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Renzi ha fatto saltare Conte “per i contenuti” ma ora prende Draghi a scatola chiusa

Ognuno porta avanti le sue trattative politiche come preferisce. La politica, si sa, è l’arte del possibile e le posizioni si modificano in continuazione, travolte dagli eventi. Però, mentre il presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi si prepara ad affrontare i leader di partito (tanti auguri per questo giro negli inferi sfilacciati), vale la pena registrare fin da subito qualche curioso atteggiamento di chi, fino a poche ore fa, berciava a tutto volume su principi che sembravano inossidabili e che invece ora sembrano dissolti.

Insomma ci tocca parlare di nuovo dei due Mattei, sempre loro, che insistono lesti nel rivendere le fanfaronate come strategia quando invece sono banalotti Giani bifronte che inseguono il proprio piccolo interesse particolare.

Matteo Renzi continua a superare se stesso. Lui e i suoi tifosi imboccati insistono per intestarsi una “vittoria” come se Mattarella fosse l’esecutore di un leader decaduto che stagna al 2% ma soprattutto nelle ultime ore è riuscito sostanzialmente a rimangiarsi tutti i “valori” su cui ha bluffato per tutta la crisi.

Proprio nel momento in cui faceva saltare il tavolo con i suoi ex alleati di maggioranza, durante il mandato esplorativo di Fico, ha ripetuto mille volte in ogni dove che non era “un problema di nomi ma di programmi”.

Con il tweet che suggellava la fine delle trattative era stato chiaro: Mes, Anpal, alta velocità, reddito di cittadinanza, scuola e Arcuri erano i temi imprescindibili su cui si consumava la rottura del governo. E, su quei temi, loro di Italia Viva non erano disposti a fare nemmeno un passo indietro, provocando piuttosto la crisi che hanno provocato.

Ora lo stesso Renzi, tutto ringalluzzito per avere eliminato l’avversario perché per lui il potere sta semplicemente nel creare l’occasione del fallimento altrui, dice di sostenere a tutta forza Draghi in un momento in cui non si è ancora affrontato nessun punto di un eventuale programma.

Ma come? Una risposta la lascia intendere il suo compagno di partito Scalfarotto, che oggi su Twitter scrive: “Questa volta chi sia, cosa pensi, cos’abbia scritto e fatto e quali successi abbia ottenuto il prossimo PdC è noto a livello planetario. Su quella base penso che ci sia abbondantissimo materiale per votargli la fiducia”.

In sostanza i punti che prima erano insostituibili ora vengono schiacciati dalla biografia. Non male per un partito che vorrebbe stare “nel merito” delle cose.

E così alla fine accade che l’altro Matteo (Salvini) diventi un’indispensabile risorsa “europeista” per dare vita al governo che dovrebbe riportare la politica al suo punto nobile, lontana da sovranismi e populismi. Un capolavoro, davvero.

Leggi anche: 1. Sono grato a Conte. La prospettiva politica dell’alleanza giallorossa non va dispersa (di Goffredo Bettini) / 2. Perché bisogna dire no a Draghi (di Alessandro Di Battista) /3. Il sonno della politica genera tecnici (di S. Mentana)

4. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino) / 5. Il dilemma Pd: un governo Draghi è possibile. Ma solo governando con la destra sovranista / 6. La verità che nessuno ha il coraggio di dirvi: Renzi oggi vuole solo una cosa. Spaccare il Pd (di Luca Telese)

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Rendiamoci conto: con questa crisi si torna a parlare di Berlusconi presidente della Repubblica

La prima conseguenza della crisi di governo del Conte bis si annusa nell’aria, si legge sui giornali e circola tra i social: la destra, ringalluzzita dai problemi del governo, si spinge addirittura dove non ha mai osato e Silvio Berlusconi, quello stesso Berlusconi che negli ultimi anni galleggiava nella sua inconsistenza politica e tra i problemi dati dai suoi processi, improvvisamente si ridesta e diventa addirittura papabile per la presidenza della Repubblica.

Un disastroso capolavoro, non c’è che dire, se non fosse che il rischio è molto più concreto di quello che sembra. Matteo Salvini, interpellato sull’argomento a Non è l’Arena su La7, risponde: “Berlusconi candidato a presidente della Repubblica? Se mi chiede il mio parere personale, le dico di sì: secondo me può ambire al Quirinale“.

Con un anno di anticipo il leader leghista avanza la candidatura del leader di Forza Italia al Colle e in mente ha un piano perfetto: togliersi l’impiccio del Cavaliere decaduto in un centrodestra in cui tutti vogliono essere leader, assicurarsi una presidenza della Repubblica rassicurante e amica e spingere Silvio a non cedere a nessuna tentazione di governi di unità nazionale insistendo su nuove elezioni.

Avrebbe potuto essere solo una boutade (una delle tante) del leader leghista, se non fosse che la palla è stata presa subito al balzo dal deputato di Forza Italia Gianfranco Rotondi, che è corso a dichiarare: “Berlusconi è stato il fondatore della Seconda Repubblica, del bipolarismo, del centrodestra”. “In questo momento – ha continuato Rotondi – il centrodestra è maggioranza elettorale nei sondaggi e nel ‘sentiment‘ del Paese. L’elezione di Berlusconi al Quirinale sarebbe naturale, legittima e pacificatrice. Sarebbe, sarà”.

