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condanna

Dove sono i difensori ciellini di Don Inzoli?

Don Inzoli al Convegno organizzato dalla Regione Lombardia per tutelare i valori «della famiglia tradizionale».
Don Inzoli al Convegno organizzato dalla Regione Lombardia per tutelare i valori «della famiglia tradizionale».

Qualcuno li avvisi che quello che era (secondo loro) un perseguitato ha risarcito 5 vittime per violenza sessuale e pedofilia:

«Venticinquemila euro alle famiglie dei cinque minori di cui avrebbe abusato. È il risarcimento consegnato da don Mauro Inzoli, 66 anni, esponente di spicco di Comunione e Liberazione sospeso a divinis da Papa Benedetto XVI nel 2012 con l’accusa di pedofilia.

Il religioso ha consegnato a titolo di risarcimento 25mila euro a testa alle famiglie dei cinque ragazzi parti offese nel procedimento che lo vede accusato di violenza sessuale. Un risarcimento che di fatto evita la costituzione di parte civile da parte delle famiglie nel processo, che verrà celebrato con rito abbreviato. La prossima udienza prevista per il 29 di giugno.»

(fonte)

La condanna a Grillo vista dal paese dei cialtroni e degli avvoltoi

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Senza cadere nel gioco del “tutti ladri” perché “nessuno sia ladro” mi chiedo (e non trovo una risposta) se davvero sia da un’affermazione fatta da Grillo, come mille altre, contro una lobby di pensiero che si debba ripartire per mettere argine ad una classe politica che trova nell’iperbole detta un male minore rispetto alle spericolatezze etiche delle malefatte. Mi chiedo se qualcuno di noi abbia mai pensato di denunciare una delle milioni di bugie che ci vengono propinate quotidianamente, mi chiedo se davvero qualche magistrato non abbia mai intravisto un’apologia di reato nelle parole di una Santanchè qualsiasi, tanto per citarne una?

Ben venga la condanna per un linguaggio molesto di cui avremmo bisogno di liberarci per davvero ma allora ci dovrebbero essere decine di dirigenti politici condannati subito domani per “associazione politicante di bene pubblico per interesse privato”. Un reato così, una cosa da “inettitudine al governo” o un reato di cialtroneria o un rinvio a giudizio per atteggiamento avvoltoio. Perché altrimenti se ne colpisce uno senza sapere che sarà il santo e il martire della prossima incazzatura.

Ed è patetico un Paese che trasforma un comico in un Pertini o Mandela mentre gli altri con il sangue che gli gocciola in tasca ridono fuori scena.

Ne ho scritto qui.

“Si è sollevata una nuvola”. Con settant’anni di ritardo.

Nella primavera del 1944 venne giustiziato sulla sedia elettrica. Aveva 14 anni. Ma George Stinney jr, il più giovane condannato a morte nella storia degli Stati Uniti, era innocente. La verità è arrivata insieme alla giustizia, ma dopo 70 anni. La sua è una storia che balza fuori dagli anni bui del razzismo. Il ragazzino di colore era andato al patibolo in Carolina del Sud per il duplice omicidio di due bambine bianche trovate morte con il cranio fracassato.

Mary Emma Thames e Betty June Binnicker, 7 e 11 anni, vennero massacrate a colpi di spranga. Stinney fu arrestato dopo che alcuni testimoni avevano raccontato di averlo visto raccogliere fiori insieme alle due vittime. Il ragazzo confessò. Ma quella verità venne estorta con la violenza. Venne condannato senza dubbi da una giuria composta da soli bianchi. Dopo nemmeno due mesi finì tra le mani del boia, a sole 12 settimane dall’arresto. Ma nel 2004 uno storico si mette a studiare il caso. Scopre – come riporta il Corriere della Sera – i buchi neri che costellarono le indagini e il processo: le prove contro George erano pochissime. Nel 2013 viene chiesta ufficialmente la riapertura giudiziaria. E a gennaio 2014 il giudice Carmen Mullen ascolta le testimonianze del fratello e delle sorelle di Stinney jr, e di altre personme. I risultati dell’autospia vengono riletti e crollano. L’epilogo oggi, con l’annullamento della condanna. “Lo stato della South Carolina compì una gran ingiustizia” dice oggi il giudice Mullen. “Si è sollevata una nuvola”, si commuove la sorella minore, Katherine Robinson, oggi ottantenne, che per anni si è battuta per far riaprire il caso.

(link)

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Forti con i deboli

Confermata dalla Cassazione la condanna a 12 anni di reclusione ciascuno per i due agenti della Polfer D’Aquanno e Romitaggio, per l’omicidio del clochard Giuseppe Turrisi, avvenuto nell’ufficio della Polfer della Stazione Centrale di Milano il 6 settembre 2008. La suprema Corte ha respinto il ricorso dei due imputati. In particolare, la quinta sezione penale della Cassazione ha confermato il verdetto emesso dalla Corte di Assise di Appello di Milano il 29 gennaio 2013. In secondo grado le pene erano state aumentate: in primo grado, infatti, a Emiliano D’Aguanno erano stati inflitti 10 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale e 3 anni a Domenico Romitaggio con l’accusa di falso. In secondo grado, invece, sono stati ritenuti entrambi gli agenti della Polfer responsabili del pestaggio mortale di Turrisi.

