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L’ultima vergogna della destra italiana: Roberto Fiore e Susanna Ceccardi compiangono i martiri pro-Trump

Prima è arrivato Roberto Fiore, sì proprio lui. Il segretario di Forza Nuova, che in un Paese normale non sarebbe nemmeno un partito ma un’illegale accolita di fascisti violenti e rancorosi, ci illumina sulla politica USA con un epitaffio su Ashli Babbit, la donna rimasta uccisa negli scontri di Washington mentre assaltava il Congresso americano.

Sia chiaro, tanto per spazzare subito il campo: ogni perdita di vita umana è una sconfitta per tutti e ogni volta che una persona perde la vita in uno scontro con polizia e forze dell’ordine è dovere di verità e giustizia accertare le dinamiche, le cause e le responsabilità.

Torniamo a Fiore: “Onore ad #AshliBabbitt, morta per le libertà. Uccisa vigliaccamente dalla polizia con altri 3 dimostranti. È la prima eroina della Rivoluzione popolare americana e va ricordata come una donna disarmata e coraggiosa che ha offerto il petto e il volto a un potere corrotto e vile”, scrive sui suoi social. Per poi aggiungere: “Media e partiti si stracciano le vesti per assalto a ‘democrazia’ dei brogli e delle truffe. Nessuno pensa ai 4 manifestanti assassinati da sicari del Deep State. Uomini in nero uccidono a freddo per terrorizzare chi ama la sua Nazione. Come fu con Alba Dorata e ad Acca Larenzia”.

In pratica il segretario di Forza Nuova ci dice chiaramente che Babbit era dalla parte giusta della storia, che la polizia fosse al servizio di un “potere corrotto e vile” e che quell’assalto che tutto il mondo condanna sia stato addirittura un alto momento di democrazia. Qui, per dirla semplice semplice, stiamo parlando di veri e propri “fiancheggiatori” che rivendicano con orgoglio ciò che è accaduto negli USA. Segnatevelo bene, vi tornerà utile quando fingerete di stupirvi che anche qui da noi ci siano gli stessi fascisti esaltati che hanno imperversato con Trump.

Poi è arrivata Susanna Ceccardi, donna di punta della Lega di Matteo Salvini, che in modo più morbido, ma ugualmente disgustoso, scrive: “I morti in America dopo gli scontri sono ben 4. Tutti sostenitori di Trump. Si fosse trattato al contrario di una manifestazione di sinistra questi 4 sostenitori sarebbero stati già dei martiri contro lo Stato che reprime la libertà di pensiero. Invece erano di destra, quindi facinorosi. Ashli Babbit è una delle vittime, era una veterana delle forze armate. Era disarmata quando è morta”.

Insomma anche la Ceccardi non riesce a cogliere il problema di assalire il palazzo simbolo del governo. E badate bene: questi sono gli stessi che rivendicano il diritto della violenza per legittima difesa con il ladruncolo che salta dentro il proprio giardino. Sono gli stessi che urlano “ordine e disciplina” in ogni pezzo di conversazione. Sono quelli che scambiano la legge per una roncola da usare contro l’avversario, o calpestare in nome della libertà per se stessi. Sempre loro.

Leggi anche: 1. Il giorno più buio dell’America (di Giulio Gambino) // 2. Il golpe di Trump (di Luca Telese) // 3. La democrazia Usa cancellata per qualche ora, ma il vero sconfitto è Trump (di G. Gramaglia); // 4. Ora non dite che sono solo quattro patrioti sballati (di Giulio Cavalli); // 5. E se i manifestanti pro Trump che hanno assaltato il Congresso fossero stati neri?

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E gli amichetti di Trump?

