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Sardegna, mentre i contagi aumentano Solinas fa lo scaricabarile col governo (in stile Fontana)

Ricomincia lo scaricabarile e sarà un storia che durerà ancora per molto: mentre in Italia destano preoccupazione i casi di importazione di Covid che stanno facendo alzare il numero dei contagi giornalieri, ora le Regioni partono all’attacco del governo lamentando ritardi e incomprensioni. Sembra di essere tornati ai tempi dello scontro tra governo e Lombardia, quando il presidente Fontana chiudeva qualcosa in meno rispetto ai decreti governativi o apriva qualcosa in più tanto per farsi notare, giusto per chiarire che esistono anche loro.

L’ultimo attacco arriva dalla Sardegna e diventa ancora più incomprensibile alla luce delle testimonianze che arrivano dall’isola, dove al di là delle discoteche ormai chiuse si nota una movida (come in quasi tutte le località vacanziere) assolutamente fuori controllo. Il governatore della Sardegna, Christian Solinas, in un’intervista al Corriere della Sera chiarisce che “la Sardegna non ha mai avuto una circolazione virale autoctona”. “Tutti i casi – dice – sono di importazione o di ritorno, persone già positive testate una volta giunte in Sardegna o sardi infettati durante le vacanze all’estero”.

Come se ancora una volta il punto centrale sia quello di trovare un untore piuttosto che governare una situazione con cui si dovrà convivere probabilmente ancora a lungo, almeno fino all’arrivo del vaccino. Solinas rimarca la sua ostilità al governo: “Se il governo – dice – avesse accolto il modello che avevo proposto già mesi fa per accompagnare l’ingresso sull’isola di ciascun passeggero con un certificato che attestasse l’esito negativo del tampone, oggi non ci sarebbe la recrudescenza del virus”.

E, quando gli si fa notare che i controlli sono partiti solo ad agosto inoltrato, il governatore risponde: “Questo deve chiederlo a Roma. Quando noi lo abbiamo proposto a maggio, tutti si sono stracciati le vesti, attaccandomi con una violenza inaudita da tutti i fronti: politico, mediatico e scientifico”. E siamo al punto di partenza, ancora una volta, dopo tutti questi mesi: nonostante il ministro Boccia insista nel dire che il grado di collaborazione tra governo e Regioni è alto, continuiamo ad assistere al sovranismo del contagio, alla rivendicazione dell’uno contro l’altro come in una brutta operetta con tutti gli attori in commedia, con strali lanciati sui giornali piuttosto che nelle sedi opportune. Con la politica che diventa solo polemica. E mentre la polemica infiamma le diverse fazioni il virus gira, continua a girare.

Leggi anche: 1. Dopo i runner e i migranti, tocca alla discoteche: perché siamo sempre a caccia dell’untore? (di G. Cavalli) / 2. Il Governo decida: conta più la salute o il lavoro? (di G. Cavalli)

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Lo strabismo di Salvini

Non è una barzelletta. Lo ha detto sul serio: Per impedire che il coronavirus si diffonda, vanno chiusi i porti e non le discoteche

Fermi tutti, c’è un vincitore. Dice Salvini che chiudere le discoteche e prendersela con i giovani non ha senso. E uno si domanda: perché non ha senso? Risponde Salvini: perché bisogna chiudere i porti. E uno si domanda: e che c’entrano i porti con le discoteche? Niente di niente. Ma c’entra Salvini.

La propaganda sovranista finalmente ha trovato un gancio dove appoggiare il suo maiale sgozzato: i casi di positività al Covid di alcuni migranti sbarcati ha reso possibile il solito martellante, incessante logorio di propaganda di Salvini, Meloni e di tutta la loro allegra brigata. Avviene quello che accade ogni volta che un nero compie un reato: prenderlo, amplificarlo e renderlo un manifesto politico.

Così mentre il mondo (e le persone serie) si occupano di come risistemare la vita in tempi di Covid, avendo il coraggio di prendere decisioni strutturali che non si perdano dietro all’ultimo tweet indignato, da noi è una gara al “sempre uno più di te” come i bambini che giocano a trovare il numero più grosso.