Così l’ex datore di lavoro del mafioso Mangano, l’amico intimo del condannato Marcello Dell’Utri che per conto di Berlusconi faceva da tramite con Cosa Nostra, un condannato in via definitiva per frode fiscale, l’imputato nel processo Ruby ter, l’indagato dalla procura di Firenze come presunto mandante occulto della stragi mafiose del 1993 di Milano, Roma e Firenze, quest’uomo oggi si ritrova tra i papabili presidenti della Repubblica.

Lega e Forza Italia si dicono già d’accordo, Giorgia Meloni per ora osserva e tace in attesa di prendersi la leadership del centrodestra. E nell’Italia del 2021 si discute di qualcosa che sarebbe stato osceno anche solo ipotizzare fino a qualche mese fa. Un altro piccolo capolavoro, sicuro.

Leggi anche:  1. La malattia morale e politica di chi invoca il ritorno di Berlusconi (di Marco Revelli) / 2. Il governissimo con Berlusconi è il simbolo di una politica marcia voluta da certi salotti e certe redazioni (di Luca Telese)

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Avanzi di Gallera

La Lombardia in zona rossa sulla base di dati sbagliati inviati all’Istituto superiore di sanità dalla Regione stessa. Fontana e Moratti scaricano le colpe sul governo. Dopo l’addio dell’ex assessore al Welfare, bisogna fare i conti con ciò che ha lasciato: il suo presidente, la sua sostituta e un Ente ormai completamente allo sbando

In Lombardia non bisogna mai correre il rischio di pensare che peggio di così non potrebbe andare perché ci si imbatte sempre in una delusione cocente, in quella terribile sensazione per cui gli uomini al governo della Lombardia (quelli che Salvini e compagnia cantante ci porgono tutti i giorni come alti esempi di ottima amministrazione) riescono sempre a toccare il fondo, poi scavare, poi scavare e poi scavare ancora.

Facciamo un salto indietro: il 17 gennaio la Lombardia è una delle poche regioni che viene indicata come “zona rossa”, ovvero una regione ad alto rischio di contagio dove devono essere prese misure molto stringenti che impattano enormemente sulla vita dei suoi cittadini e delle sue attività economiche. Badate bene: la decisione del governo viene presa sulla base dei dati che Fontana, Letizia Moratti e i tecnici regionali mandano regolarmente al ministero. I dati dalla regione sono stati consegnati il 13 gennaio e infatti non è un caso che se sfogliate i giornali di quei giorni potrete incrociare un Fontana contritissimo che avvisa tutti che si finirà in zona rossa e che bisogna stare attenti. Poi, per il solito gioco della propaganda e del rimpiattino con il governo, accade che Fontana si dica costernato e stupito della decisione del governo. In sostanza si è stupito di quello che egli stesso pensava fino a poche ore prima. E già fin qui la vicenda rasenta una tragica irresponsabilità. Fontana fa ricorso al Tar. Letizia Moratti si lancia a dire: «La Lombardia non merita la zona rossa. Indubbiamente il rischio per la regione è di fermarsi, di fermare il lavoro, le attività e la vita sociale. Per questo con il presidente Fontana abbiamo ritenuto di voler presentare un ricorso, per uscire dalla zona rossa».

Attenzione al capolavoro. Il 20 gennaio la Regione Lombardia invia nuovi dati e sono molto diversi rispetto ai dati precedenti. In sostanza si smentiscono. E si scopre che la Lombardia sulla base dei nuovi numeri avrebbe dovuto essere zona arancione. Il ministero della Salute spiega molto chiaramente che a falsare il calcolo dell’Rt sono stati numeri parziali inviati dalla Regione. In base all’aggiornamento del 20 gennaio, i casi sintomatici che hanno sviluppato dei sintomi – cioè un dato fondamentale per calcolare l’Rt – fra il 15 e  il 30 dicembre non erano più 14.180 come segnalato il 13 gennaio, bensì 4.918, quasi tre volte di meno. In Lombardia, dopo avere fatto la figura di quelli che non sanno nemmeno fare da conto, si scatenano. Fontana dice: «A Roma devono smetterla di calunniare la Lombardia per coprire le proprie mancanze», Moratti rincalza dicendo: «Nessuna rettifica, a seguito di un approfondimento relativo all’algoritmo dell’Iss, abbiamo inviato la rivalorizzazione dei dati». Rivalorizzare un numero significa averlo sbagliato, l’elegante Moratti però lo dice con una perifrasi che vorrebbe nascondere l’errore.

All’Istituto Superiore della Sanità rispondono chiaramente: «L’algoritmo è corretto, da aprile non è mai cambiato ed è uguale per tutte le Regioni che lo hanno utilizzato finora senza alcun problema – scrive l’Iss -. Questo algoritmo e le modalità di calcolo dell’Rt sono state spiegate in dettaglio a tutti i referenti regionali perché lo potessero calcolare e potessero verificare da soli le stime che noi produciamo, ed è perciò accessibile a tutti». In sostanza: siete voi che non sapete fare i calcoli. È anzi l’Iss a sottolineare come l’anomalia sia stata fatta notare più volte a Regione Lombardia.