«È stato un pestaggio debordante e selvaggio» quello che ha ucciso il clochard Giuseppe Turrisi per effetto dei calci e dei pugni sferrati dai due agenti della Polfer di Milano Emiliano D’Aguanno e Domenico Romitaggio. Lo ha detto il sostituto procuratore generale della Cassazione Pasquale Fimiani assistendo alla lettura del verdetto di condanna emesso dalla quinta sezione penale. Il pg Fimiani, nella requisitoria aveva chiesto il rigetto del ricorso dei due agenti. «C’è un fotogramma – ha ricordato Fimiani – che mostra il povero Turrisi mentre entra vivo, con i suoi piedi, nella stazione dell’ufficio della Polfer». Il clochard sarà portato via dall’ambulanza e morirà poco dopo essere arrivato in ospedale: «Ad essere stato letale è stato un calcio sferrato con gli anfibi che ha causato delle emorragie interne», ha spiegato Fimiani che ha condiviso l’impianto della sentenza di appello. Il calcio avrebbe provocato la rottura della milza. D’Aguanno e Romitaggio sono stati anche condannati a pagare le spese di giustizia e a rifondere con quattromila euro le spese dei difensori della parte civile.

(fonte)

La (prevista) brutta fine di Massimo Ponzoni

L’ennesimo pezzo di formigonismo e di brutta Lombardia che ha impunemente governato per anni:

formigoni_ponzoniEra stato mister 11mila voti, rimasto potente nonostante la perdita della carica di assessore e con l’aspirazione a ottenere una “delega per i lavori dell’Expo 2015″. Poi per Massimo Ponzoni, ex assessore regionale della Lombardia ed ex segretario dell’ufficio di presidenza in era Formigoni, era arrivata un’ordinanza di custodia cautelare. Era il gennaio del 2012 e oggi a poco più di due anni dalla sua consegna agli uomini della Guardia di Finanza è arrivata la sentenza di primo grado: una condanna a dieci anni e sei mesi di reclusione messo dai giudici del Tribunale di Monza.

A Ponzoni venivano contestati la corruzione, la concussione e bancarotta fraudolenta nell’ambito del ‘crac Pellicano’, la società immobiliare con sede a Desio di cui l’allora assessore era socio, dichiarata fallita dal tribunale di Monza per un ammanco di circa 600mila euro. L’inchiesta era però stata stralciata  da un’indagine della Dda di Milano sulla ‘ndrangheta. Di cui Ponzoni che al telefono si vantava di aver potuto fare a meno – diversamente dalle elezioni del 2005 – sostenendo in una conversazione intercettata: “Mi sono tolto di mezzo la grande soddisfazione di arrivare primo… secondo sono arrivato con Carugo e terzo mi sono tolto i voti dicerti personaggi affiliati a certi clan“. Per il difensore di Ponzoni, l’avvocato Luca Ricci si tratta di “una sentenza ingiusta”.

Con l’ex assessore sono stati poi condannati dai giudici monzesi a pene che vanno dai due anni e mezzo a cinque anni e mezzo, tutti e quattro i coimputati accusati a vario titolo di corruzione, concussione e bancarotta fraudolenta.

Ponzoni era stato arrestato il 17 gennaio del 20012 quando si era consegnato alla Guardia di Finanza perché su di lui pendeva un’ordinanza di custodia cautelare. Il gip ha firmato aveva firmato l’arresto anche per l‘imprenditore Filippo Duzioni, per l’ ex sindaco di Giussano Franco Riva e l’ex assessore provinciale e tecnico del Comune di Desio Rosario Perri (per questi erano stati disposti i domiciliari).  Per il giudice esisteva ”un radicato e diffuso sistema di illegalità che presenta, come dato comune, l’asservimento della funzione pubblica all’ interesse privato”; un ”contesto affaristico” non solo fatto, secondo la ricostruzione di presunte mazzette,”voti comprati”, appoggi per scalate all’interno delle amministrazioni locali in cambio di interventi sui piani di governo del territorio, ma anche legato con un filo alla ‘ndrangheta e che ha portato a iscrivere nel registro degli indagati, accanto a Ponzoni, oltre venti persone, tra suoi parenti, imprenditori, commercialisti e pubblici ufficiali.

Secondo il gip c’era anche  ”la sua dedizione al consumo di droga”, la ”cocaina”, a cui si aggiungono i ”costi del lusso”, a spingerlo ”procurarsi liquidità”. Bisogno questo, secondo il giudice, che l’avrebbe portato a commettere ”fatti corruttivi”, e per la quale sarebbero state ”strumentali (…) anche le condotte distrattive poste in essere nella gestione delle società” poi fallite o a lui riconducibili. Società svuotate, per l’accusa, per comprare voti o finanziare la sue campagne elettorali. E poi per pagare ”noleggi di barche” e anche ”viaggi esotici” al governatore della Lombardia Roberto Formigoni fino ad arrivare agli oltre 13 mila euro pagati da il Pellicano alla pasticceria Cova di via Montenapoleone, a Milano, o ai 62.400 euro versati a un ‘centro studi arredamenti” della Brianza.