Meloni e Salvini (e non solo loro) fischiettano facendo finta di niente, come se quello che è avvenuto negli Usa sia qualcosa che non li riguardi

Il giorno dopo l’assalto al Congresso Usa qui da noi si è assistito a un teatrino desolante ma significativo. Qualcosa che va raccontato perché se è vero che le violenze hanno un nome e un cognome, Donald Trump che istigato, lisciato e perfino ringraziato i manifestanti, è anche vero che gli amichetti di Trump, quelli che per 4 anni hanno fatto finta di non vedere questo tragico intercedere dello svilimento della democrazia che si professa la “più importante del mondo” sono desolanti nella loro vergogna.

Gli amichetti italiani di Trump fischiettano facendo finta di niente e intercedono come se quello che sia avvenuto negli Usa sia qualcosa che non li riguardi, sorridono alle telecamere parlando il più genericamente possibile e sperano di non essere visti mentre si infilano la testa sotto la sabbia.

Partiamo da un presupposto: gli accadimenti americani sono figli di un presidente che prima ha usato la rabbia e la violenza per racimolare voti, poi ha alimentato la rabbia e la violenza con un linguaggio e dei comportamenti della stessa pasta e rilanciando notizie false, poi l’ha condonata quando sono accaduti episodi condannabili nel suo Paese da parte dei suoi sostenitori, poi l’ha legittimata inventandosi nemici per giustificare i propri limiti di governo e infine l’ha istituzionalizzata cianciando di elezioni truccate senza nemmeno riuscire a raccogliere uno straccio di prova a supporto della sua tesi. Quelli hanno occupato i palazzi delle istituzioni perché si sentono loro stessi “istituzioni” sotto assedio. Era immaginabile che finisse così.

Ma in Italia? Giorgia Meloni lo scorso gennaio a proposito di Trump diceva che fosse «la ricetta che vogliamo portare in Italia». Ora che dice, al di là di quattro tweet sputati di circostanza in cui condanna la violenza dimenticandosi di nominare il violento? Matteo Salvini che diceva lo scorso 5 novembre «ha ragione Trump a chiedere controllino voto per voto, seggio per seggio e non escludo nulla. Vedrete che potranno esserci sorprese», che dice delle sorprese che ci sono state? Lui che diceva «vigileremo» che dice? Ma attenzione, non si tratta solo dei destrorsi che a Trump si rifanno in tutto e per tutto da anni. Che dice Di Battista, grande fan di Trump piuttosto che di «quelli golpista di Obama», come ebbe a dire? Davvero il presidente del consiglio Conte non riesce a infilare il nome di Trump nei suoi comunicati di preoccupazione? Vi ricordate Beppe Grillo che diceva che Trump e il M5s avessero “delle similitudini” celebrando l’elezione di Trump a presidente?

La leadership si misura anche nella capacità di fare i nomi e i cognomi. Non è difficile. «Trump ha responsabilità in quanto accaduto» ha detto ieri la Merkel. Perfino il presidente della Ligura Toti e il braccio destro di Giorgia Meloni ci sono riusciti. Dai, sforzatevi, su.

Buon venerdì.

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Ora non dite che sono solo quattro patrioti sballati

Si innamorano dei piromani e poi si stupiscono degli incendi. Il mondo guarda stralunato ciò che accade negli Usa, mentre si spazzano via le ultime briciole di Trump, e sembra risvegliarsi da un sonno profondo, come se non avesse avuto le occasioni per pesarne le gesta, per annusarne la violenza insita in ogni sua dichiarazione e come se avesse dimenticato la natura eversiva, fin dall’inizio della sua presidenza.

Uno stupore che stupisce e che dice molto di tutti quelli che, per anni, hanno attutito la natura criminale di una presidenza che ha basato il proprio consenso su una montagna di bugie, sul disegno continuo di complotti inesistenti, sull’identificazione perenne di qualche nemico da abbattere e non da sconfiggere.

Ora qualcuno perfino prova a derubricare il tutto a una bravata di qualche sballato patriota che ingenuamente crede di difendere il proprio Paese ma, come dice giustamente Biden, delle persone che occupano abusivamente i luoghi della democrazia non rappresentano “una protesta” ma sono tecnicamente “un’insurrezione”.