Salvini chiede le dimissioni dei responsabili. In sostanza sta chiedendo le dimissioni del suo presidente Fontana, quindi. Roba da teatro dell’assurdo. Secondo alcune stime il danno per i circa 10mila negozianti costretti a chiudere domenica 17 gennaio sono stati di circa 485 milioni di euro solo a Milano tra abbigliamento e pubblici esercizi secondo Confcommercio. Immaginate i totali di tutta la regione. E in più ci sono le scuole, le persone. Roba gravissima.

Ecco, se pensavate che l’addio di Gallera fosse una buona notizia non avete fatto i conti con gli avanzi che Gallera ha lasciato: il suo presidente, la sua sostituta e una Regione ormai completamente allo sbando. In sostanza questi hanno ricorso al Tar contro se stessi. E ora fanno i pesci in barile scaricando le colpe sul governo. Ah, a proposito: come ultima dichiarazione ieri Fontana ha detto che «forse non è colpa di nessuno».

Bravi, bene, bis.

Buon lunedì.

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Grazie, Biden: dopo un anno orribile, in un solo giorno ci hai restituito la speranza nel futuro

Sono tempi magri per la politica questi, tempi in cui tocca esultare per essersi liberati di qualcuno rimanendo ancorati alla convinzione che non possa andare peggio di così e che per forza prima o poi, dopo avere toccato il fondo, si possa risalire. Però negli USA che finalmente si liberano di Trump, al di là dei lustrini per l’insediamento di Biden come nuovo presidente, arrivano anche 17 ordini esecutivi firmati nel primo giorno di presidenza Biden che già ci dicono qualcosa dello scenario futuro e che inducono all’ottimismo.

Per fronteggiare la pandemia, smettendola finalmente di lisciare complottisti e negazionisti vari, Biden ha creato il ruolo di Coordinatore della risposta alla Covid-19 che è stato affidato a Jeffrey D. Zients. È stato anche bloccato il ritiro degli USA dall’Organizzazione mondiale della sanità che Trump aveva accusato, ovviamente senza prove, di “cattiva gestione e insabbiamento della diffusione del coronavirus”.

È iniziato anche il percorso di reintegro degli USA negli accordi sul clima di Parigi, il più importante trattato ambientale degli ultimi anni, con l’impegno di contrastare il riscaldamento globale. Fermati invece i lavori dell’oleodotto Keystone XL, contestato dagli ambientalisti americani e che già Obama aveva bloccato durante la sua presidenza.

Smontati in poche ore anche tutti i provvedimenti razzisti di Trump che avevano fatto inorridire il mondo: è stato rafforzato il DACA (che serve per proteggere i bambini dalle espulsioni) e soprattutto cancellato il “travel ban” con cui si limitavano le concessioni dei visti per l’ingresso ai cittadini di alcuni Paesi africani a maggioranza musulmana. L’amministrazione Biden sta anche studiando delle forme di risarcimento per i cittadini che sono stati discriminati.

Ve lo ricordate la dispendiosissima (e inutile) costruzione del muro al confine con il Messico? Ecco, finalmente Biden ha messo la parola fine a quella farsa. Biden ha anche cancellato l’ordine di Trump che limitava (con l’intento di cancellarli) i corsi sulla diversità e sull’inclusione chiedendo invece la costituzione di un nuovo organo che si occupi di combattere la discriminazione all’interno delle organizzazioni federali.

A proposito di quelli che lavoreranno con lui, Biden ha stabilito anche alcune regole etiche con l’intento di “riguadagnare e conservare la fiducia nel governo”. Insomma, siamo solo all’inizio, ma molto di Trump si è già dissolto nelle prime 24 ore della nuova era americana. E questa è già una buona notizia: perché questi sono fatti, mica parole.

Leggi anche: 1. Biden è presidente, la buona America è tornata (di G. Gramaglia) / 2. Il primo discorso del presidente Biden: “Oggi è il giorno della democrazia” / 3. Il discorso d’addio di Trump: “Continuerò a combattere per voi, torneremo in un modo o nell’altro”

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Il calendario dell’avvento (di Renzi)

Cronologia di una “crisi di governo” aperta da Matteo Renzi il 9 dicembre. Tra dichiarazioni, penultimatum e interviste, siamo arrivati al giorno cruciale

Era il 9 dicembre quando Matteo Renzi aprì la “crisi di governo” che ancora oggi si stiracchia sulle pagine di tutti i giornali. “È il momento di dirci le cose in faccia” tuonò con uno di quegli interventi che risulta perfetto per essere confezionato e diventare una clip già pronta per i social e take away per tutti i telegiornali. Disse: “Per giocare pulito e trasparente, noi diciamo: se c’è un provvedimento che tiene dentro la governance del Next Generation Eu, noi votiamo contro. Siamo pronti a discutere, ma non a usare la manovra come veicolo di quello che abbiamo letto sui giornali, compresi i servizi segreti. Se c’è una norma che mette la governance con i servizi votiamo no”. Minacciò di ritirare immediatamente i suoi ministri. Non accadde.