Peccato che lo strabismo di Salvini in questo caso sia ancora più lampante. Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, ha detto al Corriere della Sera: «A seconda delle Regioni, il 25-40% dei casi sono stati importati da concittadini tornati da viaggi o da stranieri residenti in Italia. Il contributo dei migranti, intesi come disperati che fuggono, è minimale, non oltre il 3-5% sono positivi e una parte si infettano nei centri di accoglienza dove è più difficile mantenere le misure sanitarie adeguate». L’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) scrive: «Dall’inizio dell’emergenza a oggi sono state meno di un centinaio le persone straniere giunte irregolarmente via mare in Italia e trovate positive al nuovo coronavirus. Il numero va confrontato con i 6.469 migranti sbarcati sulle coste italiane tra inizio marzo e il 14 luglio. In tutto, dunque, solo circa l’1,5% dei migranti sbarcati è risultato positivo. Da non dimenticare inoltre che le positività sono state certificate su gruppi di migranti che avevano condiviso la stessa imbarcazione durante il viaggio, dando credito all’ipotesi che un numero significativo di essi si sia infettato nel corso della traversata».

C’è dell’altro: tutti i migranti che sbarcano vengono sottoposti a tampone e quarantena. Pratica che risulta difficile invece negli aeroporti. E poi c’è la chicca finale: racconta Salvini di una ex caserma in provincia di Treviso dove dei migranti ammassati sono risultati positivi in larga parte e che il sindaco della città voglia fare causa al governo. E chi ha voluto concentrare i migranti in vecchie caserme demolendo l’accoglienza diffusa? I decreti Sicurezza. Di chi? Di Salvini.

A posto così.

Buon martedì.

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Un Ferragosto dedicato

Ai morti di coronavirus, ai malati, ai lavoratori che stanno in bilico. Nel giorno di festa di metà agosto, quest’anno, è inevitabile riservare loro un pensiero

Un Ferragosto dedicato agli invisibili che non sanno che farsene del Ferragosto, in questo duemila e venti che è una ferita che molti vorrebbero rimarginare e che invece sanguina ancora.

Mi viene in mente, per questo Ferragosto, a quanto presto ci siamo dimenticati dei nonni che se ne sono andati. Sarà che il caso ha voluto che fossi nel mezzo della pandemia eppure il Ferragosto qui, più di tutto, sono i genitori anziani e i nonni che mancano al pranzo di Ferragosto, quelli che se ne sono partiti senza l’occasione di salutare, quelli che avrebbero tenuto il vino buono in fresca, quelli che avrebbero preparato il piatto che ti piace tanto e che invece adesso sono un posto lasciato vuoto, un piatto e un bicchiere in meno.

Il duemila e venti è l’anno degli spazi che si stringono e pare che qualcuno voglia rimuovere il lutto e lo sfacelo come se fosse una pellicina disturbante sopra un dito. Il Ferragosto dedicato ai genitori che devono spiegare ai propri figli la partenza del nonno o della nonna che sono partiti senza una ciao, incellophanati come nei film, tornati a casa solo a forma di un tetro certificato.

Un Ferragosto dedicato a chi aveva pensato che questo Ferragosto forse avrebbe potuto ritagliarsi qualcosa che somigliasse a una vacanza e invece conta le macerie. Lavoratori e professionisti che stanno in bilico davvero, che assistono sgomenti alle discussioni di questo giorno mentre si aggrappano e continuano a aggrapparsi consapevoli che a settembre scivoleranno. Sono molto più di quelli che si raccontano, anzi a guardare bene non li racconta nessuno e invece ne siamo pieni. Sono sopravviventi che non rientrano nelle statistiche finché non mollano la presa.

Un Ferragosto dedicato alle coppie che sono scoppiate, le famiglie che questo Ferragosto pensavano di meritarsi un po’ di tranquillità e invece raccolgono i cocci. Un Ferragosto dedicato ai disabili che hanno passato mesi ancora più da invisibili. Un Ferragosto dedicato ai malati bloccati, quelli che hanno dovuto aspettare mentre la loro malattia non aspetta mica.

Un Ferragosto dedicato a quelli che scelgono di non rimuovere e invece vivono tutto, se lo vivono addosso, con tutti gli attrezzi per costruirsi speranza tutti i giorni.

Buon Ferragosto.