La fine ingloriosa della presidenza Trump e il giorno nero della democrazia americana sono il naturale risultato di una gestione della politica che occupa il potere mica con l’obbiettivo di governare ma con l’illusione di essere gli unici detentori della verità e con la pretesa di essere la garanzia di democrazia.

L’incendio è scoccato ieri ma ha le radici impantanate nella nascita del movimento dei Birthers, i teorici della nascita africana di Barack Obama, nei deliri di QAnon, nell’evocazione dell’uso delle armi che proprio Trump fece contro i manifestanti di Black Lives Matter (ci rimise il posto Mark Esper, segretario alla Difesa che si rifiutò di usare l’esercito), nelle parole stesse che Trump ha usato ieri con quel “we love you” lanciato agli eversori che occupavano il Congresso.

Stupirsi della violenza sulla coda della presidenza Trump, che in questi anni ha leccato tutte le frange naziste ed estremiste degli angoli più oscuri d’America, significa cadere ancora una volta nel cronico errore di non capire che la violenza delle parole genera inevitabilmente la violenza nelle azioni.

Significa non comprendere che minare le basi di una democrazia vuol dire inevitabilmente delegittimarla e offrirla in pasto a chiunque la voglia usare come arma contro il proprio avversario politico. Non è un problema solo americano: nel momento in cui l’egoismo diventa una fede ognuno si sente Stato con le proprie regole, in guerra con gli Stati che vede negli altri.

Leggi anche:
1. Il giorno più buio dell’America (di Giulio Gambino)
2. Il golpe di Trump (di Luca Telese)
2. La democrazia Usa cancellata per qualche ora, ma il vero sconfitto è Trump (di Giampiero Gramaglia)

Tutte le notizie sulle elezioni Usa 2020

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L’inessenzialità della scuola

Fra pochi giorni in Italia gli studenti sarebbero dovuti tornare in classe. Ma non accadrà. Tra Regioni che procedono in ordine sparso, ritardi nel potenziamento dei trasporti, assenza di visione della politica

Ora ci sono anche i numeri: nel periodo tra il 31 agosto e il 27 dicembre 2020, il sistema di monitoraggio dell’Iss, l’Istituto superiore di sanità, «ha rilevato 3.173 focolai in ambito scolastico, che rappresentano il 2% del totale dei focolai segnalati a livello nazionale». Lo dice il report Apertura delle scuole e andamento dei casi confermati di Sars-Cov-2: la situazione in Italia.

Solo il 2% dei focolai hanno origine in ambito scolastico. Ma il report fissa anche un altro punto: Le scuole non rappresentano i primi tre contesti di trasmissione in Italia, che sono nell’ordine il contesto familiare/domiciliare, sanitario assistenziale e lavorativo».

Fra pochi giorni si dovrebbe tornare a scuola ma non si tornerà, le decisioni verranno prese a macchia di leopardo, i presidenti di Regione ci ricameranno sopra un po’ di retorica elettorale e si ricomincia di nuovo. Si è parlato moltissimo della capacità di osservare il contagio, di convivere con il virus, di conoscere e controllare tutte le variabili in campo ma per le scuole ci si affida alle tifoserie in campo senza che si riesca a studiare un piano complessivo, qualcosa di più dei banchi con le rotelle e le finestre aperte. Sui trasporti si è perennemente in ritardo, sulle precauzioni in classe bene o male si è riusciti a fare qualcosa mentre non si è mai parlato seriamente di risolvere il problema della ventilazione. Ora vi diranno che è tardi. Eppure non sarebbe stato tardi pensarci in tempo, eppure non sappiamo quanto ancora questo elastico di aperture e di chiusure durerà.

