranca e si affanna per dare la colpa dei dati sballati della Lombardia al governo nazionale ora ci sono anche le mail che testimoniano come proprio la Regione non avesse compilato tutti i campi che doveva compilare nei moduli da inviare all’Istituto superiore della sanità, esattamente come quelli che non leggono le noticine dei contratti che firmano e poi si ritrovano la casa debba di enciclopedie.

Il 22 gennaio il direttore generale del Welfare in Regione Marco Trivelli invia una mail all’Iss che dice chiaramente:

«Gentilissimi, tenuto conto della integrazione nel flusso dati trasmesso mercoledì 20 us rispetto al flusso trasmesso mercoledì 13 us, effettuata a seguito del confronto tecnico tra Iss e Dg Welfare e relativa alla riqualificazione del campo stato clinico da assenza di informazioni in merito alla presenza di sintomi in stato asintomatico nei casi con data inizio sintomi, si chiede la rivalutazione dell’indice Rt sintomi per la settimana n.35 ora per allora. Cordiali saluti».

Quella che Trivelli chiama “riqualificazione” è semplicemente un errore. E a causa di quell’errore l’Rt della Lombardia risultava 1,4 invece che 0,88 poiché a causa del mancato aggiornamento dello stato clinico risultavano molti più sintomatici.

In un Paese normale il presidente di una Regione che commette un errore del genere (l’erronea zona rossa sarebbe costata 600 milioni alla Lombardia, di cui ben 200 solo a Milano) avrebbe provocato le immediate dimissioni dei cialtroni al governo. E invece?

Invece la Lega, per bocca del suo prode Salvini, decide di buttarsi sulla strada della menzogna e addirittura rilancia. Sentite cosa ha detto Salvini ieri: «C’è stato un clamoroso e drammatico errore di calcolo sulla pelle dei cittadini fatto dal ministero della Salute. Speriamo che Speranza sia ministro ancora per poco. Di danni ne ha fatti abbastanza». Tutto falso, ovviamente, nessuna prova a supporto della tesi, niente di niente. E se pensate che sia un comportamento solo del segretario vi sbagliate di grosso: ieri tutti i presidenti di Regione leghisti sono accorsi al fischio del padrone firmando tutti insieme una lettera in cui chiedono una «revisione immediata delle procedure» per determinare il colore dei territori in modo da «affrontare con serenità maggiore una grave situazione». Fa niente che quelle stesse procedure funzionino dall’inizio della pandemia, fa niente che solo la Lombardia abbia sbagliato mentre le altre regioni non hanno avuto problemi. Niente di niente. Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia), Christian Solinas (Sardegna), Nino Spirlì (Calabria), Donatella Tesei (Umbria), addirittura Fontana (Lombardia) e Luca Zaia (Veneto) hanno deciso di esporsi al pubblico ludibrio. Ah, a proposito: proposte? Nessuna.

È il metodo leghista: dire una bugia, ripeterla, farla ripetere a tutti gli scherani, gridarla in coro, insistere fino a ammaestrare i propri elettori; ridurre una questione tecnica a una barzelletta di propaganda; non entrare mai nel merito delle questione ma rilanciare sempre un nuovo nemico da additare, senza nemmeno passare dalla verifica dei fatti. Poi c’è il viscido gioco delle loro amicizie perverse: Matteo Salvini, quello che indossa la mascherina che raffigura il giudice Borsellino, ha avuto il coraggio di proporre Berlusconi presidente della Repubblica. Per dire cosa riescono ad essere, dove riescono ad arrivare. Ora chiudete gli occhi e immaginate al governo delle persone così.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

E gli amichetti di Trump?

Meloni e Salvini (e non solo loro) fischiettano facendo finta di niente, come se quello che è avvenuto negli Usa sia qualcosa che non li riguardi

Il giorno dopo l’assalto al Congresso Usa qui da noi si è assistito a un teatrino desolante ma significativo. Qualcosa che va raccontato perché se è vero che le violenze hanno un nome e un cognome, Donald Trump che istigato, lisciato e perfino ringraziato i manifestanti, è anche vero che gli amichetti di Trump, quelli che per 4 anni hanno fatto finta di non vedere questo tragico intercedere dello svilimento della democrazia che si professa la “più importante del mondo” sono desolanti nella loro vergogna.

