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Il dramma di Valerio, suicida in cella dove non doveva stare…

Per il suicidio del detenuto Valerio Guerrieri, suicidatosi nel carcere di Regina Coeli il 24 febbraio del 2017 all’età di 21 anni, si dovrà perseguire penalmente anche la direttrice del carcere in quel periodo, Silvana Sergi, e una dirigente del Dap. L’ha deciso il gip Claudio Carini che ha respinto per la seconda volta la richiesta di archiviazione del pm Attilio Pisani. Ora si valutano le accuse di omissione di atti d’ufficio e reato di morte come conseguenza di un altro delitto, oltre all’indebita limitazione di libertà personale. Valerio Guerrieri non doveva essere in carcere, c’era scritto a chiare lettere perfino nella sentenza con cui era stato condannato a quattro mesi di reclusione in cui il giudice indicava chiaramente di trasferirlo in una Rems, la residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza che accoglie chi ha gravi disturbi mentali. Insieme alla direttrice del carcere e alla dirigente del Dap, il procedimento va avanti anche per sette agenti della penitenziaria di Regina Coeli e un medico, tutti già imputati. Il medico è accusato di omicidio colposo per non aver controllato in cella il ragazzo sottoposto «alla misura della grande sorveglianza».

La vicenda di Valerio Guerrieri, ennesimo morto per malagiustizia, inizia alle dieci di sera di venerdì 2 settembre del 2016. Valerio è fermo con la sua moto ai bordi del Grande raccordo anulare di Roma, una pattuglia della Polizia lo nota e accosta ma il ragazzo non risponde e riparte immediatamente: un inseguimento che dura 30 chilometri e che coinvolge cinque volanti della Polizia e che si conclude con la caduta del motociclista. Trasportato d’urgenza all’ospedale Sant’Andrea viene arrestato per «resistenza, lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato». Il ragazzo dice di non ricordare nulla e di non avere la patente. Viene condannato agli arresti domiciliari.
Non è una vita facile quella di Valerio: già a cinque anni i genitori decidono di chiedere aiuto al centro di tutela salute mentale e riabilitazione in età evolutiva di Ostia perché le maestre dell’asilo osservano strani comportamenti.

Nel 2009 era stato ricoverato al reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico di Roma dove gli viene diagnosticata «una personalità borderline con lievi tratti psicomaniacali». A quattordici anni comincia a prendere psicofarmaci, viene mandato alla comunità terapeutica Casetta Rossa di Roma e segue un percorso terapeutico che dovrebbe aiutarlo. Poi nel 2010 viene trasferito alla comunità Lilium, in provincia di Chieti, nel 2011 è a Villa Letizia, un centro romano che si occupa di problemi psichiatrici. La sua è una vita passata tra farmaci e le evidenti difficoltà famigliari. Il 1 maggio del 2012 lo arrestano mentre cerca di rubare una Vespa e viene portato al carcere minorile di Casal Del Marmo e poi ai domiciliari a Villa Letizia. Secondo il racconto della madre sarebbe proprio lì che il figlio conosce uno dei capi della banda della Magliana che gli insegna a rapinare i supermercati. La sua vita continua tra ricoveri, arresti e Tso affidato ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), fughe e nuovi arresti.

Nel 2015 gli tocca l’ospedale psichiatrico giudiziario, il manicomio criminale, a Secondigliano. Esce il 1° dicembre del 2015 perché tutti gli Opg in Italia devono chiudere per legge. Finisce in una comunità aperta a Rocca Canterano, nei pressi di Subiaco, ma scappa di nuovo. In quel periodo prende 9 psicofarmaci al giorno. Valerio interrompe le cure, di nuovo, e di nuovo è Tso. È una storia piena di dolore. In un’intervista rilasciata a Internazionale l’anno scorso la madre raccontava che Valerio «passava le giornate ciondolando per casa, pareva uno zombie». Arriviamo alle battute finali di questa storia: dopo l’arresto del settembre 2016, nonostante le disposizioni del giudice, Valerio viene spedito a Regina Coeli, 946 carcerati in quel periodo, il doppio di quelli per cui c’è spazio.

Il 16 febbraio scrive una lettera al fratello: «Ciao frate’ ti scrivo adesso 9.40 del mattino ti scrivo soltanto per dirti che mi dispiace x tutto io qui sto impazzendo non ce la faccio più ma vabbè me la so cercata (…) veramente ora son stanco di mangiare di fare qualunque cosa di scappare basta se io me ne vado x sempre penso che voi non sentirete la mia mancanza voglio andarmene per sempre quindi ora ti lascio con la penna ma non con il cuore ciao fratellone mio ci rincontreremo stai ar ciocco addio!?!?». Otto giorni dopo si uccide impiccandosi in bagno.

