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Sciopero

Che paese che s’incivilizza se c’è bisogno di stare zitti per urlare. Come mimi che urlano contro la vergogna.

SCIOPEROBLOG14LUGLIO

Lettera al Teatro che avrei dovuto studiare

criticiAmmetto che c’erano tutti i segnali per aspettarselo: un teatro così, sempre attento a non infilarsi sporcizia tra i denti e non sgualcire la piega della pettinatura. Mettici anche che non era per niente male il party tutto ossigenato e invecchiato finto con le vernici dell’ultimo “teatro civile” così glamour e chic da diventare popolare per davvvero dalla parte più eletrizzante ed economizzante del termine. Ho passato gli ultimi anni a sfilare con gli eroi concettuali della denuncia da proscenio, perchè in fondo era un segreto tutto nostro che il coraggio querelabile o pallottolabile (se si potesse dire così, come da cerimoniale, delle pallottole), quel coraggio che rischia di scolorire il fondotinta dell’arte bastava farselo intervistare e poi fingere di dimenticarlo in quinta.

Riconosco anche che sbucciarsi il cervello sulle sentenze piuttosto che i manuali di dizione, o bere duecento caffè e mezzo spritz con i giornalisti, nemmeno buoni per abbinarci un cappello tronfio o una borsa biennalina, non è drammatirgucamente abbastanza cremoso per i convivi degli attori che chissà cosa avrebbero potuto essere.

Aggiungici anche i critici, quelli che in quarant’anni di criticabilissima carriera a criticizzarsi con il carisma sotto al palato che puzza ancora dell’ultimo buffet, mettici che i critici non hanno mica bisogno di disabituarsi a volare via, adesso che si sono convinti di  uscirsi in volo così bene da credere di essere davvero in alto e a pancia in giù.

Dal finestrino della macchina blindata, mentre fischiamo lampeggiando blu appesi primitivi alle maniglie d’appiglio, il Teatro che avrei dovuto studiare mi gira lo stomaco.

Tutto un zumpapa di attori scarsi che mi capiscono, dieci volte di sottotesto ad ogni battuta.

Tutto festival di lodi che si sciolgono al sole perchè d’estate il teatro è un doposole.

Tutta una militanza che si spegne al primo colpo di tosse del prossimo bonifico.

Tutto a sinistra, e subito il giorno dopo a destra perchè lei intendeva il lato dal senso di chi guarda e comunque solo gli idioti non barattano l’idea perchè bisogna pur lavorare. Se possibile di spalle.

Intellettuali alle feste, fallotropi in tournée, nordisti al nord, sudisti al sud e centristi al momento del contratto.

Rivoluzionari nel comunicato stampa, balbettanti sul copione (per esigenze di purezza), con la lingua sulle scarpe (per una replica pagata in pizze) e infine mimi muti come da esigenze di scena.

Tutto a tessere seta e barattarla per flanella per un occhiello in terza pagina.

Tutto che mi capisce, che chissà come deve essere difficile, che è il trionfo della parola, che è il teatro che allora funziona, che se ho bisogno mi ha promesso che come un teatro che si rispetti è sempre a disposizione.

Appena finiscono di smontare l’ultimo studio di quanto piove in testa a Shakespeare o il prossimo debutto del ludico brodino dialettale.

Dal finestrino della macchina blindata, mentre fischiamo lampeggiando blu appesi primitivi alle maniglie d’appiglio, il Teatro che avrei dovuto studiare è uno sbadiglio. Muto e spento.

Cinquecento euro e stai messo a posto. (mettiamo l’attak al pizzo)

folla2Il testo è stato scritto e recitato in Piazza Mangione a Palermo il 15 Maggio per la 4 Festa di Addiopizzo

Cinquecento euro e stai messo a posto.

La frase rimbalza e lui continua a stare fallito. L’altro, invece,  è “a posto”.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

Non si riesce nemmeno a scriverla una scena teatrale per come rimbomba la frase. Chissà se almeno rimbalza sugli scaffali o si impiglia tra le gambe della sedia alla cassa, chissà come si stende o sta seduta. “Cinquecento euro e stai messo a posto” non è una frase per farci un pezzo di teatro in piazza, “cinquecento euro e stai messo a posto” è una bava. Una bava che scivola fuori dalla bocca del fallito, si secca sul  pavimento come una macchia mica dignitosa che non va più via e rimane a guardarti lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato mezza giornata e la domenica ti accompagna in tasca a portare fuori i bambini. Mano nella mano, vestito della festa, gelato e anche questo mese la dignità a posto. Un pompino da cinquecento euro alla dignità che, anche se si vende tutti i mesi, è una prostituta che costa. Un negozio con una macchia per terra e un postino fallito con la dignità degli altri rapita dentro la busta non sono personaggi che ci meritano un pezzo di teatro: sono personaggi appiattiti in una lettera. E allora eccola la lettera di questo mese. Francobollo con lo sputo, timbro a forma di cerchio e ve la leggo qui. Così per questo mese vi portate via anche la mia.