Gli amichetti italiani di Trump fischiettano facendo finta di niente e intercedono come se quello che sia avvenuto negli Usa sia qualcosa che non li riguardi, sorridono alle telecamere parlando il più genericamente possibile e sperano di non essere visti mentre si infilano la testa sotto la sabbia.

Partiamo da un presupposto: gli accadimenti americani sono figli di un presidente che prima ha usato la rabbia e la violenza per racimolare voti, poi ha alimentato la rabbia e la violenza con un linguaggio e dei comportamenti della stessa pasta e rilanciando notizie false, poi l’ha condonata quando sono accaduti episodi condannabili nel suo Paese da parte dei suoi sostenitori, poi l’ha legittimata inventandosi nemici per giustificare i propri limiti di governo e infine l’ha istituzionalizzata cianciando di elezioni truccate senza nemmeno riuscire a raccogliere uno straccio di prova a supporto della sua tesi. Quelli hanno occupato i palazzi delle istituzioni perché si sentono loro stessi “istituzioni” sotto assedio. Era immaginabile che finisse così.

Ma in Italia? Giorgia Meloni lo scorso gennaio a proposito di Trump diceva che fosse «la ricetta che vogliamo portare in Italia». Ora che dice, al di là di quattro tweet sputati di circostanza in cui condanna la violenza dimenticandosi di nominare il violento? Matteo Salvini che diceva lo scorso 5 novembre «ha ragione Trump a chiedere controllino voto per voto, seggio per seggio e non escludo nulla. Vedrete che potranno esserci sorprese», che dice delle sorprese che ci sono state? Lui che diceva «vigileremo» che dice? Ma attenzione, non si tratta solo dei destrorsi che a Trump si rifanno in tutto e per tutto da anni. Che dice Di Battista, grande fan di Trump piuttosto che di «quelli golpista di Obama», come ebbe a dire? Davvero il presidente del consiglio Conte non riesce a infilare il nome di Trump nei suoi comunicati di preoccupazione? Vi ricordate Beppe Grillo che diceva che Trump e il M5s avessero “delle similitudini” celebrando l’elezione di Trump a presidente?

La leadership si misura anche nella capacità di fare i nomi e i cognomi. Non è difficile. «Trump ha responsabilità in quanto accaduto» ha detto ieri la Merkel. Perfino il presidente della Ligura Toti e il braccio destro di Giorgia Meloni ci sono riusciti. Dai, sforzatevi, su.

Buon venerdì.

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Ora non dite che sono solo quattro patrioti sballati

Si innamorano dei piromani e poi si stupiscono degli incendi. Il mondo guarda stralunato ciò che accade negli Usa, mentre si spazzano via le ultime briciole di Trump, e sembra risvegliarsi da un sonno profondo, come se non avesse avuto le occasioni per pesarne le gesta, per annusarne la violenza insita in ogni sua dichiarazione e come se avesse dimenticato la natura eversiva, fin dall’inizio della sua presidenza.

Uno stupore che stupisce e che dice molto di tutti quelli che, per anni, hanno attutito la natura criminale di una presidenza che ha basato il proprio consenso su una montagna di bugie, sul disegno continuo di complotti inesistenti, sull’identificazione perenne di qualche nemico da abbattere e non da sconfiggere.

Ora qualcuno perfino prova a derubricare il tutto a una bravata di qualche sballato patriota che ingenuamente crede di difendere il proprio Paese ma, come dice giustamente Biden, delle persone che occupano abusivamente i luoghi della democrazia non rappresentano “una protesta” ma sono tecnicamente “un’insurrezione”.

La fine ingloriosa della presidenza Trump e il giorno nero della democrazia americana sono il naturale risultato di una gestione della politica che occupa il potere mica con l’obbiettivo di governare ma con l’illusione di essere gli unici detentori della verità e con la pretesa di essere la garanzia di democrazia.

L’incendio è scoccato ieri ma ha le radici impantanate nella nascita del movimento dei Birthers, i teorici della nascita africana di Barack Obama, nei deliri di QAnon, nell’evocazione dell’uso delle armi che proprio Trump fece contro i manifestanti di Black Lives Matter (ci rimise il posto Mark Esper, segretario alla Difesa che si rifiutò di usare l’esercito), nelle parole stesse che Trump ha usato ieri con quel “we love you” lanciato agli eversori che occupavano il Congresso.