Il giorno successivo, il 10 dicembre, il segretario del Pd Zingaretti e alcuni membri provarono a placare gli animi. Da quel giorno ovviamente la cosiddetta “crisi” si è spostata sui giornali e in televisione, il campo preferito da Renzi. Pochissimi i passaggi istituzionali. Renzi rilascia due interviste, a Il Messaggero e a El Pais, in cui dice: “Se Conte non fa marcia indietro siamo pronti a far cadere il governo”. Conte intanto era a Bruxelles per chiudere l’accordo. Alla grande, direi.

Il 12 dicembre interviene il presidente della Camera Roberto Fico che dice che se cade il governo si va a elezioni. A nome di Renzi interviene Anzaldi che dice che le elezioni le decide il Presidente della Repubblica. E via già con la via d’uscita di un accordicchio, quindi.

A quel punto Conte convoca i partiti a Palazzo Chigi per discuterne. Ve lo ricordate? Renzi dice: “noi abbiamo detto ‘Presidente, se vogliamo andare avanti noi ci siamo con lealtà, se ritieni che quello che proponiamo non va bene, con rispetto per le istituzioni, noi ci alziamo e ci dimettiamo”. E via di nuovo con l’ennesimo penultimatum. Ovviamente continuano le interviste dappertutto.

Il 28 dicembre Renzi presenta il suo piano (che chiama simpaticamente “Ciao”, che simpaticone). 13 righe di proposte in tutto. “Se c’è accordo su questo bene. Altrimenti è evidente che faranno senza di noi e le ministre si dimetteranno”, dice Renzi. Sempre per dare un’idea di come si svolge la trattativa.

A fine anno c’è il discorso di Mattarella. Renzi ovviamente pensa a se stesso quando il Presidente della Repubblica dice che “servono costruttori”. Figurati. Però non coglie il monito di Mattarella a non perdersi in polemiche. Passano 48 ore dal discorso del Presidente e Renzi dice, a Il Messaggero: “Se Conte ha scelto di andare a contarsi in aula accettiamo la sfida”.

Il 5 gennaio è un giorno da fantascienza. Renzi è ospite di Nicola Porro su Rete 4 e dice che bisognerebbe trovare un accordo preliminare sui temi. Sembra un’apertura. E invece poi serafico aggiunge: “Poi vedremo se il premier sarà Conte o un altro“.

Arriviamo agli ultimi giorni. Conte ringrazia i partiti di maggioranza per i contributi portati (quindi anche Renzi) e Renzi gli risponde “se Conte è in grado di lavorare lo faccia, altrimenti toccherà ad altri. Ha detto che è pronto a venire in Aula, lo aspettiamo lì”. L’8 gennaio si incontrano per discutere e i renziani Boschi, Faraone e Bellanova protestano: “Il documento sul Recovery Plan non c’è: c’è una sintesi di 13 pagine e una tabella. Il Paese ha bisogno di serietà e ciò comporta leggere e studiare un testo completo“.

Ieri Renzi ha detto sì al Recovery però minaccia di ritirare le sue ministre dopo il Consiglio dei Ministri. E siamo a oggi. Gli scenari sono o un corposo rimpasto (con quelle poltrone che a Renzi non interessano, segnatevelo), o un Conte ter o un governo tecnico. Le elezioni? figurarsi. Se ci fosse davvero il pericolo delle elezioni non avremmo visto nulla di tutto questo.

Buon martedì.

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Porti chiusi. Per ‘ndrangheta

«Una delle vicende più assurde e paradossali della storia calabrese», dice un imprenditore che ha denunciato le pressioni subite dalla ‘ndrangheta per i lavori al porto di Badolato, in provincia di Catanzaro

Badolato è un gioiello calabrese appoggiato sulla costa jonica. Un comune in provincia di Catanzaro che negli anni 90 si è salvato dal declino dello spopolamento grazie ai molti turisti che lì hanno comprato dei vecchi edifici che sono stati messi in vendita e sono stati rimessi a nuovo. A Badolato da più di vent’anni si parla del nuovo porto come fiore all’occhiello di una rinascita calabrese che passi attraverso nuovi servizi e nuove infrastrutture. La storia potrebbe sembrare un piccola storia locale ed è invece il paradigma attraverso cui leggere un argomento che di questi tempi sembra sia passato completamente di moda: le mafie.

Il clan Gallace-Gallelli spadroneggia. Un’inchiesta passata, la Itaca Free-Boat, aveva evidenziato gli interessi di uomini di ‘ndrangheta per il porto. Bene, seguitemi: Carlo Stabellini è l’amministratore della Salteg che si occupa dei lavori di costruzione. Stabellini ha denunciato le pressioni subite dalla ‘ndrangheta e le sue dichiarazioni hanno permesso di fare luce su un sistema di oppressione mafiosa.