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Conte ci spieghi perché Alzano e Nembro non si potevano chiudere, ma tutto il territorio nazionale sì

C’è più di qualcosa che va spiegato alla luce dei verbali che fioccano pubblicati sui giornali in queste ore. Qualcosa che va spiegato per bene perché la politica sta tutta nella responsabilità del prendere decisioni ma anche e soprattutto spiegarle, le decisioni, raccontarne il filo logico, rendere pubblico il dibattito e il ragionamento che sta dietro a certe scelte e motivarle anche, come succede in questo caso, a posteriori. Se c’è stato un tempo delle prese di posizioni urgente ora è il tempo dell’analisi delle responsabilità. È evidente.

Allora partiamo dalla cautela, che per qualcuno è stata troppa e per qualcuno è stata troppo poca, che appare piuttosto schizofrenica su due decisioni contrapposte prese nel giro di pochi giorni. Il 3 marzo nella bergamasca la situazione è ormai precipitata: nella provincia di Bergamo si registrano 372 contagiati, 56 a Nembro e 26 ad Alzano Lombardo e il Comitato tecnico scientifico si riunisce e scrive: “Nel tardo pomeriggio sono giunti all’Istituto Superiore di Sanità i dati relativi ai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Al proposito è stato sentito per via telefonica l’assessore Gallera e il direttore generale Cajazzo che confermano i dati relativi all’aumento. I due Comuni si trovano in stretta prossimità di Bergamo e hanno una popolazione rispettivamente di 13.639 e 11.522 abitanti. Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molte probabilità ascrivibili a un’unica catena di trasmissione. Ne risulta pertanto che l’R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio. In merito il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della zona rossa al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue”.

Il governo e Regione Lombardia non prendono decisioni: rimane tutto aperto. Conte davanti ai magistrati dichiara addirittura di non avere “mai visto” quel documento. La linea è quella del rischio calcolato. Il 7 marzo il Comitato tecnico scientifico propone al governo di “adottare due livelli di misure di contenimento: uno nei territori in cui si è osservata maggiore diffusione del virus, l’altro sul territorio nazionale”. Due giorni dopo viene deciso il lockdown nazionale. La linea è quella dell’eccesso di cautela.

Cos’è cambiato nella linea del governo? Perché si è deciso di adottare due così diversi comportamenti nei confronti delle osservazioni del Comitato tecnico scientifico? Perché si è deciso di non chiudere ad Alzano e Nembro e invece si è deciso, pochi giorni dopo, di chiudere addirittura tutto il territorio nazionale quando le zone a rischio erano limitate al nord? In sostanza: non notate una diversa cautela nella chiusura delle zone industriali del nord rispetto a un sud che segue a ruota invece il settentrione pur non avendo numeri a alto rischio? Le risposte possono essere molte, molto condivisibili e figlie di due diversi ragionamento. Il tema però è fortemente politico: qualcuno deve spiegare perché il “supporto” del Comitato tecnico scientifico sia stato usato così diversamente. È il senso della politica, questo.

Leggi anche: 1. E se il focolaio fosse stato al sud, la Lombardia avrebbe chiuso tutto?  / 2. “Su Alzano e Nembro toccava a Conte chiudere, ma Fontana doveva insistere”: a TPI parla il consigliere lombardo che ha divulgato il verbale Cts 

L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

L’articolo proviene da TPI.it qui

I buoni e i cattivi

A Piacenza per la prima volta in Italia è stata posta sotto sequestro una caserma dei carabinieri. Un fatto che rompe il giochetto della narrazione dei “buoni” e dei “cattivi” 

Immaginate che qualcuno compia un reato, che ne so, che rubi due mele da un fruttivendolo. Accade tutti i giorni, accade un po’ dappertutto. Quello che ruba le mele è un ragioniere e un minuto dopo il suo arresto l’associazione nazionale dei ragionieri finisce dappertutto per dire che i ragionieri non sono tutti dei ladri di mele, di non permettersi nemmeno di pensarlo e tantomeno scriverlo.

Oppure immaginatevi un idraulico che uccida una persona. Immaginate un ex ministro dell’Interno che come prima reazione rilascia una bella intervista augurandosi che l’idraulico possa dimostrare la propria innocenza ma soprattutto che ringrazi la categoria degli idraulici per tutte le volte che sono stati ingiustamente accusati.