Ieri Maddalena Gissi della Cisl Scuola ha rilasciato una dichiarazione che merita attenzione: «Continuiamo a leggere notizie giornalistiche ma con il Ministero non c’è nessun tipo di confronto. I dirigenti scolastici sono stremati; continuano a fare e rifare orari per le attività didattiche in presenza al 50%. Le famiglie sono confuse, i docenti si stanno reinventando modalità didattiche per tenere insieme i gruppi classe e quelli in Ddi (Didattica digitale integrata, ndr). Non è ancora chiaro se alle Regioni sono arrivate le risorse per ampliare la mobilità con mezzi aggiuntivi. In alcuni casi non vengono investiti i finanziamenti assegnati nei mesi scorsi per ritardi burocratici. Ci preoccupa tanto la disomogeneità delle soluzioni».

La Cgil fa notare che «attualmente siamo di fronte a contesti e realtà fortemente differenziate, non solo tra territorio e territorio, ma anche tra scuola e scuola, ecco perché sono necessari monitoraggi e strumenti flessibili finalizzati a fornire le giuste risposte alla varietà delle situazioni, valorizzando l’autonomia delle istituzioni scolastiche e fornendo le risorse necessarie».

Molti esperti temono la riapertura. Qualcuno sommessamente fa notare che l’Italia è uno dei Paesi che più di tutti ha penalizzato le scuole con la chiusura. Qualche virologo propone che vengano usati i tamponi regolarmente (accade nelle fabbriche, del resto, no?) ma niente.

Una cosa è certa: la frammentazione del dibattito indica chiaramente che no, la scuola non è una priorità come lo è stata l’apertura dei grandi magazzini sotto le feste di Natale. La scuola evidentemente non è un servizio essenziale. E, badate bene, non si tratta di chiedere un dissennato rientro in classe fregandosene della pandemia e della salute ma si tratta ancora una volta di sottolineare come la sicurezza in classe sia un argomento da affrontare sempre e solo qualche ora prima della prevista riapertura. Come accade ora.

L’altro ieri il professore di matematica Riccardo Giannitrapani ha condensato benissimo il concetto: «La gestione della scuola in questi mesi ha un grande valore didattico: insegna a ragazzi e ragazze che il cosiddetto mondo adulto può essere inadeguato. Una preziosa lezione sul fallimento».

Buon martedì.

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La prima nata a Genova dimostra che non c’è solo il Covid da combattere nel 2021, ma anche (e ancora) il razzismo

Il 32 dicembre in molti speravano che fosse il primo gennaio, che l’anno nuovo si fosse portato via mica solo il Covid-19 da combattere ora con un vaccino finalmente disponibile ma anche le croste di quelle brutture che hanno insozzato un anno già difficile, pesante, inquinato da un cattivismo (in tutte le sue forme: razzismo, disprezzo per i poveri, bastoni sui disperati) che ha reso l’aria ancora più tossica e pestifera.

Il 32 dicembre il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti ha pubblicato sul proprio profilo Facebook la foto di una mamma che tiene in braccio la figlia appena nata. La bambina si chiama Graeter ed è la prima nata a Genova. Graeter è figlia di Joy, una donna nata in Nigeria, come il papà della bimba. “Siete la nostra speranza, il nostro futuro, la forza per non mollare in questo nuovo anno che è appena iniziato. Benvenuti al mondo piccoli e auguri alle vostre famiglie a nome mio e di tutta la Liguria”, scrive Toti.

E il 32 dicembre inizia lì dov’era finito, con una tormenta di commenti a sfondo razzista: “Dopo il vaccino obbligatorio, lo ius soli? Renzi La aspetta a braccia aperte!”, “Nata in Liguria, ma somala o africana a prescindere…”, “Questo non è vero. Come non è vero che chi nasce in Italia è italiano. Cosa hanno di ligure questi signori? Ma cosa sta dicendo?”, “Stupido e iprocrita pietismo”, “Imbarazzanti lo siete voi…se io fossi nata al polo sud di certo non ero per diritto di nascita un pinguino!”. E così via.