Caro picciotto, o se preferisci, visto che hai imparato a pettinarti e vestirti pulito, caro estorsore, o, se preferisci, caro esattore. E poi caro al tuo capo ufficio, quello che sta seduto a contare i soldi quando alla sera raccoglie le mesate del mandamento, quei soldi che vi auguro che vi marciscano in mano. E poi cari a tutti i falliti, perché è da falliti mangiare sulla metastasi della paura degli altri, oppure, per capirsi meglio, cari a tutti gli uomini d’onore, così ci capiamo meglio, così vi prendiamo dentro tutti e entriamo subito in tema.

Sono un commerciante di parole, a volte me le pagano bene, e arrotondo sempre il peso prima di chiudere la vaschetta. Non ho mica un negozio dove potete ballare felici la vostra danza della paura, mentre lasciate la scia del vostro onore di merda sulla serranda o tutti fieri correte dopo aver acceso il fuoco del vostro segnale da vigliacchi; sono un ambulante, non so come vi organizzate in questi casi, ma siete mediamente capaci di intercettarci. Questa sera apro la saracinesca fuori orario e vi vengo a cercare io, ma mica per i cinquecento euro così sto messo a posto, ma perché avrei, dico almeno, un paio di domande, una cosa da niente, mica per capire dove non c’è niente da capire, ma per togliermi il peso. Il peso di una curiosità che alla fine cercate sempre di farci pagare nel mercato della vigliaccheria di cui siete i detentori.

Nonno Cleto mi diceva che bisogna pagare il giusto, mio nonno Cleto era uno che portava in giro le bombole del gas con la vespa che si arrampicava in montagna. Pensava solo alle cose fondamentali, impegnato com’era a mettere in prima, seconda e fare bene la curva. Ma questa storia del pagare il giusto se la ricordava ogni volta che stava per due minuti al semaforo rosso con la frizione tirata. Non diceva pagare poco, mica diceva pagare tanto. Diceva pagare giusto. E allora, cari ricattatori delle minacce pagate a rate, cosa c’è, cosa pensate a mettervi in mano la paura in moneta? Quanto vi costa un regalo ai vostri figli con i soldi dei figli degli altri?  Quanto vi sentite uomini a rosicchiare i torsoli come i vermi con le mele appena marcite? Com’è lavorare al mercato infame della minaccia?

Cinquecento euro e stai messo a posto.

La frase rimbalza e voi continuate a stare falliti. L’altro, invece,  è “a posto”.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

L’altro, nel negozio, chiuderà a chiave senza troppa attenzione. Anche questo mese ha pagato l’affitto ad una civiltà a rate. Poi sarà sera davanti al tavolo, la famiglia, l’educazione e la responsabilità stuprata anche questo mese. Tanto è il sistema, tanto è il nostro sistema per godersi il negozio e poi chi me lo fa fare di stare a fare il rivoluzionario. Tanto la mesata la pagheranno gli altri un pezzo al giorno. Tanto è la città intorno che sconta  la macchia a forma di crosta sul pavimento dov’è coagulata anche questo mese la sua voglia di stare tranquillo. E per il resto del mese si impara subito ad alzare la serranda con la leggerezza che sia tutto meravigliosamente normale e di seta. È un gioco da ragazzi: per dimenticarti un giorno del mese hai tutte le settimane di resto. Come sarebbe triste una città, una regione, una nazione con la gente che smette di essere gente, con il cielo che si stinge, con un tumore che sottovoce esce in nero dalla cassa una volta al mese. È un angelo che balla smutandato ciclicamente, è un liquido che si secca e che non lascia impuniti. Non sarete impuniti per quel cerotto che si aggiunge di nascosto.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

La frase rimbalza e voi continuate a stare falliti. L’altro, invece,  è “a posto”.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

I falliti risalgono in macchina, con i soldi che si ristropicciano nella tasca perché  comunque c’è da essere svelti. Svelti per partire, svelti per arrivare a finire il giro prima che si chiude. Svelti perché la combriccola disonorata dei falliti d’onore possa contare, appuntare, mischiare per le mani più in alto. Con questi 50 euro che si appiccicano alle mani, che si impiastricciano sul cuore. Con questi 50 euro che puzzano così che bisogna aprire i finestrini per riuscire a starci dentro. È un brodo di sangue e letame cucinato una volta al mese per pagare l’organizzazione. Un piatto unico a prezzo fisso per il banchetto del re nudo del mandamento. I falliti con il sorriso dei falliti sulla macchina veloce e con il sorriso che si svitano alla sera prima di entrare in casa a fingere male di poter essere persone onorate.