A Piacenza per la prima volta in Italia è stata posta sotto sequestro una caserma dei carabinieri, la caserma “Levante” in centro città, e i magistrati hanno raccontato di 18 persone coinvolte nell’inchiesta con rapporti molto stretti nei confronti di alcuni spacciatori (una sorta di onorata società che vede guardie e ladri mettersi in affari) contestando una caterva di reati: traffico e spaccio di stupefacenti, ricettazione, estorsione, arresto illegale, tortura, lesioni personali, peculato, abuso d’ufficio e falso ideologico. Una roba enorme. E ogni volta che si parla di carabinieri esce questo corporativismo che risulta petulante e fastidioso: se si accusa un carabiniere sembra obbligatorio doversi quasi scusare con tutti gli altri. Non conta che una persona che debba garantire la legalità abbia molte più responsabilità sociali proprio per la divisa che porta, no: accusare un carabiniere per molti significa porsi immediatamente nella parte di quelli che odiano i carabinieri, con buona pace della complessità e della percezione della realtà.

Ma c’è una spiegazione semplice semplice: i fatti come quelli di Piacenza rompono il giochetto della narrazione dei buoni e dei cattivi con cui certi superficiali propagandisti dividono il mondo. Sono gli stessi che vorrebbero classificare le persone per l’etichetta che gli si appiccica addosso e non per quello che fanno e per quello che sono. Sono gli stessi che hanno bisogno di banalizzare la realtà perché si riconoscono incapaci di coglierne le sfumature e ancora di più governarle.

Così se uno dei sicuramente buoni improvvisamente diventa cattivo credono che anche gli altri, quelli che invece sono ben consapevoli della moltitudine di sfumature della realtà, ragionino come loro e categorizzino il resto del mondo.

Buoni o cattivi. Bianco o nero. Deve apparire ben facile governare un mondo così.

Buon venerdì.

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Filippo Sensi a TPI: “Abbiamo combattuto Berlusconi per anni, ma oggi il mondo è cambiato”

Filippo Sensi è un giornalista, blogger, esperto di comunicazione politica e dal 2018 deputato per il Partito Democratico. Qualche giorno fa alla Camera ha fatto memoria leggendo l’elenco dei medici morti di Covid. Tutta la sua esperienza è improntata su un umanesimo ben lontano dai toni e dai modi generali della politica.
Qualche giorno fa alla Camera ha letto l’elenco dei 173 medici morti di Covid in Italia, perché? 
Sono partito da un senso di inadeguatezza, la mia. L’occasione era l’istituzione di una giornata di memoria per le vittime della pandemia, e ho pensato che l’unico modo possibile – parlo per me, ovviamente – per fare memoria di questa assenza fossero i nomi. Ho scelto i medici, non potendo leggere migliaia di nomi, come pietre di inciampo di questo cammino dentro la malattia nel quale siamo ancora dentro.

Qualcuno dice che il suo sia stato un gesto simbolico inutile in un luogo come il Parlamento, come risponde?
Penso che averlo fatto in Parlamento sia stato un modo per dare dignità anche all’aula che, right or wrong, è un luogo fisico e simbolico della comunità democratica che siamo. Chiamarli, uno per uno, per rifarli presenti. A maggior ragione adesso che ci vogliamo sentire fuori da quella memoria, dalla memoria del lockdown, quando la malattia infuriava e sembrava senza scampo.
Secondo lei quanta memoria abbiamo di quel periodo buio, è già in atto una rimozione?
Non so se sia in atto una rimozione, non credo, ma qualora pensassimo di esserne usciti, chiamare gli assenti è un modo, forse l’unico, per restituirci un senso di noi, e anche di futuro.

A proposito, anche quando si è parlato di bullismo alla Camera lei ha portato la sua esperienza personale parlando dei suoi problemi con il peso. Ma l’umanità in parlamento “funziona”?
Penso di sì. E che quando balla qualcosa di noi stessi nelle cose che diciamo – perché poi diciamo cose – secondo me quelle cose prendono peso, volume, colore, luce. Parlano di noi. Perché poi cosa altro dovrebbe fare la politica se non parlare di noi, dire di noi? Quando succede, secondo me, si sente. Quando sporge qualcosa dell’umanità e della storia personale dentro un provvedimento o un intervento certo espone, evidenzia fragilità. Ma perché mai la politica dovrebbe essere il luogo e la lingua di ciò che è inumano, della anestesia dei sentimenti e delle passioni? Non ridurrei la politica a una pappa del cuore, ma una politica dimentica della sua dimensione umana e personale sarebbe non un errore, ma la negazione di sé.