Stupirsi della violenza sulla coda della presidenza Trump, che in questi anni ha leccato tutte le frange naziste ed estremiste degli angoli più oscuri d’America, significa cadere ancora una volta nel cronico errore di non capire che la violenza delle parole genera inevitabilmente la violenza nelle azioni.

Significa non comprendere che minare le basi di una democrazia vuol dire inevitabilmente delegittimarla e offrirla in pasto a chiunque la voglia usare come arma contro il proprio avversario politico. Non è un problema solo americano: nel momento in cui l’egoismo diventa una fede ognuno si sente Stato con le proprie regole, in guerra con gli Stati che vede negli altri.

Leggi anche:
1. Il giorno più buio dell’America (di Giulio Gambino)
2. Il golpe di Trump (di Luca Telese)
2. La democrazia Usa cancellata per qualche ora, ma il vero sconfitto è Trump (di Giampiero Gramaglia)

Tutte le notizie sulle elezioni Usa 2020

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Minacciare non è una trattativa

Dopo un incontro di oltre due ore, Italia viva sigla una tregua con Conte. Ma quanto ineleganti e irresponsabili sono stati i chili di minacce e di urlacci che i renziani hanno sparato in questi giorni

Dunque il presidente Conte ha incontrato la delegazione di Italia viva e le minacce urlacciate in questi ultimi giorni (con enormi esercizi di narcisismo del solito Renzi) alla fine si sono sciolte come neve al sole. Hanno fatto un cosa semplice: hanno discusso, si sono confrontati e hanno trovato un compromesso.

I dirigenti di Italia viva dopo due ore e mezza di incontro si sono detti soddisfatti perché, ha spiegato Teresa Bellanova, «è scomparsa tutta la questione sulla governance che si voleva portare con un emendamento in legge di Bilancio, e finalmente si comincia a discutere nel merito».

In sostanza il presidente del Consiglio ha rassicurato che tutti i passaggi e tutte le proposte passeranno dal Consiglio dei ministri e dal Parlamento. Quelli di Italia viva dicono che non ci sarà più “nessuna task force” e in realtà è una mezza verità: il ministro degli Affari europei Vincenzo Amendola ha chiarito che «la struttura la chiede l’Europa, ma non sostituirà i ministeri, e il Parlamento verrà coinvolto in tutti i passaggi».

Sono anche uscite le prime bozze del Recovery plan che contengono i capitoli di spesa e gli indirizzi per i prossimi mesi. Ora verranno condivise anche con le altre forze politiche di maggioranza e poi si fisserà entro la fine dell’anno un Consiglio dei ministri per trovare il punto d’incontro per tutti.

Insomma ieri semplicemente si è fatta politica, quella che andrebbe fatta con il senso di responsabilità di chi sa di essere al governo di un Paese, soprattutto in un’epoca di pandemia. Verrebbe da pensare a quanto siano ineleganti e irresponsabili i chili di minacce e di urlacci che i renziani hanno sparato in questi giorni ritagliandosi spazio nei media. Lo so già, qualcuno obbietterà che se non avessero fatto così non avrebbero ottenuto nulla. Peggio ancora. Significa che sono una manica di dilettanti, ma tutti, tutti.

E se volete capire quanto sia più forte di loro continuare con il ricatto allora potete leggere le parole di Bellanova appena uscita dall’incontro: «Il governo deve stare sereno se fa le cose. Se no è inutile». Non riescono proprio a stare sereni e a dismettere i panni dei bulli (con un partito da 2%). E vedrete che tra poco ricominciano di nuovo, con lo stesso atteggiamento, sul Mes. Perché quando gli incapaci sono troppo irrilevanti per aprire un dibattito (irrilevanti non solo nei numeri ma anche nei modi) allora provano a convincerci che la minaccia sia una trattativa. Fanno sempre così.

Buon mercoledì.

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Tutti a restituire la Legion d’Onore. Bene, ma l’Italia è ben peggio di Macron se non ferma la vendita delle armi all’Egitto

Benissimo, Corrado Augias ha lasciato il segno restituendo la Legion d’Onore alla Francia dopo che l’Eliseo ha conferito il più alto riconoscimento del Paese al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Augias ha spiegato ieri di averlo fatto per rispetto di Giulio Regeni e per sottolineare la mancata collaborazione del governo egiziano alla ricerca della verità sull’omicidio, oltre alle continue violazioni dei diritti umani.