I compagni di cella raccontano che aveva preparato il cappio nel giorno precedente. Nella richiesta di rinvio a giudizio a carico di due medici e sette agenti di polizia penitenziaria il pm Pisani chiede la condanna per omicidio colposo per non aver sorvegliato e controllato il ragazzo come bisognava fare, e cioè ogni 15 minuti e con visite psichiatriche quotidiane. Contemporaneamente, Pisani ha provato ad archiviare le indagini sulla direzione del carcere e del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap): secondo il magistrato avrebbero agito con negligenza ma non con dolo ma ora arriva la decisione del gip. Una cosa è certa: il suicidio di Valerio Guerrieri è l’ennesima storia di uno Stato che usa il carcere come discarica sociale, un luogo dove rinchiudere qualsiasi forma di devianza, dai poveri ai tossicodipendenti fino ai malati psichiatrici. E così le carceri scoppiano e si moltiplicano i casi di suicidi di persone che avevano bisogno di cure, prima che di detenzione, e invece sono state lasciate sole. Come racconta la storia di Valerio.

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Esclusivo TPI – Beppe Sala risponde alla lettera del M5S: “Dialoghiamo per la Milano del futuro”

TPI pubblica in esclusiva la lettera scritta dal sindaco di Milano, Beppe Sala, in risposta a Massimo De Rosa, capogruppo del Movimento 5 Stelle lombardo, che ieri – sempre in esclusiva su TPI – aveva a sua volta indirizzato una lettera al primo cittadino milanese in cui auspicava un confronto sui programmi per combattere insieme le destre.

La lettera del M5S lombardo muoveva dalle dichiarazioni fatte nei giorni scorsi da Sala sui Cinque Stelle (li aveva definiti “poco competenti“). Nel 2021 nel capoluogo lombardo si terranno le comunali e proprio qualche mese fa il sindaco di Milano aveva incontrato il garante del Movimento Beppe Grillo.

Esclusivo TPI – La lettera di Beppe Sala al M5S lombardo

“Caro Massimo,
ho letto con attenzione la tua lettera. Il Movimento 5 Stelle è un soggetto vivo, complesso e variegato. L’altro giorno, quando ho fatto riferimento al tema delle competenze, ho semplicemente sottolineato che i milanesi le apprezzano e le pretendono dalla politica, ma non intendevo certo denigrare o sottovalutare un movimento giovane che sta facendo esperienze importanti e passi in avanti nella formazione dei suoi gruppi dirigenti.

Come sai, ho sempre guardato con rispetto la strada intrapresa dal Movimento 5 Stelle e non è un mistero che già in tempi non sospetti io auspicassi un dialogo virtuoso tra il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle. Lo dicevo proprio perché ero consapevole che su tanti temi l’elettorato di sinistra e una parte consistente dell’elettorato del Movimento si “parlassero” già, tanto da essere spesso vicini e persino coincidenti. Condivido ciò che dici sulle competenze: esse passano sicuramente dalle battaglie che si fanno, ma anche dalle esperienze e dalle capacità personali, che si formano nel percorso di vita di ciascuno di noi.

Noi riteniamo di avere le idee chiare sulla Milano del futuro, ma ciò non toglie che vogliamo confrontarci rispetto alla costruzione di una città policentrica e in continuo dialogo con le metropoli europee, una città che valorizzi sempre di più il lavoro e che accompagni, con azioni coraggiose e di medio-lungo periodo, la transizione ambientale e la transizione digitale. La nostra amministrazione in questi anni è andata in questa direzione.

Su questi argomenti come su tanti altri ascolterò con piacere le vostre proposte. Confrontiamoci, come peraltro spesso già avviene in Consiglio Comunale, per il bene della città, anche se non siamo parte della stessa coalizione.

Parliamoci, pubblicamente, sui tanti temi che riguardano il futuro dei milanesi. Dialoghiamo, consapevoli delle differenze e dei rispettivi ruoli ma anche dei punti e valori che ci vedono uniti: questo sarà davvero utile per la nostra città, più che ogni discussione a tavolino sulle alleanze elettorali”.

Leggi anche: 1. Esclusivo TPI – Milano, la lettera del M5S a Sala: “Confrontiamoci sui programmi contro le destre”; // 2. L’unico governo oggi possibile (di Giulio Gambino)

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Ecco a voi i nuovi sovranisti: ignoranti individualisti e negazionisti che cianciano di dittatura sanitaria

Non sono scettici come vorrebbero definirsi, quello sono altro e sono sale della democrazia: questi sono negazionisti veri e propri, gente che propone tesi contrarie a quelle della comunità scientifica con il solo gusto di andare controcorrente, non hanno nemmeno idee proprie: prendono quelle che secondo loro vanno “per la maggiore” e le invertono, stupidamente, rivendicando le proprie tesi come legittimate dalla ribellione senza nemmeno prendersi la briga di portare prove a sostegno. Provate a ascoltarlo un negazionista: vi dirà di non credere ai virologi che vanno in televisione (perché sono tutti pagati dai famosi “poteri forti” che lui combatte su Facebook, dice) ma in realtà vorrebbe applicare alla scienza un metodo non scientifico, vorrebbe essere pilota di Formula 1 senza patente.