Arrivano i soldi dell’Europa. Quali dovrebbero essere le priorità per il governo?
Vado in controtendenza: non penso che a questo punto ci manchi la visione, come dicono molti. Adesso abbiamo bisogno non tanto di effetti speciali, o di vasti programmi, ma di persone esperte nei gabinetti del governo che siano in grado di scrivere i nostri programmi in maniera efficace, come si fa quando si cerca di accedere ai fondi europei. Persone di qualità – e ce ne sono, task force e non task force – che sappiano cosa chiedere e come si chiede e come si ottiene. Non interminabili liste della spesa o Costituzioni repubblicane: progetti concreti e puntuali, che non si facciano bocciare. Evitiamo la retorica dei grandi principi che poi si trasforma in piagnisteo quando la banca ti chiede di rientrare: tocca a noi lavorare con competenza, umiltà, determinazione: ci sono tutti gli elementi per farlo, e farlo come si deve.

Si parla molto, e con molta preoccupazione, della scuola. Al momento sembra difficile riuscire a trovare una soluzione che risulti soddisfacente per tutti. È ottimista?
Non è un fatto di ottimismo o meno. Credo che a settembre, in un modo o nell’altro, la scuola ripartirà. Il dibattito continuerà, tra scambi di accuse e tutto quello che segue. Ma riaprirà. E confido che lo farà in sicurezza e nel rispetto di tutti i player della scuola: dei docenti, del personale, dei dirigenti, delle famiglie, e soprattutto dei ragazzi. Che hanno bisogno di andare a scuola in sicurezza e con fiducia.

C’è in corso una sotterranea (nemmeno troppo) voglia di restaurazione che passa addirittura dalla riabilitazione di Berlusconi, da Prodi a De Benedetti: cosa ne pensa?
Ho combattuto Berlusconi per buona parte della mia esperienza di comunicazione politica. Lo ricordo bene, ricordo bene cosa è stato nel 2001 fare una campagna elettorale nazionale contro Berlusconi, un uomo che ha segnato la vita politica di un ventennio in Italia. Quella stagione non si dimentica e credo che non sia stato ancora capito a fondo cosa sia stato il berlusconismo in Italia. Credo altrettanto che oggi siamo in una stagione molto differente, e non solo perché sono passati molti anni, ma perché è cambiato il panorama politico in tutto il mondo. Questo non vuol dire necessariamente cambiare atteggiamento o giudizio politico, ma certo – parlo per me – approfondirlo, renderlo contemporaneo, con un senso della realtà che valeva ieri come vale oggi.

Che valutazione dà, finora, alla sua esperienza politica? 
Provo a occuparmi delle cose che mi competono. Sono molto ammirato dai miei colleghi, vedo tanta passione e competenza, dalla quale provo a rubare esperienza. Se ne dicono di ogni sui parlamentari e sulla qualità della politica, ma lavorando in commissione o partecipando ai lavori di aula vedo tante persone dalle quali imparare, e tanto.
Quali sono state le più grandi soddisfazioni e le più grandi delusioni?
Sono stato orgoglioso di vari provvedimenti, meno, molto meno di altri. Ho visto approvare le leggi vergogna sulla sicurezza, ho provato molta rabbia. Vedo l’aula troppo vuota, sono stato molto criticato su questo punto, ma non mi ci rassegno, mi dispiace. Penso, in genere, che quando il Parlamento – non succede sempre, purtroppo – fa i compiti a casa, fa il suo lavoro quotidiano, la fatica della democrazia, ne trae giovamento tutto il Paese, come fossero i polmoni di questa Repubblica.

Leggi anche: 1. Il governissimo con Berlusconi è il simbolo di una politica marcia voluta da certi salotti e certe redazioni (di Luca Telese) / 2. Revelli a TPI: “Governissimo con Berlusconi? Certi potentati vogliono la restaurazione per mettere le mani sui fondi europei” / 3. Da Prodi a De Benedetti: tutti quelli che rivogliono Berlusconi al governo

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Gli eroi sono stanchi

«Dopo un mese d’inferno in reparto Covid e un mese di quarantena con polmonite da Covid, mi trovo a piangere lacrime di rabbia», ci scrive un’infermiera in una lettera-denuncia

Ricevo e pubblico la lettera di un’infermiera. C’è dentro tutto: questo tempo, quello passato e un suggerimento per il futuro.