A ruota anche l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati, l’ex ministra Giovanna Melandri e la giornalista Luciana Castellina hanno preso la stessa decisione per contestare Macron, che tra l’altro, da parte sua, ha tentato vanamente di tenere sotto traccia il conferimento facendo sparire foto e video della cerimonia in onore di al-Sisi.

Ha ragione Luciana Castellina quando scrive che la vicenda “costituisce un dolore per chi come me, e tanti italiani, si sente così legato alla Francia. È una brutta pagina della storia di questo Paese. Un gesto, aggiungo, stupefacente, che nessuno si sarebbe aspettato dalla Repubblica francese”.

Ora però forse sarebbe il caso di allargare lo sguardo e tornare dalle nostre parti, qui dove la procura di Roma ha svolto un enorme lavoro con quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani verso il processo ma dove anche la politica non sembra ancora in grado di prendere posizioni forti.

Insomma, il problema non è Macron. “Conte, Di Maio, cosa state facendo per avere la verità?”, ha chiesto qualche giorno fa Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, che su ciò che si potrebbe fare per esercitare le giuste pressioni sul governo egiziano ha tracciato una strada netta: richiamare il nostro ambasciatore al Cairo, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e fermare subito l’export di armi e i rapporti commerciali.

“La priorità è stata normalizzare i rapporti con il regime e curare gli interessi economici, militari e turistici”, ha detto in conferenza stampa il padre di Giulio, Claudio Regeni. La famiglia pretende “un sussulto di dignità da parte delle istituzioni, oltre le parole e le buone intenzioni”.

Il ministro Di Maio nell’ottobre 2019 aveva parlato di “conseguenze”, se non avesse ottenuto collaborazione alle indagini da parte dell’Egitto. Di collaborazione non ce n’è stata (lo scrive anche la procura): quali sono le “conseguenze”?

Lo scorso 30 novembre la procura della Repubblica egiziana ha annunciato di avere “temporaneamente” chiuso le indagini. Una fonte del governo egiziano che ha parlato al quotidiano Mada Masr ha detto lo scorso 11 dicembre: “L’Italia farà ciò che vuole, l’Egitto farà ciò che vuole, e intanto i due paesi rimarranno amici”. Forse il problema non è solo Macron, no?

Leggi anche: 1. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista) / 2. Armi, gas, diritti umani: il prezzo dell’indulgenza della Francia verso l’Egitto di al-Sisi

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Le siringhe e Arcuri

Il Commissario all’emergenza Covid ha pubblicato un bando per 150 milioni di siringhe “ad avvitamento”, molto più costose e difficili da trovare delle normali. E non si capisce il perché di questa scelta

Il super mega ultra turbo commissario Domenico Arcuri, delegato all’emergenza Covid, in qualsiasi altro luogo di lavoro che non sia quello del governo italiano avrebbe già fatto le valigie da un pezzo. Eppure nonostante i ritardi sulle mascherine, nonostante le consulenze milionarie sugli acquisti (ne parleremo nei prossimi giorni) e nonostante la barzelletta dei banchi a rotelle continua serafico nel suo ruolo, ostentando la sua solita sicumera e addirittura minacciando di querela chi fruga nei suoi affari.

Sulle siringhe che serviranno per la prossima campagna vaccinale nazionale Arcuri ha pubblicato un bando di offerta pubblica di 157 milioni di siringhe. Di questi 157 milioni ben 150 milioni dovranno essere “luer lock” (ad avvitamento) che sono più difficili da trovare, che richiedono tempi più lunghi di produzione e che costano parecchio di più.

Quando qualcuno ha fatto notare il punto (anche tra i produttori italiani che riforniscono gli altri Stati europei con le normali siringhe e che invece si sono ritrovati tagliati fuori dalla gara qui da noi) l’ufficio stampa di Arcuri ha precisato che la scelta è stata fatta perché le siringhe sarebbero «più precise e performanti». E poi ha scritto: alla redazione di Tagadà, che ha ricostruito la vicenda e denunciato questa anomalia: «Tali indicazioni sono state formulate dal Cts-Iss, in collaborazione con l’azienda produttrice e sono molto importanti», lasciando evidentemente intendere che il Comitato tecnico scientifico, l’Istituto superiore per la sanità e la società produttrice del vaccino (Pfizer) avessero dato questa indicazione.