Cinquecento euro e questo mese è a posto.

Mi piacerebbe chiedere al governatore della paura che senso danno al tatto quei mucchi sistemati male di soldi. Se non sono ruvidi di quel conato che non si lava nemmeno a stare cento volte sotto l’acqua corrente del lavandino. Mi piacerebbe vedervi in faccia mentre vi leccate il dito per contare quanto valete questo mese. Mi piacerebbe starvi in tasca per registrare le risate fiacche.

Perché sono sicuro che la sentite questa febbre che vi spaventa. Questa normalità di un no davanti alla cassa che mette in buca il vostro onore di gomma piuma.

Cari postini del re, c’è una favola che ogni tanto si racconta nelle scuole di Mafiopoli. È la favola di un formichiere che si tira su per il naso, in un paese lontano, le formiche a pranzo e le formiche a cena. Un formichiere con le formiche e il muco in testa che galleggia da imperatore per le strade del paese mentre sotto è una scia di percorsi di corsa di formiche, ognuno per conto suo che si sommerge per salvarsi. Ed ogni pranzo ed ogni cena è un flipper di zampe per sfuggire almeno per oggi al naso del despota. Raccontano nella favola che un giorno passava una zanzara, una zanzara che non era mica niente di speciale, ma che come tutte le zanzare riusciva a vedere dall’alto e mica all’altezza di un buco come il resto delle formiche abitanti della città. E come sia bastato così poco perché al mattino dopo il solito formichiere, dopo essersi lavato e i denti ed essere uscito dal suo appartamento a forma di buio, il solito formichiere trovò fuori dal suo zerbino un fiume nero, con il dorso lucido e compatto che camminava in linea. Credette fosse un incubo ma era semplicemente un gruppo. Che cominciò a salire dalle gambe per spolpargli la pancia e stringergli il collo.

Perché sono sicuro che la sentite questa febbre che vi spaventa. Questa normalità di un no davanti alla cassa che mette in buca il vostro onore di gomma piuma. Perché sono sicuro che cominciate a sentirlo questo plotone di schiene che hanno deciso di stare dritte.

Caro postino fallito, questa sera ti mando una lettera da portare al piano di sopra perché mi piacerebbe avere almeno due risposte: una lettera senza i biglietti da cento piegati dentro. Una lettera per passare un po’ il tempo senza farcelo passare dagli altri. Una lettera per sentirsi vivi. Tutti i giorni di tutto il mese.

Sono passati poco meno di 20 anni. Poco meno di 20 anni che Libero Grassi vi scriveva “…volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”.

Sono passati poco meno di vent’anni, e ne sono cresciuti di liberi se non di nome liberi per aggettivo. Sono passati poco meno di vent’anni.

Caro estortore, mentre decidi che negozio incollare appena comincia a fare notte  rimettiti pure le mani in tasca.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

La frase rimbalza e lui continua a stare fallito. L’altro, invece,  è “a posto”.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

Caro estortore, ti mando questa lettera con il bollo tutto sputacchiato. Senza soldi, sto a posto. Stiamo a posto.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

La frase rimbalza e lui continua a stare fallito. L’altro, invece,  è “a posto”.

Cinquecento euro e stai messo a posto.

Sappiamo i nomi, sappiamo le facce, vi ascoltiamo mentre decidete di incollare tutta vi dei Mille o mentre strisciate su a Milano in via Verdi. In un ponte di vermi che si spalma sull’Italia. Sappiamo dove state e sappiamo da che parte stare. Qual è il nostro di posto. Ambulanti ma con la parte chiara, la parte dove stare. Al massimo, per uscire a fare un giro, dico per divertirci, dico per stare un po’ insieme in questa notte così piena di corrispondenze, ci travestiamo da picciotti con l’onore dei clown e scendiamo anche noi, così magari ci incontriamo, tutti insieme a metterci il lucchetto e l’attak alla saracinesca del pizzo.

Carlo Rivolta

Carlo Rivolta

Mi ricordo di lui e del profumo di polvere del Teatro alle Vigne. Saranno dieci anni che lo guardavo nella sua magrezza imponente tutta voce e scheletro. Non lo avevo capito. Ci sono incomprensioni che ti cambiano la vita: entrano senza bussare, accendono una lampadina e non lasciano nemmeno un biglietto per capirsi. C’è qualcosa qui, oggi, sulla scrivania di fogli contro polvere che sbordano sul palco che è una lampadina con il profumo di Carlo sopra la platea. Con il cruccio mai cicatrizzato di non essermelo andato a cercare in tempo. Ciao Carlo, te lo scrivo adesso quando è piena anche senza la scia della notizia e del ricordo per le foto dell’ipocrisia di rito.

Teatro civile?