Oggi vorrei parlarvi di quegli eroi di cui molte persone si sono riempite la bocca qualche mese fa: gli infermieri ai tempi del Covid-19.

Ho odiato il termine eroi dal primo momento in cui è stato utilizzato, perché non abbiamo fatto niente di straordinario, è il nostro lavoro. Eroico è più che altro il modo in cui l’abbiamo fatto, cioè sbattuti dai piani alti in prima linea (altro termine molto usato, ma che non amo) senza formazione e – soprattutto – senza risorse sufficienti, sia in termini di materiale che di personale. Abbiamo dovuto far fronte ad una situazione in continua evoluzione e senza l’appoggio dei superiori, avendo un coordinatore che si è eclissato misteriosamente il giorno in cui il reparto è stato adibito ai pazienti Covid.

Ma questo è il passato e speriamo che rimanga tale. Non voglio ripetere le condizioni in cui abbiamo lavorato perché ne hanno già parlato tanti altri prima di me.

Ma come stanno gli eroi oggi? Perché nessuno ne parla più, come volevasi dimostrare.

Qualcuno penserà che abbiamo tirato un sospiro di sollievo, che abbiamo ricominciato a respirare. Nì. Sicuramente siamo felici di non vedere più gente morire ogni giorno e sentirci totalmente impotenti davanti a tanto dolore e solitudine.

Ma nessuno, dall’alto, ha pensato minimamente che abbiamo bisogno di rallentare. Veniamo da un periodo di alto stress e in tutta risposta ci sono stati intensificati i turni, arrivando a 7 giorni consecutivi di lavoro, più notti consecutive, poco riposo. Ci siamo visti totalmente modificati i turni il 29 del mese per il 1° del mese dopo.

Perché per loro (quelli che io chiamo piani alti, i potenti, quelli che non hanno un contatto col paziente) non siamo persone, siamo solo numeri di matricola usati per coprire i buchi sul foglio dei turni. Non abbiamo famiglie, impegni, passioni al di fuori del lavoro. Dobbiamo essere pronti in ogni momento a rispondere alla chiamata dell’azienda. Cene con gli amici, week end al mare, visite mediche dei figli. Non esiste niente di certo per noi.

In più, nel mio reparto il lavoro si sta facendo sempre più difficile e intenso, perché il nostro coordinatore, che ha da poco ripreso a venire in reparto, è presente solo 15 ore a settimana, quindi per le restanti 153 ore passiamo buona parte del turno a dover risolvere problemi burocratici che non ci competono, sottraendo tempo necessario all’assistenza dei pazienti.

Se un collega si ammala, il responsabile che deve occuparsi di sostituirlo fa metodicamente spallucce, quindi dobbiamo telefonare a una marea di reparti facendoci dare i numeri di colleghi che sono a casa di riposo e pregarli di venire a darci il cambio. Altrimenti, si fa doppio turno. 12 ore e passa la paura.

Personalmente, dopo un mese d’inferno in reparto Covid e un mese di quarantena con polmonite da Covid (causata dalla mancanza di dpi), mi trovo a piangere lacrime di rabbia. Non abbiamo sofferto abbastanza? Ho la gastrite da stress, alti livelli di glicemia, ormoni ballerini, non dormo bene e ci sono giorni in cui la stanchezza mi fa a malapena reggere in piedi. Sono esausta, incazzata, delusa.

Ho sempre amato il mio lavoro, ora vado in reparto con la nausea. Vorrei abbandonare tutto e fare altro, ma al momento non me lo posso permettere. Mi hanno fatto odiare un lavoro che ho sempre fatto con passione, responsabilità e competenza.

E tutto ciò, dalla disorganizzazione del reparto, l’aumentato carico di lavoro, fino all’esaurimento psicofisico del personale (pardon, dei numeri di matricola) va a discapito del paziente. E ciò mi fa davvero male. Perché vorrei fare sempre del mio meglio, ma in certi momenti è dura avere un sorriso per gli altri quando non ne hai più nemmeno per te. È difficile fare bene le cose quando nello stesso tempo di sempre devi farne il doppio. Sacrifici, solo sacrifici.