Bene, il Cts ha dichiarato che «non è mai stato investito da quesiti relativi a vaccini, alle siringhe e alla catena di distribuzione», smentendo di fatto Arcuri.

«L’Iss non è stato coinvolto nella definizione delle specifiche tecniche sulle siringhe da acquistare», fanno sapere dall’Istituto superiore per la sanità.

Pfizer ha dichiarato che «la somministrazione richiede l’utilizzo di aghi comunemente utilizzati».

Quindi si può sapere perché sono state scelte quelle siringhe? Aspettiamo, poco fiduciosi.

Buon venerdì.

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L’audizione di Renzi getta nuove ombre sul caso Regeni: quando fu informato il governo italiano?

È successo qualcosa di importante nell’audizione di Matteo Renzi, nella veste di ex Presidente del Consiglio, di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, ritrovato senza vita il 3 febbraio 2016 in Egitto. Secondo quanto dichiarato da Renzi la morte del ricercatore friulano gli sarebbe stata comunicata il 31 gennaio, ben 6 giorni dopo la scomparsa. Ha detto Renzi: “Noi abbiamo reagito mettendo in campo tutti gli strumenti – ha detto – Abbiamo lavorato tutti insieme a livello istituzionale come una squadra. Sì, abbiamo rimpianti. Io ho pensato ‘perché abbiamo saputo questa notizia solo il 31 gennaio?’ Se avessimo saputo prima avremmo potuto agire prima”.

Peccato che l’allora ambasciatore italiano in Egitto Maurizio Massari avesse dichiarato alla stessa Commissione che l’ambasciata italiana venne informata dal professore che Regeni avrebbe dovuto incontrare, Gennaro Gervasio, il 25 gennaio alle 23.30. E a sottolineare l’incongruenza c’è anche un comunicato del Ministero degli Esteri che “precisa che le Istituzioni governative italiane e i nostri servizi di sicurezza furono informati sin dalle prime ore successive alla scomparsa di Giulio, il 25 gennaio 2016”. Non è una cosa da poco: attivarsi sin dalle prime ore della sparizione di Regeni avrebbe sicuramente permesso un intervento più tempestivo, come ammette lo stesso senatore di Italia Viva, e forse avrebbe permesso un più facile accertamento della verità.

Smentito dalla Farnesina Renzi ha voluto controbattere con una nota del suo ufficio stampa: “nel corso dell’audizione di questa mattina il senatore Renzi ha espressamente richiamato la relazione del ministro Gentiloni e del Segretario Generale Belloni come parte integrante della sua esposizione. Che la Farnesina fosse informata dal 25 gennaio alle 23.30 è vero per esplicita dichiarazione lasciata a verbale dall’Ambasciatore Massari”. Quindi secondo Renzi la Farnesina sapeva ma non aveva informato il Presidente del Consiglio. Ma è possibile che il capo del Governo non sappia che un suo concittadino all’estero risulta irreperibile?

Ma i dubbi non sono finiti: il 27 e il 30 gennaio l’intelligence italiana ha incontrato gli omologhi egiziani, che avevano già avvisato l’ambasciatore italiano della scomparsa di Regeni. È possibile che in quelle due riunioni non si sia affrontato l’argomento? Ed è pensabile che i servizi italiani (che fanno riferimento al Presidente del Consiglio) non abbiano avuto occasione di aggiornare Renzi sulla scomparsa di un giovane italiano? Tutti dubbi che hanno bisogno di essere chiariti in fretta perché nella storia di Giulio Regeni (e delle responsabilità della politica egiziana) non possiamo permetterci di avere ombre anche sulle istituzioni italiane. La morte di Giulio Regeni non merita altre macchie. Davvero, no.