Ma la piazza di oggi a Roma intanto ha già dato alcune risposte: oggi il vicesegretario di Forza Nuova Giuliano Castellino insieme ai suoi amici camerati hanno addirittura presentato il loro “governo di salvezza nazionale” che dovrebbe tirarci fuori dalla pandemia: Carlo Taormina, nominato ministro della Giustizia, l’ex avanguardia Nazionale Vincenzo Nardulli (Sport e tifosi) (condannato in primo grado, insieme a Castellino, a cinque anni e sei mesi per aggressione), e alla Difesa per non farsi mancare niente Leonardo Cabras, il coordinatore di Fn per l’Italia centrale, quello che oltre a negare il Covid ci aveva anche raccontato che nei campi di concentramento nazisti c’erano i cinema e le piscine. Eccolo lo spessore politico e culturale.

Del resto sono i nuovi sovranisti, quelli che ci dicono che vorrebbero difendere la Patria ma hanno come unica patria l’Io, il farsi i fatti propri, tutti turbospinti (come direbbe l’altro complottista, il filosofo Diego Fusaro) a un individualismo legittimato e addirittura doveroso. Vorrebbero essere dubbiosi e invece sono solo ignoranti individualisti che reclamano la “dittatura sanitaria” e sono innamorati persi dei dittatori. Usano la paura per racimolare un po’ di consenso e in mancanza di argomenti si gingillano nel negare gli argomenti degli altri. Sono quelli che hanno paura di essere spiati e lo scrivono sui social, sono quelli che ancora non ci hanno spiegato cosa ci guadagnerebbe un governo nel mettere in ginocchio la propria stessa economia.

E sono pericolosi, moltissimo, perché se uno vuole essere scemo non c’è nessun problema ma se danneggia gli altri allora diventa un pericolo anche per gli altri. Anche per quelli che stanno facendo sacrifici.

Leggi anche: No Mask e sovranisti scendono in piazza a Roma: la diretta della manifestazione | DIRETTA

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Sucidi in carcere: 20 volte in più della popolazione libera, ma la politica fa finta di niente…

L’ultimo è di qualche giorno fa: un ragazzo ventiduenne suicida nel carcere di Brescia in una vicenda da chiarire in molti suoi particolari. Il giovane era caduto in un forte stato depressivo dopo avere denunciato le violenze sessuali subite da un imprenditore che gli offriva capi d’abbigliamento in cambio di prestazioni sessuali. La Procura di Brescia proprio in questi giorni stava chiudendo le indagini ma il giovane si è tolto la vita nella sua cella.

Ma i suicidi in carcere continuano a essere una tragedia silenziosa che si ripete con feroce regolarità. Il 2 ottobre scorso si è tolto la vita Carlo Romano, detenuto a Rebibbia da sei mesi: aveva 27 anni e conclamati problemi psichici che l’avevano già spinto a tentare il suicidio e per questo era passato alla sorveglianza a vista che gli era stata revocata proprio il giorno precedente. La Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni sottolinea che si tratta dell’ennesimo caso di una persona «che forse poteva essere curata all’esterno». Lo scorso 28 settembre è toccato a un uomo di origini albanesi che era in attesa di giudizio nel carcere di Bologna, il compagno che condivideva la camera con lui non si sarebbe accorto di nulla. Solo il giorno precedente, il 27 settembre, nel carcere di Castrovillari (CS) un detenuto marocchino ha approfittato del cambio turno della polizia penitenziaria per impiccarsi con un lenzuolo. Nella notte tra il 29 e il 30 agosto si è impiccato nella sua cella, dove si trovava solo, Omar Araschid, di origini marocchine, era recluso nell’area dei “sex offenders” e avrebbe nuovamente guadagnato la libertà nel 2021.

Il 27 agosto nel carcere di Pescara il 63enne Dante Di Silvestre aveva ricevuto da due giorni il diniego di lavorare fuori dal carcere dal magistrato dell’Ufficio di sorveglianza, per lui è stato un colpo durissimo, ha messo da parte gli effetti personali e un biglietto per la moglie e approfittando del regime di semilibertà che gli era stato riconosciuto per il suo comportamento esemplare, nel cortile del carcere ha utilizzato una corda che usava per il lavoro e si è impiccato a una sbarra. Di Silvestre era in carcere dopo la sentenza definitiva a 11 anni, con i benefici di legge aveva già scontato quasi metà della pena e aveva ottenuto la semilibertà. Poi, ancora: a Milano un 42enne algerino era stato fermato per tentato furto, era in una stanza da solo in Questura in attesa di fotosegnalamento. Si è tolto la maglietta, l’ha legata alle grate della finestrella della stanza vuota e l’ha stretta al collo. Quando gli agenti l’hanno trovato era già troppo tardi. Il 20 agosto si è impiccato al carcere Pagliarelli di Palermo Roberto Faraci, 45 anni, entrato in prigione da pochi giorni, anche lui sfruttando il fatto si essere stato lasciato solo.