E questa è solo la situazione nel mio piccolo reparto. L’argomento potrebbe andare avanti parlando di contratto nazionale, di ferie non godute, stipendi bassi, mobilità bloccate, competenze non riconosciute, eccetera.

Gli eroi sono stanchi. Gli eroi non erano quelli del Covid, siamo sempre stati eroi, se lo volete sapere. Solo che ve ne siete resi conto solo poco tempo fa (e forse ve ne siete anche già dimenticati).

Siamo stanchi.

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La Storia non è una statua inamovibile uguale a se stessa: ecco perché si può mettere in discussione

La Storia non è una statua, non rimane ferma, per fortuna, non è qualcosa di inamovibile che si ripresenta uguale a se stessa ogni giorno sottoposta nei secoli allo stesso identico giudizio. Le persone che sono state, siano il Montanelli che sventola da anni con la sua agiografia o qualsiasi altro rappresentato in qualche statua, non sono icone che sbiadiscono e si cementificio in arredo urbano come se fossero un lampione o un marciapiede allargato.

Sono personaggi che hanno compiuto cose alte e basse, che sono naufragati in piccolezze che a quel tempo erano tollerabili e ora lo sono meno. Tutto per un motivo semplice semplice che qualcuno si ostina a negare: il progresso del pensiero, l’evoluzione della sensibilità e, si spera, il progresso civile che rende normale qualcosa che prima non lo era e che rende insopportabile qualcosa che prima poteva essere sopportato.

C’è chi tira questa corda perché ogni giorno il mondo migliori di un pezzo, perché ci si ricordi che in fondo era accettato l’essere schiavi, l’essere inferiori perché femmine, l’essere escluso dal voto, l’essere considerato meno degno per condizione sociale o religiosa o di etnia. L’Italia che non permetteva il divorzio, che non concedeva l’aborto, che conviveva con il delitto d’onore e con il matrimonio riparatore non è la stessa Italia di oggi: se non cadessimo nel tranello di parlare del dito e perderci la luna in questi giorni parleremmo del mondo che è cambiato, solo dopo è cambiata la sensibilità con cui certi eroi vengono visti anche con occhi diversi. Sta tutto qui.

Il punto non è che Indro Montanelli abbia comprato una moglie che considerava una “docile bestiola” in un’era in cui era “normale” ma il punto è che nella nostra Storia abbiamo considerato potabili degli orrori che oggi fanno accapponare la pelle, semplicemente. E con il senno di poi, con il progresso civile, si potrebbe anche dire che sì, che era proprio una schifezza quella cosa lì, senza tirare in ballo una difesa a oltranza che è solo il pungolo di quelli che da sempre la corda la tirano dall’altra parte, quelli che sono cretinamente convinti che tutto sia immutabile e che il conservatorismo sia l’unica cosa che li rassicuri e li consoli.

La Storia non è una statua ed è doveroso riconoscerla come discutibile, tutti i giorni, una materia in continua evoluzione. Sarebbe da parlare di questo, senza gli eccessi di chi venera e di chi sgretola che non sono la notizia di cui parlare. Anche ridurre il progresso a ordine pubblico, ora che ci penso bene, è piuttosto schifoso.

Leggi anche: 1. Black Lives Matter, a Bristol i manifestanti buttano giù la statua di uno schiavista | VIDEO / 2. La storia va studiata, non cancellata. Abbattere i monumenti è pericoloso

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In Lombardia i contagi si impennano di nuovo. Ma nessuno ne parla, tantomeno Fontana e Gallera

Che strano animale è questa narrazione tossica del Covid che si adagia sulle diverse fasi, cambia registro ogni volta che bisogna spingere ad aprire tutto prima e chiudere tutto poi. Ora provate a chiudere gli occhi e tornate con la mente al periodo della quarantena nazionale, quando tutti rimasero al guinzaglio del terrore rinchiusi in casa mentre ogni giorno si svolgeva la messa laica della Protezione Civile che snocciolava dati, infetti, decessi e guariti. Immaginate lì, in uno a caso di quei giorni, una Lombardia con un nuovo picco dei contagi che contiene il 66,4% dei nuovi contagiati totali su tutto il territorio nazionale, immaginate di sapere (perché è così) che solo oggi stanno facendo tamponi a persone che si sono ammalate talmente tanto tempo fa che sono già guarite (o morte) e che hanno dovuto affidarsi al proprio buonsenso per non infettare gli altri e per rimanere chiusi in casa senza essere registrati, tracciati e seguiti da nessuna Ats.