Leggi anche: Regeni, la procura di Roma è pronta al processo agli 007 egiziani. Ma il governo italiano teme al-Sisi

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Tamponi privati, tamponi pubblici

Dalla Lombardia arriva una testimonianza sulla gestione della sanità e sulla difficoltà a fare i tamponi. Nel servizio pubblico, ovviamente

Mi scrive Mattia:

«Ti voglio raccontare due storie che sono strettamente connesse e che hanno a che fare con l’epidemia da coronavirus. Sono due storie che parlano di me e della mia famiglia e della gestione a dir poco folle e criminale di Regione Lombardia. La prima parte della storia riguarda la questione tamponi: mi sono contagiato, in famiglia, andando a prendere una pizza da una zia asintomatica, e ho contagiato mia mamma. Si sono contagiati, con me anche mio fratello e il mio compagno, fortunatamente tutti con sintomi lievi. E qui mi fermo, perché questa malattia ci ha spinto e ci spinge a pensare che le priorità del dolore non siano mai abbastanza: mi sento fortunato e lo sono stato, penso a chi invece non ce l’ha fatta ed è morto con i polmoni di pietra e ringrazio il destino. Ma questo non toglie la paura. E tuttavia, facendo i conti con i sensi di colpa, ho dovuto anche fare i conti con una “sanità” che non accetta più tamponi a chi non ha la febbre. Il mio medico ha dovuto mentire dicendo che fossimo ancora febbricitanti per ottenere un tampone. Inoltre, come se non bastasse, i tempi per ottenere un risultato si stanno aggirando ad oggi sui dieci giorni di attesa. E tu mi dirai “Sono tempi tecnici”, e io ti rispondo che hai ragione. Ma il problema è che i giorni di isolamento partono da quando si sa l’esito del tampone e al lavoro non ci si può tornare e si sta in attesa anche se nel frattempo si sta già facendo la quarantena. Inoltre, se il secondo tampone fosse di nuovo positivo, la Regione non ha tempo, modo, risorse di farne un terzo, quindi ti assegna ventuno giorni di quarantena e tanti saluti. Tutto questo ovviamente se si va nel pubblico, perché il privato funziona. Ma almeno si avesse la decenza allora di dire che la nostra “sanità” è all’americana, sarebbe meno ipocrita e più credibile. Dire “Signori, i “ricchi”, come in America li curiamo”, i “poveri” quando abbiamo tempo. Che poi parlarne di cosa vuol dire “ricchi”: so di gente che ha speso i soldi da parte per un tampone a 120 euro senza quasi sintomi ma per una legittima voglia di sapere. E a questa prima storia si aggiunge quella che più mi fa male: mio nonno si chiama Lucio, ha ottantanove anni e da febbraio ATS non gli concede le analisi del sangue. “Qui si fanno i tamponi” e oggi per la seconda volta lo hanno rimandato a casa. Inutile dire che mio nonno di quelle analisi ha bisogno e quindi ovviamente provvederemo a mandarlo in altri centri anche a pagamento, anche dandogli una mano con la pensione da muratore che ha e con la quale paga affitto e medicine. Ecco, ti scrivo perché c’è di sicuro una parte di rabbia, ma c’è anche tanta delusione e sconforto. E volevo condividerlo con te».

È una testimonianza singola ma che la possibilità di fare i tamponi sia diventata in molte zone una condizione che appartiene solo alla sanità privata qualche domanda forse ce la dovrebbe porre. No? Per il resto c’è poco da aggiungere. È tutto nella lettera.

Buon martedì.

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Altro che trionfo di Biden. Ancora una volta sondaggi e opinionisti hanno toppato alla grande

È ancora una volta la sconfitta della bolla. Le elezioni Usa non hanno ancora un risultato finale, ci vorrà tempo per contare tutti i voti per posta, ma l’onda blu che per mesi molti media si sono prodigati a descrivere non è sicuramente arrivata, chiunque risulti vincitore. Ed è l’ennesima lezione di un certo modo di vedere la politica, soprattutto quella degli altri, con gli occhi e con gli algoritmi di chi ci sta intorno, come se tutte le bizzarre uscite di Trump, quelle che anche molti giornali qui da noi hanno riportato con tanto clamore, fossero davvero delle irresponsabili fanfare e invece non avessero una solida base elettorale a cui parlare, da convincere, da sostenere e da cui essere sostenuti.

Accade nella politica ma accade così un po’ dappertutto: forse anche per il funzionamento stesso dei social siamo portati a convincerci che ciò che riteniamo assolutamente ragionevole sia un senso comune accettato e condiviso, ci convinciamo che la gravità che noi osserviamo in certi ragionamenti e in certi atteggiamenti sia un pensiero popolare e consideriamo gli avversari politici semplicemente una minoranza che verrà smentita dai numeri e dagli eventi.