Il sindaco di Badolato è Gerardo Mannello, in carica dal 2016. Pochi giorni dopo la sua elezione è stato accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso in concorso proprio con gli uomini del clan Gallelli e proprio ai danni della Salteg, di Stabellini e dei suoi soci dell’epoca. E per quelle vicende è adesso sotto processo. Scrivono i magistrati che Mannello con altri, tra cui il boss mafioso della zona, si sarebbe adoperato negli anni dal 2001 al 2004 “per garantire la tranquillità nell’esecuzione dei lavori”, costringendo la Salteg ad una serie di assunzioni e ad affidare lavori in subappalto “per sbancamento, movimentazione terra, realizzazione della diga foranea alle ditte riconducibili a Vincenzo Gallelli “Macineju” e formalmente intestate ai generi Andrea Santillo e Luciano Antonio Papaleo, a quella del nipote Pietro Gallelli e a quella del suo storico referente Angelo Domenico Papaleo”. Il tutto con un’ estorsione anche di 100mila euro per il clan Guardavalle al tempo guidato da Vincenzo Gallace e Carmelo Novella.

Arriviamo ad oggi: il sindaco in carica Mannello (che non è decaduto) ha dichiarato cessata la concessione alla ditta Salteg (la stessa che è accusato di avere minacciato) per “gravi inadempienze contrattuali”. E fa niente che il tribunale scriva che il “persistente tentativo della ‘ndrangheta di condizionamento e infiltrazione nella gestione dell’attività portuale deducendone ulteriormente, che, a causa delle vertenze penali, il porto di Badolato è rimasto sequestrato dal 4 agosto 2004 al 6 maggio 2006 e dal 19 gennaio 2015 al 23 ottobre 2017 e che, pertanto la società non ha avuto la possibilità di completare i lavori ad essa demandati”.

“La burocrazia badolatese, con a capo il Sindaco Mannello – scrive in un’accorata lettera aperta Stabellini – ha ottenuto, volente o nolente, quello che i vari Saraco, Antonio Ranieri, Gallelli, Ammiragli, condannati nel procedimento penale “Itaca-Free Boat” per reati aggravati dal metodo mafioso, non erano riusciti a fare con le loro macchinazioni. Vedremo se il Consiglio di Stato, cui la Salteg ricorrerà, tra un anno saprà mettere fine ad una delle vicende più assurde e paradossali della storia calabrese”.

Dalla patria delle contraddizioni per ora è tutto.

Buon giovedì.

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Le carceri diventano un vero e proprio inferno: detenuti contagiati e infreddoliti

La seconda ondata del virus si abbatte violenta sulle carceri e rende ancora più difficile la vita della popolazione carceraria registrando il cronico sovraffollamento oltre i limiti di guardia, un pesante aumento di positivi al Covid rispetto alla prima ondata e nuove misure coercitive ancora più stringenti in nome della sicurezza sanitaria mentre scompaiono del tutto le occasioni di socializzazione e vengono a mancare i servizi sanitari che da sempre sono affidati ai volontari, diminuiti drasticamente in questi mesi.

È il quadro drammatico che emerge da un documento elaborato dagli operatori dell’area Carcere della Caritas Ambrosiana sulla situazione degli istituti penitenziari di San Vittore, di Bollate e di Opera in Lombardia.

Secondo fonti della Caritas nei tre istituti sarebbero almeno 260 i positivi tra detenuti e lavoratori con una percentuale del 7,7% della popolazione carceraria. Numeri molto più alti di quelli della prima ondata e che solo in parte può essere spiegata con i trasferimenti delle persone contagiate dagli altri istituti della regione nei due Covid Hub allestiti nel frattempo a Bollate e San Vittore. Il tutto, ovviamente, a fronte di un sovraffollamento che conta 3.400 detenuti presenti con una capienza teorica di 2.923 posti. Nonostante la popolazione carcerari sia diminuita dell’8% rispetto a quella registrata l’inizio dell’anno la riorganizzazione degli spazi legata alla necessità di predisporre reparti sanitari per gli ammalati e per l’isolamento dei detenuti positivi al Covid-19 ha costretto molti reclusi a essere trasferiti in altri reparti e a condividere le proprie celle con più persone rispetto alla loro situazione precedente, soffiando su una tensione ormai sedimentata da mesi.

Ma la condizione di sovraffollamento è resa ancora più intollerabile dalla chiusura dei reparti, dei piani e in diversi casi anche delle celle. Nel suo documento la Caritas denuncia che soprattutto nel carcere di San Vittore c’è stata una significativa rinuncia all’applicazione della sorveglianza dinamica che prevedeva nei reparti di media e di bassa sicurezza che le celle restassero aperte almeno negli orari diurni migliorando sensibilmente la vivibilità degli istituti. Le occasioni di socialità hanno subito una brusca frenata anche a causa della chiusura di gran parte delle attività lavorative, delle attività culturali e ricreative e delle occasioni di sostegno psicologico e sociale che nei tre penitenziari erano garantite dalla presenza di operatori esterni all’amministrazione penitenziaria e di volontari. «Le attività scolastiche sono ferme e non è, a oggi, stata attivata alcuna forma di didattica a distanza, le attività trattamentali sono ridotte al lumicino», scrive la Caritas nel suo rapporto.

