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Tecnici dappertutto, perfino da asporto

Per capire quale sia la china che ha preso spedito il governo Draghi conviene mettere in fila un paio di cose… Come la scelta di affidare un incarico alla società di consulenza McKinsey per il Recovery Plan

Poiché sono in molti a fingere di non vedere e di non capire quale sia la china che ha preso spedito il governo Draghi allora conviene mettere in fila un paio di cose, impegnarsi ostinatamente nel controbattere ai minimizzatori o auto finti distratti che in queste ore sono tutti impegnati nel convincerci che tutto vada bene e che tutto sia normale perché basta annusare l’aria che c’è fuori per farsi un’idea sul progetto che c’è dietro.

Mario Draghi continua a rimanere sotto vuoto silenzioso nel suo caveau, mentre qui fuori si accavallano le predizioni sulla terza ondata in cui sembra di essere già finiti dentro. Che i Dpcm fossero uno strumento simbolo di “dittatura sanitaria” e che di Dpcm siamo ancora qui a dilagare ne abbiamo già scritto qualche giorno fa ma che qui tutte le regioni (se non addirittura taluni comuni) stiano andando per conto loro sembra sotto gli occhi di tutti. I vaccini continuano a mancare e anche le vaccinazioni faticano. Insomma: ci siamo liberati delle inutili primule, abbiamo tutte le mattine una bella adunata con tromba militare ma la “guerra” alla pandemia continua a sciogliersi nei rivoli di esperti dappertutto, è cambiato solo il mesto silenzio del governo.

In questi giorni si discute parecchio della scelta da parte di Draghi (l’ha scelto lui? Chi l’ha scelto? Come? Perché?) di affidare un incarico alla società di consulenza McKinsey, per aiutare il ministero dell’Economia nella fase di stesura del Recovery Plan. Destrorsi e turboliberisti ci sgridano perché ritengono questa polemica una cosa “da cialtroni”. Curioso che siano gli stessi che criticarono Conte per la sua intenzione di affidare i 209 miliardi del Recovery Plan a un gruppo di manager pescati dalle società controllate dal Tesoro. Curioso anche ricordare che un senatore toscano disse che c’era da fare cadere un governo che voleva decidere con gli esperti e ora rimane zitto zitto. Volendo vedere è anche piuttosto curioso che il governo dei competenti e dei super tecnici abbia bisogno di altri tecnici da asporto.

Pensare che il ministero delle Finanze ha anche un eccellente centro studi (a proposito di meritocrazia) e volendo ben vedere di competenze è anche pieno il centro studi di Banca d’Italia. Ma niente. Ieri Fabrizio Barca ha ricordato la sua esperienza personale: «Quando entrai nel ’98 al Tesoro – ha dichiarato in un’intervista al Fatto – insieme a tante persone di valore, provammo a liberarci di questa sudditanza strategica a consulenze di terzi, rafforzando l’amministrazione pubblica con contributi esterni, e quando necessario selezionando con cura consulenze specialistiche».

Quelli si difendono dicendo che si tratta di una consulenza praticamente gratis, solo 25mila euro e che questo dovrebbe bastare per tenerci tranquilli: peccato che il tema vero sia a quali informazioni avrà accesso la società di consulenza. Dicono: state tranquilli, è quasi gratis ma quando un servizio è gratis il prodotto sei tu, ormai l’abbiamo imparato tutti. L’ha scritto benissimo Stefano Feltri: «Nel fare consulenza a un governo, McKinsey può influenzare il contesto di regole che rendono possibile o vietano quel nuovo business, e quindi creare o meno le opportunità che poi potrà aiutare clienti aziendali a sfruttare». Non dovrebbe essere difficile per tutti questi grandi esperti di mercato, no?

A proposito di aria che si annusa: c’è un comunicato di Confindustria a proposito dello sciopero dei portuali di Genova che in un Paese normale avrebbe provocato dei brividi. «Si ricordino che una giornata di lavoro oggi costituisce un privilegio», ha scritto l’associazione degli imprenditori. Un comunicato stampa che sembra una testa di maiale lasciata appesa alla porta di casa. Il partito che avrebbe potuto alzare la voce per ora è senza dirigenza però ha dei ragazzini in tenda che si fanno fare delle foto bellissime per i loro profili social.

Tutto bene?

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Bellissime: il business delle bambine tra mascara e gloss

Pagina99 ha pubblicato un’anticipazione del libro di Flavia Piccinni “Bellissime” sul business (da 2,7 miliardi di euro) che si nutre di immagini infantili. E mette i brividi:

C’è un palco fatto da pallet di legno. Sopra questo palco c’è un telo rosso. Sopra questo telo rosso c’è una striscia di velluto anch’essa rossa, macchiata qui e lì. Sopra la striscia rossa, che ha delle strane pieghe in cui il rischio è l’inciampo, avanzano piccole scarpine rosa, bianche e celesti. Appartengono a bambine dai tre ai sette anni, che alla periferia di Napoli sognano di diventare baby miss. A ottocento chilometri di distanza c’è un parquet di legno. È dentro un loft arredato con fotografie di modelle bambine e di pubblicità. È un parquet di legno chiaro, con un pallino al centro: tutto intorno luci da studio fotografico, sul cavalletto una macchina fotografica che punta un pannello bianco.