La vertigine mi è arrivata ad un incontro organizzato contro le mafie, dopo che si era finiti come spesso mi capita ultimamente a parlare del programma di protezione nei miei confronti per il mio spettacolo Do Ut Des, riti e conviti mafiosi: una ragazza tra il pubblico mi ha chiesto chi me l’avesse fatto fare di uscire dai binari comodi delle storielle teatrali per approfondire e scontrarmi mettendo in pericolo la mia sicurezza e quella della mia famiglia. Lì per lì devo aver avuto in faccia una delle espressioni più sconsolate del mio repertorio.
C’è un malinteso di fondo in quello che è etichettato come “il teatro civile” di seconda generazione in Italia: il mezzo teatrale si è trasformato in un alibi per mediare contenuti e posizioni. Allora forse sarebbe opportuno fermarsi tutti, operatori e critici, per riconsiderare l’obbiettivo di un’orazione civile. Perché l’onda lunga del monologo in quanto commercialmente più appetibile (in un momento nero di mercato teatrale), l’abitudine della favoletta con sullo sfondo la tragedia recente e il suo bacino di affezionati, l’umorismo facile appoggiato sulla comodissima indignazione cronica, l’impacchettamento lacrimevole da scaffale o i funerali da palcoscenico non hanno nulla a che vedere con la funzione di informazione e approfondimento di uno spettacolo  intellettualmente onesto. E così si alimenta sempre di più quel teatro da cassetta che assomiglia nei tempi e nei modi alla Beneamata tivù. Quando i famigliari delle vittime dell’incidente di Linate dell’8 ottobre 2001 hanno fatto irruzione nelle fasi di scrittura e preparazione del mio spettacolo per quella strage ci siamo subito resi conto delle unicità del modus che avevamo a disposizione: il tempo e la vicinanza fisica del nostro pubblico per chiarire (uscendo da quest’informazione commerciale tutta a spot), una faccia e un corpo per accusare guardando fissi negli occhi, un posto fisico dove prendere una posizione. Per questo mi piace pensare ad un teatro partigiano piuttosto che civile dove sia obbligo morale prendere una parte, svelare una tesi e appoggiare informazioni desuete o volutamente dimenticate: un’azione teatrale di svelamento contro la normalizzazione controllata delle opinioni e delle sensazioni. Oggi noi narratori abbiamo la grande occasione di metterci in rete con tutto quel giornalismo non normalizzato che si è definito e ha preso coscienza del proprio ruolo e diventare l’uno per l’altro strumenti di amplificazione e affilatori di contenuti. Recuperare la forza rovesciatrice delle Nuvole o della Rane di Aristofane, la giullarata non mediata dei cantastorie per far fruttare il momento teatrale come occasione ormai sempre più rara di comunicazione profondamente genuina e non manipolabile.
Non è un caso che abbia scelto come compagni di studi e scrittura per i miei spettacoli dei giornalisti, per  rispettare e non sprecare  un’opportunità difficilmente ripetibile:  un palcoscenico che si prenda il lusso di fare luce. Lasciamo i compromessi ai romanzi storici da autogrill, la strumentalizzazione lacrimevole alle trasmissioni tutte da ridere, l’esibizionismo del monologo agli onanisti d’accademia  e il racconto scorrevole alle riviste da spiaggia. Noi prendiamoci la responsabilità della fiducia di un pubblico intelligente alimentandola ad ogni battuta.

Scrivere è reato

Sulla indicibile condanna a Carlo Ruta.  Dal sito Fustigat ridendo mores.

Er giudice gl’ha detto: “Che te credi

che ner blogghe puoi scrive’ ciò che vuoi?

Tu m’attacchi le banche e pesti i piedi

puro a la mafia e a li mortacci tuoi!

Che dichi? Che er tuo blogghe è libbertà?

Ma quale libbertà  famme er piacere

la pace nostra è fatta d’omertà

e se sgarri la pigli ner sedere.

E t’aggiungo così, bello papale,

pe’ nun portare avanti ‘sta manfrina

ch’er  blogghe tuo per me resta n’giornale

e un giornale de stampa clandestina.

Quindi mo te condanno e bada bene

de rigà dritto tu e l’amichi tua

artrimenti te becchi gravi pene.

Ma chi te credi d’esse’? Gargantua?”

“Ma signor giudice, io me so’ ‘nformato

e ho cercato de fa’ conosce i fatti:

perché hanno ucciso Giovanni Spampinato

che indagava su truffe e su ricatti…”

“Ma quali truffe, fatti e fatterelli…

Mo m’hai scocciato e te lo dico chiaro,

scrivi, se vuoi, di scippi e furtarelli

nun ce provà ndove ce sta er danaro.

Ringrazziaiddio che mo me trovi bbono

e che te faccio ammettere ar condono

e nun fiatà, sinnò prima de sera

giuro, te faccio sbattere ‘n galera”

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