È una moria di storia e di persone impressionante, che si ripete con cadenza mostruosa. Il 19 agosto un suicidio nel carcere di Lecce, il 17 Giuseppe Randazzo a Caltagirone, il 12 agosto sempre al Pagliarelli di Palermo (dove sono avvenuti ben 3 suicidi nel solo mese di agosto) si è impiccato (il solito drammatico cliché) Emanuele Riggio. Il 30 luglio nel carcere di Fermo si è suicidato un 23enne, di cui dalle cronache non si riesce nemmeno a risalire al nome. Aveva 23 anni anche Giovanni Cirillo che si è ammazzato il 26 luglio a Salerno e ne aveva 24 invece il detenuto che si è ammazzato a Como nello stesso carcere dove un mese prima in un’altra sezione si è tolto la vita, impiccandosi con la corda della tuta da ginnastica, un detenuto tunisino di 33 anni. In quell’occasione erano stati i compagni di cella, di ritorno dopo il periodo trascorso all’aria, a trovare il corpo senza vita. La conta dal 17 gennaio di quest’anno (quando si verificò il primo suicidio nel carcere di Monza) a oggi è incivile: 45 suicidi dall’inizio dell’anno, tutti per impiccamento tranne 4 casi di suicidi per asfissia provocata da gas. A questi numeri si aggiungono 27 casi di morti da accertare, tutt’ora al vaglio degli inquirenti.

Secondo il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, sarebbero 1100 i tentativi di suicidio ogni anno evitati dagli agenti. Il Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere, adottato il 21 luglio del 2017, non ha rallentato la catena di suicidi: 52 nel 2017, 67 nel 2018, 53 nel 2019. La frequenza dei suicidi in carcere è di 20 volte superiore alla norma, mentre quella tra gli agenti penitenziari è 3 volte superiore alla norma e risulta anche la più elevata tra tutte le Forze dell’Ordine. Secondo il sito ristretti.it «è facile concludere che i detenuti si uccidono a centinaia (e tentano di uccidersi a migliaia) in primo luogo perché percepiscono di non essere più portatori di alcun diritto: privati della dignità e della decenza, trascorrono la propria pena immersi in un “nulla” senza fine».

Ma la notizia fatica sempre ad arrivare ai giornali e fatica infilarsi nel dibattito pubblico. Rimangono le brevi di cronaca date ogni tanto su qualche sito locale: la politica fa spallucce (se addirittura non invoca ancora meno diritti) e l’opinione pubblica è colpevolmente distratta. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri – sosteneva Voltaire – poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione»: qui la situazione è sempre nera, nerissima ma i palazzi sembrano non accorgersene.

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I numeri e De Luca

Il presidente regionale nei mesi scorsi ha alimentato la propria immagine da inscalfibile sceriffo di ferro. Ma il Covid non si combatte con i siparietti, come indicano gli ultimi dati sull’emergenza dalla Campania

Ha funzionato tantissimo il personaggio di De Luca sceriffo durante il Covid. Non solo lui, gli sceriffi ultimamente piacciono a tanti, soprattutto se si atteggiano ma poi invece lasciano fare, ma De Luca che dava al governo lezioni di muscolare arroganza e racimolava consensi con battute divertenti contro Salvini e la sua banda è diventato un trend anche sui social, anche tra i giovani: ogni conferenza stampa aveva una drammaturgia perfetta per diventare un filmato da fare girare fino allo sfinimento. I lanciafiamme da usare per sgomberare gli assembramenti, paternalismo à gogo e quell’immagine da inscalfibile sceriffo di ferro che si porta dietro fin dai tempi in cui era sindaco di Salerno.

Ieri i nuovi contagi in Campania (quelli intercettati dal tampone) erano 757, il giorno precedente 544 e se davvero dobbiamo scavare a fondo nelle responsabilità che stanno dietro i numeri (perché questo dovremmo fare, mica solo quando c’è da impallinare giustamente Fontana e Gallera) allora si potrebbe dire anche che in Campania i tamponi continuano a essere pochi, pochissimi: una media di 7.000 tamponi al giorno con un rapporto tra testati e positivi che è in continuo aumento. Con un rapporto così alto tra persone testate e positivi evidentemente qualcosa non sta funzionando e molto probabilmente qualcosa sta pericolosamente sfuggendo.