Davanti, una bambina di sei anni. Ha i capelli castani lunghi fino al sedere. Gli occhi sono azzurri, con ciglia lunghe e scure. La piccola viene avanti a piedi nudi, decisa. Si ferma a qualche metro dalla scrivania. Inclina la testa da una parte, e poi dall’altra. Si mette sul fianco, inarca la schiena. Indossa una maglietta viola, con delle piccole ruches intorno alle maniche, e dei jeans attillati tempestati di paillettes. Ha un viso piccolo. Mascara. Phard. Rossetto. Sembra una Madonna bambina. Fa un altro passo, e poi inclina il volto maliziosa: le movenze sono quelle di un’adulta che percepisce il suo corpo e conosce cosa è la bellezza. Davanti a lei una ragazza si inginocchia. «Sorridi», le dice, e lei sorride.

I provinatori – due cinquantenni, rispettivamente direttore marketing e responsabile della pubblicità di un noto brand d’abbigliamento italiano – la studiano estasiati. Sono qui da stamattina: cercano piccole mannequin per il loro catalogo estivo, che verrà diffuso in tutto il mondo. La produzione dei canoni estetici internazionali della moda bimbo, di cui l’Italia è leader, parte da qui. «Me la fai fare una posa?», chiede l’uomo, e allora la ragazza domanda alla bimba di mettersi nuovamente su un fianco. Lei, con movimenti affettati, si posiziona sul pallino, accenna una smorfia, si gira lentamente, posiziona la gamba destra avanti e poi si volta di scatto, compiendo una sorta di piroetta. I due uomini annuiscono beati: «Brava cucciola!».

La madre, che tutto il tempo è rimasta in silenzio sulle scale, quasi invisibile, quando sente gli apprezzamenti si avvicina. È una quarantenne dai capelli scuri, pantaloni alla caviglia e giacca in pelle. «È andata bene?», domanda. La bambina sorride, le mani che si torcono dietro la schiena. La ragazza che l’ha fotografata sorride, anche i due uomini accanto a me sorridono. Poi la giovane fa un cenno rapido, e le due escono di scena.

A dare il cambio arriva una giovane mamma: tiene in braccio un bimbo di un anno, occhi azzurri e capelli riccioli, castani. «Milano», mi ha spiegato poco fa, «è il posto giusto per fare i provini. Questa mattina mi sono svegliata all’alba, ho preso il volo da Catania ed eccomi qui. Facciamo il provino e poi ripartiamo, perché mio marito ci tiene che la sera mangiamo tutti insieme. Sai, è dura, ma al Sud non esistono queste cose così particolari, e così per i casting viaggiamo molto. Io lo faccio per lui, perché lui in queste cose si sciala proprio».

È la stessa mamma che ritroverò, mesi dopo, sul set di una nota pubblicità: il bimbo infilato in un passeggino, un pacco di biscotti in mano, alle mie spalle una fila di bambine in attesa di essere truccate da una cinquantenne con i capelli neri legati in due codine, i grossi occhiali di celluloide nera, in mano un pennello per dipingere a una bimba di tre anni le gote di rosa. «Guarda verso l’alto gattina», dice impugnando il mascara.

La bambina alza un poco il visino. La donna le scuote leggermente il mento, serrato fra l’indice e il pollice. «No, gattina, lo sguardo. Non il viso», spiega, muovendole il volto. «Brava micetta», sussurra allora. «Adesso mettiamo il gloss, che dici, ti va il gloss? Così le labbra sono lucide lucide e belle belle». La bimba annuisce, e l’immagine di lei che lo specchio mi restituisce è quella di una trentenne ben tenuta.

In disparte restano le mamme. Guardano, sfogliano giornali, ogni tanto esclamano – indicando una pubblicità, puntando un redazionale – «Ma guarda chi c’è!». Il riferimento è alla loro piccola, o a quella che considerano la rivale per eccellenza. Fra questi due estremi c’è tutto il mondo della moda italiana secondo le procreatrici delle nostrane baby mannequin. Loro stesse, e l’altro.

Niente altro conta. Non conta che spesso i bambini sui set non abbiano diritto all’acqua per evitare di bagnare inavvertitamente i vestiti o di rovinare il trucco, e soprattutto per limitare al minimo le richieste di andare in bagno. Non conta che le pause, nonostante le prescrizioni di legge, siano ridotte all’osso. Non conta che i compensi siano ridicoli: ottanta euro netti per una sfilata che verrà diffusa in tutto il mondo, trecento per uno spot pubblicitario.

Non conta neppure che le prove siano estenuanti, e che a tutelare questi bambini non ci sia nessuno. Soltanto i genitori, a volte, quando non viene loro vietato l’accesso per questioni di segretezza. «Capita», mi racconta Elisa G., della periferia di Roma, madre di una bambina bellissima e molto richiesta, «che proibiscano a noi mamme di partecipare. Comprendo la paura che i fitting vengano diffusi in anteprima, ma non mi piace. Ogni volta ripeto a Emma la solita cosa: se ti chiedono di togliere le mutandine tu non lo fare, inizia a urlare e chiamami». Il dubbio sublimato dell’abuso sessuale, che serpeggia silenzioso in un mondo apparentemente immacolato e alimentato da stereotipi adultizzati, è tutto contenuto qui. Ed è mutandine. Ed è urla. Ed è chiama.

(continua qui)