Immaginate un sindaco di una città importante come Bergamo, come Giorgio Gori, che scriva quello che ha scritto ieri quando ha dichiarato senza mezzi termini: “Leggo che in Lombardia ieri ci sono stati 32 decessi per Covid. Non si sa però dove, in quale provincia, perché la Regione non comunica più i dati divisi. Da quando abbiamo segnalato che i decessi reali erano molti dpiù di quelli ‘ufficiali’, hanno secretato i dati per provincia” e che “neppure i dati sui guariti vengono più comunicati, e sì che sarebbero importanti per capire che oggi le persone ammalate sono poche” e che “non vengono comunicati neanche i dati dei positivi Covid divisi per singolo comune”.

Tutto questo mentre diverse Procure indagano sulla mancata istituzione della zona rossa tra Alzano e Nembro e sulle troppe morti all’interno delle RSA lombarde. Immaginate quei numeri se fossero serviti per giustificare una chiusura totale e osservateli oggi come vengono bisbigliati per non disturbare l’apertura e l’operosità che non si può fermare: i numeri possono diventare opinioni quando serve. E notate, tanto che ci siete, il silenzio dei virologi, l’attenzione caduta delle trasmissioni televisive e la mancanza dei grandi pareri di opinionisti di ogni sorta. Il virus è finito, hanno deciso così, e per finirlo basta smettere di raccontarlo e fare passare tutto come una semplice naturale lunga coda. I morti di questi giorni sono morti accidentali, i contagiati sono laterali. Stiamo a posto così. Che strano animale è questa narrazione tossica del Covid che riesce sempre a essere perfetta per il duo Fontana e Gallera.

L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

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Certi amori non finiscono

Mentre il governo traballa sotto i colpi dell’inchiesta sui soldi russi e sotto i pessimi rapporti degli alleati che continuano a sputarsi in faccia il ministro dell’interno Matteo Salvini è alla disperata ricerca di qualcosa che gli permetta di parlare d’altro, di buttare la palla in tribuna e di inventarsi un’altra disperata boutade perché i giornali la smettano di parlare dei suoi pessimi collaboratori che giocano a fare le spie come nei film mentre chiedono la carità all’amico Putin.

Se dovessi immaginarmelo, Salvini, me lo vedo con tutti i suoi collaboratori a frugare nei cassonetti, con quei lunghi bastoni metallici a uncino, per trovare qualche straccio di fatto di cronaca nera da usare per la propaganda. Ci ha provato con un tweet patetico sui “rapporti dimostrati tra ONG e scafisti” condividendo un servizio della trasmissione di Porro in cui non si dimostra un bel niente, ci ha provato attaccando Carola Rackete (ancora!) che però non l’ha nemmeno degnato di una risposta e quindi ha tirato fuori dal cilindro la notizia che il Movimento 5 Stelle in Europa governerebbe con il PD. Badate bene, perché la bugia è clamorosa: la Lega decide di isolarsi a livello internazionale e poi si lamenta di vedere tutti gli altri fare gruppo.

E così ieri ha deciso di schiacciare sull’acceleratore e di mandare il suo ennesimo penultimatum a Di Maio e agli italiani. Dice che non si presenterà al Consiglio dei ministri perché non ci sono cose interessanti (ha detto così, giuro) e che ha perso la fiducia “anche personale” nei suoi alleati (chissà quella impersonale, invece).

Così alla fine Salvini, il nuovo che avanza, potrà finalmente tornare nelle braccia di papà Silvio, di Forza Italia e di tutto il cucuzzaro del centrodestra italiano, per rimanere perfettamente allineato a quello che la Lega fa nelle regioni, nelle città e ovunque sia al governo: andare a braccetto con Berlusconi.

Del resto certi amori non finiscono. Fanno dei giri immensi e poi ritornano. Amori indivisibili, indissolubili, inseparabili.

Buon venerdì.

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