Code chilometriche di cittadini preoccupati che aspettano fino a otto ore sotto la pioggia, gente che si presenta di prima mattina per riuscire a ottenerlo, gente che infine rinuncia. La coda di fronte al Frullone, struttura dell’Asl Napoli 1, addirittura intralcia l’ingresso dei dipendenti. Eppure la Campania dall’inizio dell’emergenza ha speso in appalti qualcosa come 204 milioni tra il primo gennaio e il 30 aprile (lo dice l’Anac in una relazione depositata in Parlamento) spendendo più del Veneto, quarta regione dopo Lombardia, Toscana e Piemonte.

Dei 3 ospedali Covid solo quello di Napoli è perfettamente operativo mentre a Salerno e a Caserta tutto per ora tace mentre la Procura indaga per turbativa d’asta e frode in pubbliche forniture, in relazione alle procedure di aggiudicazione e di esecuzione dei lavori.

Insomma il Coronavirus non si sconfigge con le parole e nemmeno con i siparietti (e tantomeno negandolo) ma organizzando seriamente la solita vecchia storia delle 3 “t” che qualcuno sembra avere già dimenticato: testare, tracciare, trattare.

La campagna elettorale è finita, come direbbe De Luca “le parole stanno a zero” e forse sarebbe il caso di spiegare e di rispondere. A proposito di rispondere: il presidente della Campania qualche giorno fa ha vietato agli operatori sanitari di parlare con i giornalisti. Un po’ meno tifo, per favore, e un po’ più di governo. Perché il populismo è ammaliante per tutti, a destra e a sinistra.

Buon venerdì.

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Lo smemorato del Sussidistan

Eccolo qui, ancora, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi che come un falco rotto si lancia sul sistema Italia impartendo la sua lezione di politica dall’alto della sua (modesta) esperienza imprenditoriale e con i suoi soliti toni di guerriglia contro il Paese sociale. La sua ultima impresa, il suo ultimo bullismo lessicale è tutto nella parola «Sussidistan» con cui ha bollato l’Italia colpevole, a suo dire, di occuparsi troppo dei poveri e troppo poco delle imprese. «Aderire allo spirito dell’Ue significa una visione diversa dai sussidi per sostenere i settori in difficoltà. Nel lockdown il governo ha assunto misure di sostegno alla liquidità delle imprese e di rifinanziamento al fondo Pmi, ma i sussidi non sono per sempre, né vogliamo diventare un Sussidistan», ha detto Bonomi all’assemblea annuale degli industriali, riprendendo tra l’altro il termine già usato dall’economista del partito di Italia viva e trasformando un discorso serissimo e fondamentale per il futuro del Paese in uno slogan da macchiette.

Però ci vuole davvero un bel coraggio e tanta miopia per sostenere che il denaro a pioggia sia distribuito solo nella «logica del dividendo elettorale» nell’Italia in cui gli industriali hanno dimostrato di sapere battere cassa come forse da nessun’altra parte, tanto che al ministero dello Sviluppo economico c’è addirittura un’intera task force (un’altra, l’ennesima) dedicata esclusivamente agli incentivi alle imprese.

Forse bisognerebbe ricordare a Bonomi che già nel Dopoguerra fu lo Stato, attraverso le banche pubbliche, la Mediobanca di Enrico Cuccia e l’Iri a iniettare denaro nell’industria nazionale. Qualcuno potrebbe ricordare cosa accadde negli anni Novanta quando tutti i cittadini pagavano mutui con interessi a doppia cifra e lo Stato firmava il famoso “tasso Fiat” al 7% per aiutare l’azienda automobilistica italiana, quella che non ha avuto molti scrupoli poi a chiudere i suoi impianti italiani e delocalizzare con tanta agilità spostando tutto l’asse verso gli Stati Uniti.

Oppure si potrebbe tornare sul cronico tasto dolente di Alitalia che è stata privatizzata ma non è mai stata realmente privata nella distribuzione delle sue perdite che sono ricadute e continuano a ricadere nelle tasche dei contribuenti. Oppure si potrebbe ricordare i miliardi di euro che ogni anno arrivano come contributi indiretti o come sgravi fiscali all’industria del cemento che formalmente vanno a favore dei cittadini sotto i fantasiosi nomi di sismabonus, ristrutturazioni, rifacimento terrazze e soprattutto come bonus facciate ma che di fatto servono ad alimentare un settore in crisi profonda anche di idee che senza aiuti di Stato sarebbe fermo al palo. Dice il segretario Cgil Maurizio Landini in un’intervista a La Stampa che «il Sussidistan è quello delle aziende che vivono di contributi pubblici. Tra il 2015 e il 2020 alle imprese sono andati sussidi per più di 50 miliardi. E più di un terzo dei 100 della manovra del 2020. Una cifra consistente, una parte è prevista anche nella manovra più recente. Sono sussidi per incentivare assunzioni, sgravi fiscali, aiuti di ogni genere. Noi chiediamo di uscire dalla logica degli aiuti a pioggia per una nuova politica industriale che incentivi a creare lavoro di qualità e non precario innanzitutto per giovani e donne».

