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Bruno Contrada

I mille rivoli del processo Mori

A Palermo si sta sbriciolando un pezzo della storia d’Italia. Giuseppe Pipitone (che segue con attenzione il Processo Mori) ne scrive proprio oggi:

L’elenco degli indagati per la Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra nel periodo 1992 – 93 si allunga. Anche il generale dei carabinieri Antonio Subranni risulta infatti iscritto nel registro delle persone indagate nell’inchiesta della procura di Palermo. La posizione del generale Subranni è stata resa nota questa mattina durante l’udienza del processo che vede imputati davanti la quarta sezione penale di Palermo l’ex generale del Ros Mario Mori e il colonnello dei carabinieri Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel 1995.

Il presidente della corte Mario Fontana ha infatti chiesto all’accusa se Subranni dovesse essere sentito semplicemente come teste o come persona indagata in procedimento connesso. “Attualmente – ha risposto il pm Di Matteo – Subranni è sottoposto a indagine in procedimento collegato a quello in corso”, ovvero l’inchiesta sul patto sotterraneo tra pezzi delle istituzioni e la mafia, su cui la dda palermitana indaga dal 2007. Subranni, generale dei carabinieri in pensione, si è quindi appellato alla facoltà di non rispondere, limitandosi a sintetizzare brevemente le inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto negli ultimi anni. A capo del Ros dal 1990 al 1993, Subranni era indagato nello stesso procedimento che ha portato alla sbarra Mori e Obinu per la mancata cattura di Provenzano. La sua posizione fu stralciata e la procura palermitana ne richiese l’archiviazione nel 2011. Appena due settimane fa, la sua posizione era stata archiviata per decorrenza dei termini anche dalla procura di Caltanissetta, che nell’ambito della nuova inchiesta sulla strage di via d’Amelio, lo aveva indagato per concorso esterno in associazione mafiosa.

Questa volta il reato ipotizzato per l’ex capo del Ros dagli inquirenti è quello disciplinato dall’articolo 338 del codice penale, ovvero violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato: lo stesso per cui risultano indagati nell’inchiesta sulla Trattativa anche lo stesso Mario Mori, il colonnello Giuseppe De Donnol’ex ministro Calogero Mannino, il medico Antonino Cinà, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Le parole che fanno riflettere sono quelle di Gaspare Mutolo: lì dentro potrebbe esserci il senso di via D’Amelio e della seconda Repubblica.

Gaspare Mutolo, l’ultimo pentito interrogato da Borsellino prima che il giudice venisse assassinato nella strage di via d’Amelio il 19 luglio del 1992. Mutolo ha raccontato che “durante un interrogatorio il dottor Borsellino mentre parlava con delle persone delle istituzioni nel corridoio gridò all’improvviso: questi sono dei pazzi, questi sono dei matti. Era disgustato e arrabbiato, era incazzato nero con personaggi dello Stato e delle istituzioni perché volevano offrire ai mafiosi una eventuale dissociazione. Sapeva che c’erano questi contatti in corso. C’erano persone delle istituzioni che avevano fatto capire di essere d’accordo. Ho capito che c’era un accordo tra i mafiosi che si dovevano dissociare in cambio di una specie di amnistia”.

Il collaboratore di giustizia ha anche ripercorso lo storico interrogatorio del primo luglio ’92. ” Quel giorno, durante il colloquio – ha spiegato – il dottor Borsellino ricevette una telefonata e mi disse che doveva andare al Ministero e che sarebbe tornato dopo poco. Tornato dal ministero il dottor Borsellino era turbato e nervoso: a un certo punto mi misi a ridere perché stava fumando contemporaneamente due sigarette, una la teneva in bocca e l’altra in mano. Dopo Borsellino mi raccontò di aver incontrato il dottor Bruno Contrada che gli aveva detto: dica a Mutolo che se ha bisogno di chiarimenti sono a disposizione. A quel punto ho capito che il mio interrogatorio, che doveva restare segretissimo, era in realtà il segreto di Pulcinella”. Mutolo fu il primo accusatore di Contrada, ex numero tre del Sisde, che sta scontando una condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari delle Vittime della strage di Via dei Georgofili, coglie il punto con il suo comunicato stampa di oggi:

Gaspare Mutuolo testimonia che il Giudice Borsellino nel 1992, poco prima di morire era sconvolto all’idea che uomini dello Stato volevano la Dissociazione per la mafia. Figuriamoci quanto ci siamo sconvolti noi quando il 3 luglio del 1996 – dalle pagine di riviste quali Famiglia Cristiana, e quotidiani importanti, abbiamo letto le parole di soggetti che invocavano una legge sulla Dissociazione. Infatti , il 12 giugno del 1996 eravamo appena andati all’udienza preliminare per la strage di via dei Georgofili contro “cosa nostra” che aveva massacrato i nostri figli e pensare ad una dissociazione dei mafiosi stragisti come fu per le BR ci sconvolse a tal punto che pensammo al tradimento per vili trenta denari. Secondo alcuni che non vogliamo neppure nominare, senza dire nulla , senza pagare il giusto prezzo in termini di rivelazioni ed economici, “ cosa nostra” poteva semplicemente dire con una norma ad hoc “non appartengo più alla mafia”. Ancora oggi inorridiamo al pensiero di ciò che abbiamo sofferto in quei momenti davanti alla richiesta di una legge che sotto il tritolo non seppelliva solo le nostre vittime, ma anche le nostre speranze di giustizia. Gaspare Mutuolo ha rinnovato oggi tutta la nostra rabbia contro chi della dissociazione concessa alla mafia con una norma, voleva fare una bandiera di garantismo e della confisca dei beni alla mafia, solo un ritorno elettorale e non il sostegno alle vittime di cosa nostra. Quello del 1996 non fu l’unico tentativo di consentire alla mafia la dissociazione, ci hanno provato oltre anche fino al 2002 e chissà quante altre volte ancora. Siamo più vicini che mai alla figura del Giudice Borsellino, che ben conosceva la mafia e così anche la politica , gli siamo riconoscenti per quanto ha cercato di fare per tutti noi. Purtroppo Borsellino ha pagato un prezzo altissimo in quel luglio 1992, come poco dopo pagheranno i nostri figli a maggio del 1993, perché Borsellino non fu ascoltato, ma ucciso.

Stiamoci attenti e prendiamoci cura di questo processo. E’ una lezione di storia.

 

Una barba di storia: Nino Agostino. Ammazzato per niente.

Durante un matrimonio, matrimonio mica da persone normali, ma tra fecce di mafia. Quei matrimoni con il sapore acre del gangsterismo e per di più nel dorato Canada. A sposarsi è Nicola Rizzuto, uomo di Cosa Nostra trapiantato nel profondo nord americano, e tra un flute di champagne e una mezza ostrica e saliva Oreste Pagano intercetta un bisbiglìo: “Ero al matrimonio di Nicola Rizzuto, in Canada. C’era un rappresentante dei clan palermitani, Gaetano Scotto. Alfonso Caruana mi disse che aveva ucciso un poliziotto perché aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura. Anche la moglie sapeva, per questo morì.” Una storia di desolazione mica normale, quella del poliziotto Nino Agostino ammazzato con la moglie Ida Castellucci a Villagrazia di Carini il 5 agosto del 1989. Con una nascitura di cinque mesi nel grembo morta prima di nascere, come quelle storie che finiscono sempre per essere di seconda mano. Perché se muori ammazzato d’agosto sulle strade che portano al mare senza favole o poesie ma solo a forma di due cadaveri e mezzo e un cespuglio folto di punti di domanda, nel nostro disperato Paese, finisce che sei pure un morto ammazzato di serie b. Nella gogna del ricordo che divora vittime come fosse un gorgo. Eppure Nino Agostino era un poliziotto di quelli che ci credono al proprio lavoro, di quelli che in missione ci sono da sempre, senza decreti di governo o premi in busta paga, in una Sicilia assolata che in quegli anni passa sui morti come fossero un colpo di sole. Eppure Nino Agostino, da vivo prima che da morto, è una storia italiana con tutti gli ingredienti della melma: un collega e (presunto amico) Guido Paolilli, oggi in pensione, che indaga sul caso e chiude il faldone parlando di “delitto passionale”. Come nelle più becere e scontate storie di pavidità d’indagine; una presunta collaborazione di Nino con i servizi segreti e un coinvolgimento nelle indagini per la cattura del boss dei boss Bernarso Provenzano; un foglietto, stropicciato, nel portafoglio in cui si legge “Se mi succede qualcosa andate a cercare nell’armadio di casa”, e nell’armadio di casa, ovviamente, arriva prima di tutti una perquisizione che verbalizza di non avere trovato nulla di interessante.

Oggi Nino Agostino è un fantasma. Un fantasma con in tasca una storia sempre troppo poco conosciuta e un serie di incroci che lambisce anche Bruno Contrada. Suo padre Vincenzo, insieme alla moglie Augusta, caracolla per l’Italia raccontando di una famiglia sparata prima ancora di sbocciare rivendicando la giustizia. Ha la rabbia degli onesti traditi senza risposte e lo sguardo lieve di chi non ha mica smesso di voler essere padre di suo figlio, e una barba lunga che gli si appoggia all’altezza del cuore che non taglierà finché non avrà risposte.

Nel calderone altisonante della mafia epica la storia di Nino e Ida Agostino é una barba di storia. Nella quotidianità della memoria esercitata la storia di Nino e Ida Agostino é una storia da tenersi in tasca. Per ricordarsi almeno quante storie ci dimentichiamo, dimenticandoci che non ce le hanno nemmeno raccontate per intero.