Ovviamente a rimestare nella melma si butta anche la Lega che con il deputato Edoardo Riki si butta a capofitto a chiarire che “quella bambina non è ligure” e che addirittura si spreca in moralismo spiccio: “Niente contro di lei, ma devo dire che poi non apprezzo il fatto che si mettano in mezzo bambini appena nati e si utilizzino per commenti politici”. Alla fine perfino Toti, sconsolato da tanta bassa bruttezza, è costretto a intervenire sulla sua bacheca cercando di abbassare i toni.

E così il 32 dicembre del 2020 che molti hanno scambiato per il primo giorno del 2021 l’Italia fa ancora i conti con quello che è: una livorosa accozzaglia di diritti ostinatamente da negare e di una realtà ostinatamente taciuta e nascosta. Ne ha fatto le spese Graeter ma in fondo è stato il risveglio anche per noi: l’anno nuovo inizia quando iniziano nuovi comportamenti, quando si evolvono i pensieri e i modi, quando la realtà riesce a fare risultare “passato” quello che era. E invece niente di tutto questo. È un anno lunghissimo questo decennio.

Leggi anche: Liguria, Toti pubblica la foto della prima nata a Genova: insulti razzisti e scontro con la Lega

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Leghismo in briciole, a Lodi

Il regolamento del Comune a guida leghista discriminatorio nei confronti dei bambini stranieri, impedendo loro l’accesso a servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Milano. Che ha anche condannato il Comune a pagare le spese legali sostenute da un comitato di cittadini

Il Canto di Natale quest’anno è stato scritto a Lodi, città incastrata nelle campagne lombarde e che ci porta un dono di fine anno significativo perché rimette i sensi a posto, restituisce alle parole il suo significato e perché racconta una vicenda che è un vocabolario politico per comprendere come il leghismo ma più in generale il cattivismo, la voglia di disgregazione e l’arroccamento ignorante franino di fronte alla realtà degli eventi e delle leggi.

Qui a Lodi nel 2017 la sindaca Sara Casanova aveva pensato di ritagliarsi un po’ di notorietà con un nuovo regolamento comunale che discriminava l’accesso dei bambini stranieri ad alcuni servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Aveva pensato, quel gran geniaccio di sindaca, di imporre delle regole apposite per i genitori degli alunni stranieri prevedendo l’accesso alle tariffe agevolate (che in Italia vengono stabilite in base al reddito) richiedendo dei documenti aggiuntivi che certificassero chissà quali ricchezze nascoste nei loro Paesi di origine. Del resto era un ottimo modo per inoculare il dubbio che gli stranieri scappino dalla guerra lasciando enormi ricchezze. Una persona normale ci riderebbe su, i sovranisti invece, poverini, ci scrivono golosi teoremi e profondi editoriali.

La vicenda era odiosa perché metteva di mezzo gli stranieri ma soprattutto perché se la prendeva con i bambini. Del resto è tipico dei leghisti fare i forti con i deboli, loro ci riescono solo così. E si sentono perfino dei condottieri, poveretti, quando sono solo gli scherani di una poraccitudine che affila i denti sulle prede indifese. Era andata a finire che molti genitori avevano chiesto di condividere i pasti dei propri figli con i bambini stranieri. Del resto dividersi il pane dovrebbe essere l’atto politico più alto e nobile. Dovrebbe.

Nel 2018 l’Asgi, associazione degli studi giuridici sull’Immigrazione, e il Naga, associazione volontaria di assistenza sociosanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti, presentò un ricorso contro il regolamento del Comune di Lodi. Il 13 dicembre 2018, un’ordinanza del tribunale di Milano stabilì che il regolamento era discriminatorio e chiese il ripristino dei precedenti criteri di accesso alle agevolazioni per le mense e il trasporto scolastico.