Il tema vero di questa epoca politica è che è in corso un attacco sconsiderato ai poveri e alla povertà (non certo per sconfiggerla con redditi decenti), che si camuffa come critica politica al Reddito di cittadinanza e a Quota 100 ma che sostanzialmente punta a spostare i soldi del prossimo Recovery fund sulle imprese che non vogliono perdere la propria occasione di sedersi al tavolo e di dividersi una bella fetta della torta. L’avevamo già scritto qualche numero fa proprio su queste pagine (vedi Left del 26 giugno, La democrazia secondo Confindustria, ndr): Confindustria ha lanciato Bonomi nell’agone politico con l’evidente obiettivo di succhiare più soldi possibili dai (molti) soldi che arriveranno dall’Europa. Solo questo. Tutto qui. E il trucco di non distinguere i piani del rilancio industriale da quelli della lotta alle povertà è astutamente utilizzato per confondere le acque.

Infine il prode Bonomi si lancia anche nella sconclusionata proposta di fare pagare l’Irpef direttamente ai dipendenti in nome di una “semplificazione” che non si capisce esattamente cosa porterebbe: in un Paese dove l’evasione fiscale costa 107 miliardi all’anno (metà del Recovery fund) e con la scandalosa statistica che ci dice che il 93% dell’Irpef è pagato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati la proposta suona come un sottilissimo invito a investire in quelle stesse modalità che da anni azzoppano le casse pubbliche con l’enorme “fantasia fiscale” di una certa parte dell’imprenditoria italiana.

Un fatto però suona chiaro e cristallino: nel Paese dei capitalisti senza capitali che fanno imprenditoria con i soldi degli altri (o con i soldi pubblici) Carlo Bonomi si presenta con tutti i ghingheri che servono per apparire il perfetto protettore di un certo padronato che ha nel vocabolario del futuro solo una parola: soldi, soldi, soldi.

L’editoriale è tratto da Left del 9-15 ottobre 2020

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Morto di pacchia. A 15 anni

Abou aveva 15 anni. Portava addosso sulla pelle le cicatrici delle torture subite in Libia. Era denutrito. Era disidratato. L’Open Arms l’aveva salvato nel Canale di Sicilia. È una storia ordinaria delle disperazioni in mezzo al Mediterraneo. Il 18 settembre viene trasbordato insieme ai suoi compagni nella nave “Allegra” per la quarantena. Racconta la sua tutrice assegnata dal tribunale dei minori, Alessandra Puccio, che il ragazzo non parlasse già più, fortemente debilitato: «Solo il 28 un medico se n’è accorto, ma era già troppo tardi. E da quel momento è stato un precipitarsi di eventi, fino alla sua morte, avvenuta oggi all’ospedale Ingrassia», racconta a Repubblica.

Il 28 settembre lo visitano, lo rivisitano anche il giorno successivo e il 30 settembre finalmente viene ricoverato in ospedale. È disidratato, non collabora, non parla. Il giorno dopo entra in coma, viene trasferito dal Cervello di Palermo all’Ingrassia. Il 5 ottobre Abou muore. Ora si muove la Procura per accertare eventuali responsabilità e omissioni di soccorso. C’è da capire come possa un quindicenne torturato rimanere su una nave in quelle condizioni e se gli siano state offerte tutte le cure necessarie.

Qualche giorno fa Matteo Salvini ospite della pessima trasmissione di Mario Giordano parlò dei migranti che vengono parcheggiati nelle navi quarantena usando queste esatte parole: «Giordano, ti stanno guardando da una delle 4 navi da crociera, i tremila immigrati clandestini che sono sbarcati e hanno vinto il biglietto premio di 4 navi da crociera a spese degli italiani è una cosa che mi fa imbestialire». Abou quindi probabilmente è morto “di crociera”, oppure è morto di pacchia.

Abou non aveva i genitori, è uno dei tanti minori non accompagnati che arriva sulle nostre coste. Abou è morto in un luogo in cui si riteneva al sicuro. Abou è morto nel giorno in cui il governo dichiarava di avere superato i decreti sicurezza, stando sempre sulla linea criminogena di chi salva le vite in mare. Sarebbe da raccontare a tutti la storia di Abou, per fare cadere una volta per tutte questa feroce narrazione che continua a trattare le disperazioni come se fossero un gioco.

Buon mercoledì.

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L’ex senatrice leghista e quell’idea malsana di una mafia “coraggiosa e sensibile”

Sapete chi da sempre porta avanti la narrazione della mafia “buona” e che “aiuta i più deboli” e che “non fa male ai bambini” e tutta quella serie di cretinate che ogni tanto ci vengono propinate per romanticizzare un fenomeno che non è nient’altro che una montagna di merda? I mafiosi. Sono i mafiosi che si sono inventati la mafia “per bene” e sono i colletti bianchi che spesso nel corso della storia si sono ingegnati per farcela passare come qualcosa che sostituisse lo Stato in mancanza di Stato.