È un girone infernale: la mancata presenza di volontari ha influito pesantemente anche sulla distribuzione di indumenti e di prodotto per l’igiene personale (che l’amministrazione penitenziaria non riesce a garantire nemmeno nella misura prevista dalla legge). A farne le spese ovviamente sono i detenuti più indigenti e più fragili. A San Vittore ci sono detenuti che non hanno nemmeno abiti adatti per proteggersi dal freddo invernale. Persino l’accesso degli avvocati è fortemente limitato e l’impossibilità di svolgere i colloqui con i propri famigliari è resa ancora più intollerabile dalla limitazione (e in alcuni casi addirittura la sospensione) di poter ricevere i pacchi con indumenti, prodotti alimentari e altri beni. «Nonostante siano chiare – scrive la Caritas Ambrosiana – le esigenze sanitarie che, in carcere come fuori, suggeriscono di limitare le occasioni di contatto interpersonale, quel che più preoccupa è il protrarsi della durata di questo regime d’eccezione, con il blocco proprio di quelle attività che più di tutte assolvevano alla funzione rieducativa della pena stabilita dalla Costituzione e che dunque sono indispensabili per un corretto funzionamento del sistema penitenziario». Si attende che il ministro batta un colpo.

L’articolo Le carceri diventano un vero e proprio inferno: detenuti contagiati e infreddoliti proviene da Il Riformista.

Fonte

Dora

Ricoverata per un’operazione all’anca. Contagiata all’interno della clinica. Dimessa per errore come negativa al Covid. Morta e abbandonata in un deposito del cimitero in mezzo ai sacchi della spazzatura. È accaduto a Monopoli. Ora la famiglia di Teodora Scarafino chiede giustizia

«Io quest’anno non ho voglia di festeggiare niente, l’idea di passare le feste senza mia mamma è lacerante. Ho dovuto a malincuore preparare l’albero per mia figlia ma voglio solo che quest’anno passi il più velocemente possibile, il più silenziosamente possibile». Non trattiene la commozione Roberto Leoci mentre racconta a Left la drammatica storia di sua mamma Teodora Scarafino, per tutti Dora, che è uno delle migliaia di lutti che attraversano il Paese in quest’epoca di pandemia ma che assume i contorni di un enorme schiaffo in pieno viso per come si sono svolti i fatti.

Dora era il perno della famiglia, sempre attiva, sempre dedicata alle cure di suo marito, dei suoi figli e dei suoi nipoti. La sua cucina era sempre in movimento per ospitare qualcuno a pranzo o a cena, lei che la domenica andava in campagna per raccogliere ciliegie e i capperi e gli asparagi e preparare quelle cene di famiglia che tenevano insieme quattordici persone.

«Non era una presenza: era la presenza», dice il figlio. E proprio per essere in forma in occasione delle feste che arrivavano Dora aveva deciso di farsi operare all’anca, «avremmo anche potuto ritardare» dice Roberto. E invece il 7 settembre la signora Scarafino viene ricoverata nella clinica Mater Dei di Bari per un’operazione che avrebbe dovuto essere di routine. «Effettua il tampone in ingresso, negativo, – racconta il figlio – va tutto bene e dopo tre giorni viene trasferita nel reparto di riabilitazione motoria per iniziare il suo percorso di recupero». Anche in questo caso tutto procede nella norma, arriviamo ai primi di ottobre: «Era il 2 o 3 ottobre e ci sentiamo telefonicamente poiché le visite erano proibite dalle norme anti Covid. Mia madre mi racconta, un po’ preoccupata, che la sua vicina di letto, in stanza con lei, lamenta tosse, febbre e dolori vari».

I quattro figli di Dora si preoccupano, durante la prima ondata del virus a marzo l’hanno tutelata con molta attenzione. «Comincia a fare dei ragionamenti non suoi, sragionava, ad esempio mi chiedeva se mio padre fosse rientrato dal lavoro eppure mio padre è in pensione da anni». I figli chiedono informazioni a medici e infermieri ma non ottengono risposte, vengono sommariamente rassicurati, gli dicono che non c’è nessun problema e che la febbre della compagna di stanza è una semplice influenza, probabilmente dovuta a un colpo di freddo.

Il 5 ottobre la signora Dora comunica ai figli che alla vicina di letto è stato fatto il tampone, una risonanza e i raggi ai polmoni. «Aumenta ovviamente la preoccupazione – racconta il figlio al nostro settimanale – ma dalla clinica la risposta è sempre la stessa: state tranquilli. La signora continua a rimanere in camera con mia madre. Addirittura il giorno successivo, il 6 ottobre, me la passa al telefono e quella mi saluta, “tranquillo tranquillo” mi dice mia mamma»·

Quello stesso giorno, nel pomeriggio, tutto precipita: «Nostra madre ci chiamava e ci dice che l’hanno spostata in un’altra camera, con tutte le sue cose, il suo letto, il suo armadietto, i suoi vestiti, che non le permettono nemmeno di affacciarsi sul corridoio dell’ospedale, che si sente reclusa. Io e mio fratello partiamo subito, cerchiamo di parlare con vari medici, non ci fanno entrare e riusciamo solo a metterci in contatto con una dottoressa che ci dice che l’ex compagna di stanza di nostra madre non è positiva al tampone e di stare tranquilli. Addirittura prende nostra mamma dalla stanza dov’era e la fa affacciare dalla finestra. Mia madre continua a sragionare, in quell’occasione disse a me e a mio fratello di “fare i bravi con i medici” perché la stavano trattando bene».