La sindaca Casanova insiste, presenta ricorso. Ora la Corte d’appello di Milano ha respinto il ricorso. Nella sentenza si legge: “La differenziazione introdotta dal regolamento del Comune di Lodi introdotto con Dgc 28/2017 in punto di documentazione su redditi/beni posseduti (o non posseduti ) all’estero costituisce una discriminazione diretta nei confronti dei cittadini di Stati extra Ue per ragioni di nazionalità perché di fatto, attraverso i gravosi oneri documentali aggiuntivi richiesti, rende loro difficoltoso concorrere all’accesso alle prestazioni sociali agevolate, così precludendo ai predetti il pieno sviluppo della loro persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza; ne consegue il respingimento dell’appello presentato dallo stesso Comune”. Il Comune di Lodi è stato anche condannato a pagare le spese legali sostenute dal Comitato Uguali Doveri, una rete di cittadini che in quei giorni si è costituita per difendere il diritto di essere uguali.

Sconfitti e costosi: eccoli i sindaci leghisti. E quei giorni orrendi sono diventati un manifesto d’umanità.

Buon giovedì.

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Alla vigilia di Natale, nel silenzio generale, l’Italia ha consegnato una nave militare all’Egitto. Con buona pace di Regeni

Questa volta niente cerimonia strombazzata con foto d’ordinanza e saluto militare. Lo scorso 23 dicembre, presso i cantieri di Muggiano, a La Spezia, mentre tutta l’Italia si affrettava per gli ultimi acquisti di Natale e il governo si concentrava su zone arancioni che sarebbero diventare rosse, Fincantieri ha consegnato agli ufficiali della Marina Militare dell’Egitto la fregata multiruolo Fremm Spartaco Schergat, ora ribattezzata “al-Galala”.

Se cercate in giro non troverete nessun comunicato, niente di niente: l’imbarazzo del governo è evidente e la morte di Giulio Regeni, con l’assurda carcerazione di Patrick Zaki, pesa come un macigno.

La consegna è solo il primo passo della vendita di due fregate Fremì all’Egitto di Al-Sisi che avrebbero dovuto essere destinate originariamente alla Marina Militare italiana e che invece sono state vendute all’Egitto senza nessuna comunicazione ufficiale al Parlamento.

La Rete Italiana Pace e Disarmo parla di una vendita “inammissibile” tenendo conto che è avvenuta “senza alcun dibattito in Parlamento in chiara violazione della legge 185 del 1990”. La legge infatti regolamenta le esportazioni militari e prevede il divieto “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i princìpi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere”.

Del resto lo scorso 16 dicembre anche il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che denuncia l’aumento delle esecuzioni in Egitto, il ricorso alla pena capitale e le sistematiche violazioni di libertà. Proprio in quella risoluzione si esortano gli Stati membri dell’Ue a sospendere la vendita di armi all’Egitto.

Consiglio evidentemente inascoltato, se è vero che (lo dice Rete Italiana Pace e Disarmo) le forniture ipotizzate sono “di altre quattro fregate, 20 pattugliatori, unitamente a 24 caccia multiruolo Eurofighter e 20 aerei addestratori M346 ed altro materiale militare del valore tra i 9 e gli 11 miliardi di euro”.

Sullo sfondo risuonano le parole di indignazione del ministro Di Maio (“l’Italia è un Paese fondatore dell’Ue e sul tema dei diritti umani non è concesso fare passi indietro”), del presidente Conte e del presidente della Camera Roberto Fico, che parlò di “attuare decisioni dure contro l’Egitto”.

Parole che vengono rovesciate a fiumi sui giornali e che poi scompaiono quando si tratta di consegnare il prossimo armamento. La verità e la giustizia, intanto, attendono.

Leggi anche: 1. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista) / 2. Tutti a restituire la Legion d’Onore. Bene, ma l’Italia è ben peggio di Macron se non ferma la vendita delle armi all’Egitto (di G. Cavalli)

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E i tamponi?