Perché la mafia, tutte le mafie, è per natura la contraddizione di una democrazia: nelle mafie conta l’appartenenza, nelle mafie l’essere soggiogati a qualcuno di più potente è una condizione naturale, nelle mafie si usano i bisogni per trarne profitto e per stringere nuove servita.

Una mafia coraggiosa e sensibile è un’idea talmente malsana che si potrebbe trovare trascritta solo nelle intercettazioni di qualche banda di picciotti che chiacchierano tra loro. Per questo la frase dell’ex parlamentare leghista che dal palco della manifestazione “Io sto con Salvini” è particolarmente grave ma è anche la sindone di un certo modo di intendere le cose. Ha detto Angela Maraventano: “La nostra mafia che ormai non ha più quella sensibilità e quel coraggio che aveva prima. Dove sono? Non esiste più. Perché noi la stiamo completamente eliminando… Perché nessuno ha più il coraggio di difendere il proprio territorio”.

E basterebbe solo soffermarsi sulle parole iniziali: quel “nostra mafia” che dovrebbe indicare una mafia di appartenenza e una mafia contraria, come se ci fossero mafie con cui si è avuto a che fare. E che l’assoggettamento di un intero territorio (che è quello che fanno le mafie) venga considerato un modello di difesa mostra in tutta la sua sconcertante naturalezza come l’autorità per Maraventano sia qualcosa che cuce le bocche, che uccide le persone e che controlla le economie.

Questa, segnatevelo, è la stessa che ha urlato contro il governo “abusivo” e contro “l’invasione del Paese”. Roba da pelle d’oca. Come tutti gli altri leghisti mentre interveniva dal palco Angela Maraventano indossava una maglietta con scritto “processate anche me” e dopo averla ascoltata viene da pensare che se esistesse il reato di favoreggiamento culturale alla mafia di sicuro ci sarebbe da istruire un processo. Chissà che ne pensano i famigliari delle vittime di mafia di una mafia “coraggiosa e sensibile”. Perché il prossimo comizio non lo fanno davanti a loro? E intanto continuiamo così, scivolando verso l’abisso.

Leggi anche: 1. Catania, ex senatrice shock sul palco di Salvini: “La vecchia mafia difendeva il nostro territorio” /2. Salvini e quei follower sospetti su Facebook: uno su 5 ha nome straniero e non risponde ai messaggi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Fino a ieri ha sbeffeggiato il Coronavirus ora Trump (positivo) si affida alla scienza

Non è nemmeno stato capace di twittare l’informazione esatta: il presidente USA Trump annuncia di essere risultato positivo al Covid-19 e non al Coronavirus, non riuscendo a distinguere il virus dalla malattia che sviluppa. Ma non stupisce, certo, no. Del resto è lo stesso Trump che ha sbeffeggiato (come molti altri suoi colleghi leader mondiali, spesso di una certa parte politica) il Coronavirus fin dall’inizio, annunciando al mondo che c’era troppo allarmismo e che non avrebbe certo indossato la mascherina.

È lo stesso Trump che era riuscito a farsi rimuovere un post da Facebook e Twitter scrivendo che aveva “sentito” (ha scritto proprio così, come quelli che parlano di voci che circolano al bar) che i bambini fossero immuni. Falso, ovviamente. È lo stesso Trump, ve lo ricordate, che durante una conferenza stampa consigliava ai medici iniezioni di disinfettanti e candeggina sui malati di Covid-19. Alcuni suoi sfegatati supporter lo presero addirittura alla lettera e vennero ricoverati.

Sono forti questi negazionisti a capo dei Paesi più potenti del mondo: passano dal negare al virus al suggerire cure (per un virus che non dovrebbe esistere) e infine si ammalano. Ma non è tutto, no. Trump è riuscito anche a condividere sui suoi social un tweet in cui si sosteneva che i Centers for Disease Control and Prevention avevano “tranquillamente aggiornato il numero dei morti di Covid, ammettendo che solo il 6% delle vittime riportate – circa 9000 – sono decedute davvero per il Covid”. Il resto “aveva 2-3 altre gravi malattie”. L’informazione arrivava direttamente da un seguace delle teorie cospirazioniste QAnon, gli stessi che raccontano di un network internazionali di satanisti pedofili (tra cui Hillary Clinton e Obama, tanto per capire il livello della ridicolaggine) che insieme a reti di “poteri forti” (eccallà) starerebbero agendo contro il presidente USA.