Tenere il punto. Fermo.

Per ottenere questo, oltre tutto, la strada è assai semplice: basta che ognuno faccia la sua parte, nella distribuzione dei ruoli che l’assetto istituzionale prevede: assicurare la decadenza; sanzionare la ineleggibilità; nessuna grazia a posteriori, neanche di tipo semplicemente risarcitorio o consolatorio; garantire l’esecuzione della pena nelle forme previste dalla legge. E, per favore, ci sia risparmiata almeno questa volta la farsa penosa di un ricorso dilatorio (infondato e inutile) alla Consulta, che svelerebbe, forse ancor più drasticamente di quanto non farebbe una qualche forma di “assoluzione”, di quale pasta sia fatto il cosiddetto tessuto politico italiano.

Dopo aver detto “sì” per vent’anni o, ancor più frequentemente, “nì”, – vero simbolo del malcostume nazionale, – si decida per favore di dire con chiarezza “no”: non si può discutere; non si può accettare; non si può fare. L'”agibilità politica” è una nozione che lo Stato di diritto ignora. Infatti: o c’è, perché le condizioni, giuridiche e politiche dell’interessato, la consentono; o, se le condizioni, giuridiche e politiche dell’interessato, non la consentono, non c’è. Non può essere reinventata a posteriori, sulla base del principio, in ogni caso molto dubbio, che il consenso popolare sottrae al controllo e ai rigori della legge.

Un’Italia in risalita, non solo nei mercati e nello spread, ma come tono pubblico generale, civiltà del confronto, libertà del pensiero e, se mi è consentita la parola forte, dignità nazionale (troppe volte evocata solo per lasciarla trascinare nel fango), può partire solo dal punto fermo che ipotizziamo. L’occasione ce l’ha offerta anche questa volta la magistratura; ma spetta ai politici e alle istituzioni di portarla rapidamente fino in fondo.

Non sarà facile, anche restando dentro i limiti rigorosamente fissati dalla “semplice” applicazione delle leggi (come io ipotizzo). Siccome la battaglia è decisiva, – e questo lo sa bene anche il principale protagonista della faccenda, – tutti i mezzi verranno usati, dal rovesciamento dell’attuale governo (esempio supremo di confusione delle sfere) a intraprese anche più dure. Sotto la scorza mediatico-plutocratica emergerà più chiaramente in questa fase finale il caudillo potenzialmente eversore. Verrà evocata senza mezzi termini la guerra civile; ne saranno messe in opera concretamente le premesse, magari attraverso l’alleanza con altre forse eversive incistate ormai da anni nel degradato sistema italiano.

Per fare fronte allo scarto d’irrazionale che s’introduce qualche volta e poi permane a tratti nella storia, l’esperienza insegna che l’unico strumento adatto alla bisogna, – si pensi al Novecento, – è l’assoluta fermezza: l’eloquente dimostrazione, fin dal primo momento, fin dalle prime battute, che l’eversione, il rovesciamento delle parti, lo stupido arrangiamento, il compromesso che posticipa al passaggio successivo l’inevitabile catastrofe, non hanno neanche una minima possibilità di fare il primo passo avanti.

Asor Rosa, qui.

Ecco sì, ci siamo capiti

Malvino oggi lo scrive come non si potrebbe scrivere meglio:

Le sentenze vanno rispettate, sempre, anche quando sono considerate ingiuste, perciò, da quando la Corte di Cassazione ha stabilito che l’espressione «paese di merda» configura il reato di vilipendio alla nazione, io mi limito a pensarlo, e, anche se ritengo che non ci sia definizione più efficace per esprimere il degrado morale, culturale e politico in cui versa l’Italia, la evito, e mai – mai, ripeto – verrei qui a scrivere che «questo è un paese di merda»: mi costa enorme sacrifizio, ma la legge è legge, e dinanzi ad essa mi inchino. Tuttavia, anche se vanno rispettate, le sentenze possono essere criticate, ed io qui potrei avvalermi di tale diritto, spiegando perché, a mio modesto avviso, «paese di merda» sia definizione che all’Italia va proprio a pennello, chiamando illustri autori in favore della mia tesi, vuoi sulla forma, vuoi sulla sostanza, e però ci rinuncio, anche perché al post dovrei dare necessariamente un titolo che contenga l’espressione, e questo potrebbe dare l’impressione, almeno al lettore malizioso, che, per capzioso aggiramento, io voglia violare la legge sopravanzando il legittimo diritto. Perciò mi risolvo a titolare: Ci siamo capiti.

Il resto (da leggere) è qui.