Nell’ultimo mese il numero dei tamponi si è quasi dimezzato rispetto a novembre. E fatichiamo a inseguire le tre “t”. Mentre si festeggia per il vaccino si ha la sensazione che si sia mollata la presa sul controllo

Ci sono dei numeri su cui vale la pena riflettere e che scompaiono dalla discussione generale: nell’ultimo mese il numero dei tamponi eseguiti a settimana si è quasi dimezzato da circa 1,5 milioni di novembre ai 900mila di questo mese. La ricerca è del fisico Giorgio Sestili che a marzo di quest’anno ha fondato il progetto “Coronavirus – Dati e Analisi Scientifiche” e si occupa di comunicazione scientifica.

″È un calo molto importante, che può essere positivo se legato al fatto che si abbassa la curva dei contagi, in quanto se meno persone hanno i sintomi c’è meno richiesta, ma è negativo se vediamo salire il rapporto fra casi positivi e tamponi, come sta accadendo in questi giorni”, dice Sestili.

E che non sia un calo positivo lo dice l’altissimo tasso di positività del 27 dicembre che ha toccato il 14,9%, come non accadeva dallo scorso 23 novembre mentre il rapporto fra i casi positivi e i casi testati (ossia il numero dei tamponi al netto di quelli fatti più volte alla stessa persone) ha raggiunto il 36%, “in assoluto il valore più alto della seconda ondata”.

È sempre la vecchia storia delle tre “t” (trattamento, tracciamento, tamponi) che da mesi fatichiamo a inseguire. E a proposito del tracciamento il virologo Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca e direttore del laboratorio Cerba di Milano, dice: “fino a un mese fa – ha osservato – si facevano più tamponi, mentre adesso dopo 21 giorni di isolamento alle persone positive asintomatiche il tampone non viene più fatto in quanto sono ritenute non contagiose”.

Quindi mentre si festeggia per il vaccino si ha la sensazione che si sia mollata la presa sul controllo, come se la possibile soluzione futura sia diventata la panacea anche per il presente. E si ha la sensazione di incorrere negli stessi errori di leggerezza del passato. Augurandosi di sbagliarsi, ovviamente.

Buon martedì.

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Il protagonismo di De Luca, che non aspetta il suo turno, fa male alla campagna sui vaccini 

La comunicazione sui vaccini è una cosa terribilmente seria, da strutturare con cura, da gestire con intelligenza e soprattutto da offrire con elementi solidi, con dati scientifici e con le reali proporzioni dell’importanza a livello nazionale. Se davvero la politica ha intenzione di limare le contestazione dei no vax deve riuscire a farlo porgendo un affilato e comprensibile illuminismo che racconti chiaramente come attraverso il vaccino passi inevitabilmente il rialzarsi dalla pandemia e una qualsiasi ripartenza.

L’inizio della campagna vaccinale in Italia, tra primule progettate e stereotipi emozionali svenduti dappertutto, punta inevitabilmente a costruire un clima di fiducia e di speranza che serva a ricompattare un Paese. Sarà facile? No. Serve intelligenza? Sì. E non è una gran mossa intelligente quella del presidente De Luca che ieri si è autoproclamato testimonial inscenando il proprio vaccino a favore di telecamere e con un gran strombazzo di fotografi e interviste.

Non è questione di essere a favore o contro la figura di De Luca come politico ma è qualcosa di più sottile su cui forse varrebbe la pena riflettere: se è vero che un presidente di Stato come Biden che si sottopone al vaccino incarna il senso di comunità di una nazione, è anche vero che sulla distribuzione dei vaccini si giocherà ancora una volta la credibilità del Paese nel soccorrere prima i più esposti, i più fragili e i più bisognosi.

Qualcuno dice “vacciniamo i dirigenti politici per dare il buon esempio”. Va bene. È una decisione presa? Allora avvenga per tutti. Ma che un politico scalzi tutti gli altri inventandosi regole proprie (come avviene con pessimi risultati dall’inizio della pandemia) per illuminare il proprio regno è qualcosa che ha poco senso e che è poco omogeneo con una comunicazione strutturate.