Poi si passa all’idrossiclorochina che proprio Trump ha dichiarato essere una cura valida per la prevenzione: “ne prendo una al giorno da una settimana e mezzo, cosa c’è da perdere?”, aveva dichiarato il presidente. Niente, nemmeno questo. Poi c’è stato l’annuncio di un vaccino entro la fine dell’anno (smentito da tutti) e proprio qualche giorno fa durante il dibattito televisivo Trump ha scanzonato il suo rivale Biden sull’uso della mascherina: “Ho qui la mascherina. La metto quando serve. Mica come Biden, che la usa sempre”. Probabilmente era già infetto. Intanto negli USA si registrano più di 7 milioni di casi e 208mila morti. E si è ammalato anche lui. Ben fatto, Donald. Ora, come sempre, si affiderà alla scienza che ha deriso fino a ieri.

Leggi anche: 1. Il presidente Usa Donald Trump e la first lady Melania positivi al Covid-19: “Siamo in quarantena, ce la faremo”; // 2. Chi è Hope Hicks, la consigliera di Trump che potrebbe aver contagiato la coppia presidenziale; // 3. Trump positivo al Covid, da Pence a Biden chi è esposto al contagio; //4. Slogan rimasticati, insulti e un arbitro debole: il match senza il colpo del KO tra Trump e Biden (di Giampiero Gramaglia); // 5Ecco perché queste saranno le elezioni più importanti della storia americana (di Iacopo Luzi, inviato TPI a Washington)

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Troppo Covid? Licenziato

Un dipendente di un supermercato nel lodigiano a febbraio si è ammalato e da allora ha avuto continue ricadute. Il 18 settembre riceve la lettera di licenziamento per aver superato i 180 giorni di malattia permessi da contratto. Ma il decreto Cura Italia esclude i casi di Covid

Mentre si è scatenata la caccia dei furbi del reddito di cittadinanza, opera utilissima per sparare nel mucchio contro le povertà che in questo Paese continuano a essere viste come una colpa da condannare e mica un problema sociale da risolvere continuano a rimanere taciute le pratiche dei furbetti dell’imprenditoria italiana che in tempo di Covid continua ad approfittarne per fare ciò che non potrebbe fare, in nome dell’emergenza. Lucrare sulla pandemia è un atto di cui si continua a parlare poco, troppo poco.

Una storia arriva da Casalpusterlengo, nel lodigiano, proprio a pochi chilometri da Codogno, zona rossa da cui è cominciato tutto. Lui si chiama Fabrizio Franchini, ha 60 anni e da 33 anni lavora dietro al bancone dei freschi di un supermercato, uno di quelli che ci inonda di pubblicità che raccontano i clienti come una grande famiglia. Il 21 febbraio l’Italia piomba nell’incubo Covid e Fabrizio Franchini racconta che ancora pochi clienti usavano la mascherina e i guanti, eravamo nel periodo in cui mancava ancora la consapevolezza. Otto giorni dopo il paziente 1 Fabrizio si ammala: tosse, febbre dolori e poi la fatica a respirare.

Fabrizio chiama l’ambulanza, passano 24 ore, poi corre al Pronto Soccorso di Crema, si sottopone al tampone e infine il risultato: Covid. Inizia il percorso di molti malati: ospedale, poi isolamento a casa, tutto in attesa del tampone finalmente negativo. Arriviamo ad aprile: finalmente il tampone è negativo ma i malesseri continuano, ancora controlli, gli dicono di mettersi in contatto con il medico del lavoro. Intanto, proprio a causa del Covid, Fabrizio finisce ancora ricoverato in ospedale: miocardite acuta. Gli viene prolungata la malattia fino al 12 ottobre ma lo scorso 18 settembre gli arriva una lettera dal suo datore di lavoro: licenziato. A La Stampa dice: «Sono devastato. Questo è un incubo in cui ho trascinato la mia famiglia. Per altri sei anni devo pagare il mutuo. Mia moglie lavora in una mensa scolastica e speriamo che non chiudano anche quella». L’azienda dice che Fabrizio abbia superato i 180 giorni di malattia permessi da contratto: che probabilmente si sia ammalato proprio sul luogo di lavoro e che il decreto Cura Italia dica chiaramente che il Covid non possa essere conteggiato nel periodo di comporto sembra non interessare.

C’è un altro aspetto interessante nella vicenda: da tempo il datore di lavoro “spingeva” Fabrizio a una pensione anticipata perché il suo era un contratto “pesante”. Lui aveva sempre rifiutato. Il Covid c’è riuscito. E la sua è solo una delle tante storie dei furbetti che hanno lucrato su licenziamenti, su cassa integrazione e sulla pandemia come occasione per snellire con poco rispetto dei diritti. Eppure è un tema enorme, qualcosa che meriterebbe anche una certa attenzione da certa politica. Oppure viene troppo comodo, come sempre, prendersela con i furbetti da pochi spicci. È più comodo, funziona.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.