E invece non solo non è così ma negli Usa, basta dare un’occhiata ai social, già ci sono quelli che raccontano di tentativi da parte dei democratici di manipolare le elezioni, Trump (dopo avere negato che l’avrebbe fatto) si è già dichiarato vincitore paventando già possibili brogli, l’enorme vantaggio che certi sondaggi davano a Biden è una favola che si è schiantata con questi primi risultati. Ed è una lezione politica ma è anche una lezione di giornalismo e di atteggiamento sociale: la sicumera non porta mai bene in politica, è un terreno scivoloso in cui si sono incagliati grandi firme e quello che non piace a noi (così come quello che ci piace moltissimo) non è per forza la linea di pensiero generale. Queste elezioni Usa ce lo dicono ancora una volta, comunque finirà.

E se è vero che i candidati hanno tra i propri doveri di propaganda quello di apparire certi del proprio risultato, non si capisce perché i media debbano stare al loro gioco. Ora si contano i voti, uno dopo l’altro, quelli decisivi, ma la storia che arriva dalle elezioni presidenziali americane è già molto diversa rispetto alla narrazione che avevamo ascoltato fin qui. Chissà se qualcuno, una volta tanto, confesserà di essersi fatto prendere un po’ troppo la mano.

Leggi anche: 1. Elezioni Usa. La diretta con i risultati / 2. Usa 2020 on the road: viaggio nell’America al voto

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Coprifuoco, Conte scarica la responsabilità sui sindaci, poi ci ripensa: chi decide la chiusura delle piazze?

Partiamo da un punto fermo: la situazione è difficile, mancano spesso i mezzi e gli uomini e ha fallito un po’ dappertutto la programmazione. Il gioco delle responsabilità è piuttosto complesso: le Regioni spesso non hanno mantenuto le promesse e si sono sottrate alle loro responsabilità, una certa leggerezza è stata pericolosamente sventolata da illustri medici e da opinionisti oltre che da leader dell’opposizione e la mediazione per qualsiasi provvedimento è sempre più difficile, ognuno con le sue priorità e tutto è in bilico tra il salvare i redditi e l’economia e preservare la salute.

Il governo Conte non si ritrova sicuramente in una situazione facile e i cittadini non sono più disposti, come accadeva a marzo, ad ascoltare buoni buoni le raccomandazioni del presidente del Consiglio come si ascolta un buon padre di famiglia. Pretendono risposte, chiarimenti, dati, numeri, analisi. Se si decide di bloccare un’attività rispetto a un’altra forse sarebbe il caso di sapere (e spiegare) il reale impatto che ha nella diffusione del virus, altrimenti resta la sensazione che tutto sia affidato a un esperimento continuo, come se questi mesi non ci avessero insegnato niente.

Però ieri Conte nella sua conferenza stampa ha compiuto un errore che è sintomatico del clima di incertezza, parlando chiaramente di “responsabilità dei sindaci” nel chiudere vie o piazze che potrebbero essere occasione di assembramento. Il proposito in sé ha le sue ragioni, sentiamo da anni ripetere che gli amministratori locali sono tutti bravi, efficienti, conoscono il territorio e chi meglio di loro potrebbe avere contezza di ciò che accade nelle loro città. Ma se decidi di responsabilizzare i sindaci e gli chiedi di farlo senza dare i mezzi diventa tutto molto complicato.

Solo per fare un esempio: per chiudere una piazza con cinque vie d’accesso (lo faceva notare ieri anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori) servono almeno dieci agenti. 10 agenti per una piazza. Chi li ha? Dice Conte che bisogna concedere l’accesso ai residenti e ai clienti degli esercizi commerciali: chi controlla? A Palazzo Chigi si sono accorti dell’errore e il riferimento ai sindaci sparisce dal Dpcm. Bene, sorge quindi subito l’altra domanda? Chi se ne deve occupare? Il Prefetto? Le Regioni? Chi? E poi si torna al punto di partenza: chiunque sia a doversene occupare con quali uomini e con quali mezzi? Il “federalismo delle responsabilità” che apre questo Decreto rischia di aumentare la confusione, ancora di più. E “decidere di lasciare decidere” alimenta ancora di più il caos.

Leggi anche: 1. Nuovo Dpcm, tutte le misure: cosa si può fare e cosa no da oggi / 2. La svolta del premier Conte: “Non voglio sentir parlare di lockdown” / 3. Crisanti: “Lockdown prima di Natale. Ero stato troppo ottimista”

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