Badate bene: De Luca è quello che ieri diceva che la comunicazione sui vaccini “è stata anche anche troppo sovraccaricata dal punto di vista mediatico, sembrava lo sbarco in Normandia”. È il tempo della responsabilità? Benissimo, De Luca impari la responsabilità di attendere il proprio turno in una graduatoria di priorità che è il fondamento di una società civile, etica e responsabile.

Avrebbe avuto l’occasione di essere un ottimo testimonial di competenza e serietà standosene per una buona volta in silenzio e in disparte senza cercare un palcoscenico, avrebbe comunicato la generosità e l’altruismo dell’aspettare il proprio turno, avrebbe contribuito alla credibilità di un vaccino che no, non è un pranzo di gala. E invece niente.

Leggi anche: 1. V-Day, il presidente De Luca si è vaccinato a Napoli: è polemica / 2. La prima vaccinata in Puglia a TPI: “Una responsabilità grandissima e l’obiettivo di fermare i no vax” / 3. La prima vaccinata di Codogno a TPI: “Punto di svolta. Spero sia d’esempio a chi nega il virus”

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Minacciare non è una trattativa

Dopo un incontro di oltre due ore, Italia viva sigla una tregua con Conte. Ma quanto ineleganti e irresponsabili sono stati i chili di minacce e di urlacci che i renziani hanno sparato in questi giorni

Dunque il presidente Conte ha incontrato la delegazione di Italia viva e le minacce urlacciate in questi ultimi giorni (con enormi esercizi di narcisismo del solito Renzi) alla fine si sono sciolte come neve al sole. Hanno fatto un cosa semplice: hanno discusso, si sono confrontati e hanno trovato un compromesso.

I dirigenti di Italia viva dopo due ore e mezza di incontro si sono detti soddisfatti perché, ha spiegato Teresa Bellanova, «è scomparsa tutta la questione sulla governance che si voleva portare con un emendamento in legge di Bilancio, e finalmente si comincia a discutere nel merito».

In sostanza il presidente del Consiglio ha rassicurato che tutti i passaggi e tutte le proposte passeranno dal Consiglio dei ministri e dal Parlamento. Quelli di Italia viva dicono che non ci sarà più “nessuna task force” e in realtà è una mezza verità: il ministro degli Affari europei Vincenzo Amendola ha chiarito che «la struttura la chiede l’Europa, ma non sostituirà i ministeri, e il Parlamento verrà coinvolto in tutti i passaggi».

Sono anche uscite le prime bozze del Recovery plan che contengono i capitoli di spesa e gli indirizzi per i prossimi mesi. Ora verranno condivise anche con le altre forze politiche di maggioranza e poi si fisserà entro la fine dell’anno un Consiglio dei ministri per trovare il punto d’incontro per tutti.

Insomma ieri semplicemente si è fatta politica, quella che andrebbe fatta con il senso di responsabilità di chi sa di essere al governo di un Paese, soprattutto in un’epoca di pandemia. Verrebbe da pensare a quanto siano ineleganti e irresponsabili i chili di minacce e di urlacci che i renziani hanno sparato in questi giorni ritagliandosi spazio nei media. Lo so già, qualcuno obbietterà che se non avessero fatto così non avrebbero ottenuto nulla. Peggio ancora. Significa che sono una manica di dilettanti, ma tutti, tutti.

E se volete capire quanto sia più forte di loro continuare con il ricatto allora potete leggere le parole di Bellanova appena uscita dall’incontro: «Il governo deve stare sereno se fa le cose. Se no è inutile». Non riescono proprio a stare sereni e a dismettere i panni dei bulli (con un partito da 2%). E vedrete che tra poco ricominciano di nuovo, con lo stesso atteggiamento, sul Mes. Perché quando gli incapaci sono troppo irrilevanti per aprire un dibattito (irrilevanti non solo nei numeri ma anche nei modi) allora provano a convincerci che la minaccia sia una trattativa. Fanno sempre così.

Buon mercoledì.

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