I due fratelli tornano a casa, a Monopoli, in attesa del risultato del tampone. Quella sera stessa leggono alcune notizie di un focolaio di Covid proprio nella clinica Mater Dei di Bari. La mattina dopo si rimettono in macchina e ripartono, riescono a parlare con il direttore sanitario della struttura che li rassicura, ancora, conferma che ci sono casi di positivi nel reparto ma dice di non preoccuparsi. Alle 15 arriva l’esito del tampone: negativo. «Diciamo a mia mamma di firmare le dimissioni, anche perché erano cinque giorni che non faceva più riabilitazione e non aveva senso rischiare. Arriviamo in ospedale e in tre minuti fanno uscire nostra madre al freddo, in pigiama, con la sua valigia. In auto non stava bene: tossiva, aveva dolori e difficoltà respiratorie». Ma era negativa, nessuno si preoccupa. Due ore dopo la clinica richiama e dice che c’è stato un errore: avevano scambiato il tampone di ingresso con quello di uscita, la signora Dora è positiva. I figli non possono credere di ritrovarsi in una situazione del genere: chiamano il 113, scrivono all’Asl, alla Regione Puglia, decine di mail, nessuna risposta. Solo il medico di base prescrive una cura.

Il 14 ottobre la donna viene portata via in ambulanza. Tutta la famiglia si mette in isolamento, una figlia viene ricoverata per Covid. Dora viene portata in terapia intensiva dove il suo ultimo calvario finisce con la morte: «Un percorso in ospedale di tre settimane che l’ha portata alla morte – racconta il figlio – ma l’ultimo schiaffo doveva ancora arrivare. Il giorno 9 novembre ci restituiscono il corpo e la bara viene trasportata in un ufficio del cimitero di Monopoli adibito a deposito. La bara di mia madre la ritroviamo in mezzo a sacchi della spazzatura, ossari, lettighe per le tumulazioni. Veniamo addirittura minacciati da chi avrebbe dovuto prendersi cura di quel luogo. Noi siamo andati completamente fuori di testa, ho scoperto lati di me che non conoscevo, vedere il corpo di mia madre in quelle condizioni mi ha ferito perfino di più di quella clinica che l’ha uccisa». Ora la famiglia di Dora sta preparando le denunce mentre i responsabili del cimitero si sono sommariamente scusati con un articolo su un giornale locale e il direttore della clinica Mater Dei ha parlato di un “errore fatto in buona fede”.

«L’ultima volta che l’ho sentita – racconta Roberto – prima che entrasse in terapia intensiva le ho detto che qui tutti, i suoi figli e i suoi nipoti, le volevamo un gran bene e lei senza rendersi conto che era un addio mi ha detto “sono vostra madre, è normale che mi vogliate bene”». Ora i figli di Dora chiedono di ottenere, dopo il dolore, un po’ di giustizia.

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Il senso del lavoro di Sgarbi

Vittorio Sgarbi, da sempre incapace di entrare nel merito nelle sue baldanzose e sconclusionate uscite in cui attacca gli avversari politici di turno, ha pensato bene di criticare Virginia Raggi con una bella provocazione classista delle sue, dicendo: «Secondo me prima di fare il sindaco era una cameriera nell’ufficio di avvocati e guadagnava 600 euro al mese». Essere cameriera e guadagnare 600 euro al mese evidentemente per il critico d’arte è elemento di vergogna e di inettitudine. Del resto, mica per niente, Sgarbi da sempre è l’assiduo frequentatore di immorali imprenditori. Virginia Raggi, da canto suo, ha risposto parlando della dignità dei camerieri e tutto il resto, seguita a ruota da Di Maio.

Ma c’è un aspetto interessante in tutto questo: Sgarbi ha pronunciato la sua infelice frase mentre si candidava come sindaco di Roma (e già cerca di attaccarsi ai pantaloni di Calenda) e praticamente in contemporanea ha annunciato la sua candidatura in Calabria. Del resto che Sgarbi sia terrorizzato dall’idea di dover lavorare senza politica lo racconta benissimo la sua storia politica che Fondazione Critica Liberale ha messo tutta in fila e che letta tutta d’un fiato fa parecchio spavento:

«1) Unione monarchica italiana; 2) Partito comunista italiano, accettando la proposta di candidarsi al consiglio comunale di Pesaro, nel 1990, candidatura poi fallita per avere contemporaneamente accettato anche la proposta di candidato per il Psi; 3) Partito socialista italiano, per il quale è stato eletto nel 1990 consigliere comunale a San Severino Marche; 4) Dc-Msi, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di San Severino Marche nel 1992; 5) Partito liberale italiano, per il quale è stato deputato nel 1992; 6) Forza Italia, con la quale è stato eletto deputato nel 1994, nel 1996, nel 2001 e 2018; 7) Partito federalista, che ha fondato nel 1995 e poi lasciato per aderire alla 8) Lista Pannella-Sgarbi; 9) “I Liberal – Sgarbi”, movimento da lui fondato nel 1999; 10) Polo laico, movimento effimero esistito nel 2000 per garantire una rappresentanza alle elezioni dell’anno successivo ai Liberali e ai Radicali Italiani; 11) Lista consumatori, con la quale si è candidato, per le Politiche del 2006, senza essere eletto; 12) Udc-Dc, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di Salemi nel 2008; 13) Movimento per le autonomie con il quale è stato candidato alle elezioni europee del 2009 nel cartello elettorale L’Autonomia nella Circoscrizione Isole; 14) Rete Liberal Sgarbi-Riformisti e Liberali nelle elezioni regionali 2010 del Lazio; 15) Partito della Rivoluzione-Laboratorio Sgarbi, movimento politico fondato dallo stesso Sgarbi ufficialmente il 14 luglio 2012; 16) Intesa popolare, partito fondato nel 2013 assieme a Giampiero Catone; 17) i Verdi, in occasione delle elezioni comunali a Urbino del 2014, hanno sostenuto la sua iniziale candidatura a sindaco e poi la proposta al sindaco eletto di nominarlo assessore alla Cultura del Comune di Urbino, a seguito dell’alleanza tra i Verdi e la coalizione di Centrodestra, guidata da Maurizio Gambini; 18) Rinascimento, partito da lui fondato con Giulio Tremonti nel 2017 con il quale inizialmente si candida come governatore alle Regionali in Sicilia; in seguito appoggerà la candidatura di Nello Musumeci per la coalizione di centrodestra, che risulterà eletto. In vista delle elezioni politiche del 2018 il partito si federa con Forza Italia; 19) Alleanza di centro, il 12 dicembre 2019, nel gruppo misto della Camera, sei giorni dopo che Sgarbi ha lasciato il gruppo di Forza Italia, si costituisce la componente “Noi con l’Italia – Usei – Alleanza di Centro”, poi divenuta, il successivo 18 dicembre, “Noi con l’Italia – Usei – Cambiamo! – Alleanza di Centro”».

Eccolo il senso del lavoro per Sgarbi: navigare da un partito all’altro in cerca di un ruolo pubblico. Poi si potrebbe ricordare la condanna in via definitiva a 6 mesi e 10 giorni per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato, per produzione di documenti falsi e assenteismo nel periodo 1989-1990, mentre era dipendente del ministero dei Beni culturali.

Poi, oltre a quello che fa, c’è quello che dice e come lo dice. Ma qui si cadrebbe in un dirupo, sarebbe troppo, anche per un buongiorno.

Buon giovedì.

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Caserma, manette, botte

Troppe cose non tornano nel caso di Emanuel Scalabrin, morto a 33 anni nella caserma dei carabinieri di Albenga

Ci sono tutte le caratteristiche per essere una di quelle brutte storie a cui purtroppo ci siamo abituati e per questo la vicenda di Emanuel Scalabrin va raccontata per bene, punto per punto, compresi i lati oscuri che ci sono tutti intorno.

Emanuel ha 33 anni e fa il bracciante agricolo. Ha problemi di dipendenza. Il suo arresto lo raccontano i suoi famigliari nelle parole pubblicate dalla Comunità San Benedetto al Porto, fondata da don Andrea Gallo, «Secondo il racconto dei parenti il 4 dicembre Emanuel verso le 12.30 si trova nella sua casa di Ceriale insieme alla compagna Giulia, mentre il loro figlio minore di 9 anni si trova presso una famiglia di amici. Ad un certo punto mentre si apprestano a pranzare viene a mancare la corrente elettrica ed Emanuel esce dalla porta di casa per verificare se si tratta di un’interruzione o altro. Improvvisamente viene spintonato all’interno dell’alloggio da alcuni agenti in borghese che erano lì appostati per l’irruzione, lui viene trascinato all’interno della casa fino alla camera da letto e qui gettato sul materasso dove viene colpito in ogni parte del corpo torace, addome, schiena, viso ed estremità».

Emanuel urla e chiede aiuto, dice che non riesce a respirare mentre Giulia la sua compagna implora i carabinieri del nucleo di Albenga di fermarsi.

L’arresto dura 30 minuti. Il ragazzo viene portato nella cella di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga. Non si sente bene. Alle 21 viene chiamata la Guardia medica che lo visita per un’ora e che chiede di trasferire Emanuel in ospedale. Viene portato con l’auto di servizio dei Carabinieri e al Pronto Soccorso ci rimane per 5 minuti. Cinque. Non viene fatto nessun accertamento. Gli viene solo dato del metadone perché i medici del Pronto soccorso ipotizzano che si tratti di una crisi di astinenza.

Rientra in cella verso mezzanotte. Da lì, il buio. Verrà ritrovato morto alle 11 del mattino del giorno successivo, il 5 dicembre. Cosa sia successo quella notte non si può sapere perché la videocamera di sorveglianza della cella non aveva l’hard disk e quindi le immagini non sono state registrate.

La Procura di Savona ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Il pubblico ministero Chiara Venturi, appena giunta sul posto, ha prontamente chiesto non solo una ispezione del corpo al medico legale, ma anche un confronto con il fotosegnalamento con l’obiettivo di rilevare eventuali ecchimosi successive all’arresto.

Cosa è successo? Sperando di non ritrovarci di fronte ancora alla retorica delle mele marce. Intanto lo raccontiamo, vigiliamo, aspettiamo.

Buon venerdì.

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