Vai al contenuto

corso

Tutti a restituire la Legion d’Onore. Bene, ma l’Italia è ben peggio di Macron se non ferma la vendita delle armi all’Egitto

Benissimo, Corrado Augias ha lasciato il segno restituendo la Legion d’Onore alla Francia dopo che l’Eliseo ha conferito il più alto riconoscimento del Paese al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Augias ha spiegato ieri di averlo fatto per rispetto di Giulio Regeni e per sottolineare la mancata collaborazione del governo egiziano alla ricerca della verità sull’omicidio, oltre alle continue violazioni dei diritti umani.

A ruota anche l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati, l’ex ministra Giovanna Melandri e la giornalista Luciana Castellina hanno preso la stessa decisione per contestare Macron, che tra l’altro, da parte sua, ha tentato vanamente di tenere sotto traccia il conferimento facendo sparire foto e video della cerimonia in onore di al-Sisi.

Ha ragione Luciana Castellina quando scrive che la vicenda “costituisce un dolore per chi come me, e tanti italiani, si sente così legato alla Francia. È una brutta pagina della storia di questo Paese. Un gesto, aggiungo, stupefacente, che nessuno si sarebbe aspettato dalla Repubblica francese”.

Ora però forse sarebbe il caso di allargare lo sguardo e tornare dalle nostre parti, qui dove la procura di Roma ha svolto un enorme lavoro con quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani verso il processo ma dove anche la politica non sembra ancora in grado di prendere posizioni forti.

Insomma, il problema non è Macron. “Conte, Di Maio, cosa state facendo per avere la verità?”, ha chiesto qualche giorno fa Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, che su ciò che si potrebbe fare per esercitare le giuste pressioni sul governo egiziano ha tracciato una strada netta: richiamare il nostro ambasciatore al Cairo, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e fermare subito l’export di armi e i rapporti commerciali.

“La priorità è stata normalizzare i rapporti con il regime e curare gli interessi economici, militari e turistici”, ha detto in conferenza stampa il padre di Giulio, Claudio Regeni. La famiglia pretende “un sussulto di dignità da parte delle istituzioni, oltre le parole e le buone intenzioni”.

Il ministro Di Maio nell’ottobre 2019 aveva parlato di “conseguenze”, se non avesse ottenuto collaborazione alle indagini da parte dell’Egitto. Di collaborazione non ce n’è stata (lo scrive anche la procura): quali sono le “conseguenze”?

Lo scorso 30 novembre la procura della Repubblica egiziana ha annunciato di avere “temporaneamente” chiuso le indagini. Una fonte del governo egiziano che ha parlato al quotidiano Mada Masr ha detto lo scorso 11 dicembre: “L’Italia farà ciò che vuole, l’Egitto farà ciò che vuole, e intanto i due paesi rimarranno amici”. Forse il problema non è solo Macron, no?

Leggi anche: 1. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista) / 2. Armi, gas, diritti umani: il prezzo dell’indulgenza della Francia verso l’Egitto di al-Sisi

L’articolo proviene da TPI.it qui

La cupidigia dei due Mattei

«Hai visto? Gli ho fatto il mazzo!». Non sono due discoli in mezzo a una strada dopo qualche bighellonata, no, è Matteo Renzi che incassa soddisfatto i complimenti dell’altro Matteo, Salvini, che si congratula con lui per avere bastonato Conte in Parlamento e avere incrinato il governo. Una scena simbolica, per niente inaspettata.

Vi ricordate quando, mesi fa, qualcuno faceva notare le assonanze dei due Mattei? Vi ricordate come si offesero le rispettive tifoserie, convinti davvero che i due fossero distanti come mimavano? Eccoli qui, ora: la coppia perfetta con la loro danza macabra che si inventa una crisi di governo nel giorno in cui l’Italia diventa il Paese europeo con più morti in assoluto. Si assomigliano in molte cose i due Mattei, parecchie.

Sventolano entrambi la “responsabilità” per incassare qualcosa. Lo fanno entrambi. Renzi appicca una polemica sulla cabina di regia del Recovery Fund (che contiene dubbi intelligenti che vale la pena discutere) ma poi come suo solito lascia andare la frizione e si ributta a frugare per trovare un posticino al sole buttando all’aria tutto. L’altro Matteo leghista invece parla da sempre di “buon senso” ma è solo una perifrasi per provare a riprendersi lo spazio che si è mangiato con il suo suicidio politico.

Hanno giocato entrambi con la salute cianciando di libertà. Matteo Salvini, greve come sempre, sventola addirittura l’ombra della dittatura sanitaria mentre Matteo Renzi gioca a fare il turboliberista per anteporre il fatturato alla salute. Due lati diversi di uno stesso modo di pensare: per loro i decessi sono i naturali effetti collaterali del loro modo di vedere il mondo. A loro va bene così. E non è un caso che invocassero le riaperture con gli stessi tempi.

Entrambi temono le elezioni. Renzi sa che con il suo partito da zerovirgola rischierebbe di contare per quello che effettivamente conta, poco o quasi niente, e quindi punta a monetizzare le dimensioni dopate dalla sua scissione in corso d’opera. Salvini sa che di non essere più il padrone del centrodestra e ha capito da tempo che Meloni e Berlusconi non sono più disposti a incoronarlo re. E infatti in nome della “pacificazione nazionale” propongono un governo nuovo (meglio: propongono loro al governo) senza passare dalle elezioni.

Entrambi non si capisce bene cosa vorrebbero. Se scorrete le loro dichiarazioni risultano chili di errori addossati agli altri ma non si vede bene quale sia la proposta. O meglio: si capisce che si propongono come soluzione, non si sa con quale strategia.

Entrambi hanno la memoria corta. Renzi da padrone del Pd urlava contro gli scissionisti e se la prendeva con i piccoli partiti che mettono a rischio i governi. Se l’è dimenticato. Salvini invocava elezioni a ogni piè sospinto e ora si abbandona ai giochi di palazzo addirittura invocando quel Mattarella che ha vilipeso per mesi.

Fantastici. Uguali. Una coppia perfetta, appunto.

Buon lunedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

In piena crisi da Covid, Toti aumenta di 883mila euro i fondi per gli staff degli assessori

Tempo di pandemia, tempo di difficoltà economiche, tempo di feste che molti non hanno voglia di festeggiare per il cupo futuro che si ritrovano davanti. È normale che in tempi come questi la gestione dei soldi pubblici diventi ancora più responsabilizzante, del resto è la stessa discussione che continua dalle parti del Governo. Per il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, invece, evidentemente questo è il tempo di elargire denaro alla politica. E la sua scelta, legittima, non può non porre domande e dubbi.

Lo scorso 13 novembre la giunta ligure ha approvato all’unanimità una delibera che triplica i finanziamenti erogati ai membri della giunta (presidente e assessori) per stipendiare il proprio staff. Si passa da 523mila euro all’anno per il personale a 1.356.181,20 euro, con un incremento di 883mila euro.

Sia chiaro, sono soldi che ogni assessore potrà utilizzare su base fiduciaria, nominando funzionari che dagli 8 che erano ora diventano addirittura 22, per un esborso complessivo nel corso di una legislatura di quasi 7 milioni di euro.

“I fondi non ci sono mai quando servono per realizzare opere importanti come i parchi naturali, la pulizia dei torrenti e la messa in sicurezza dei fiumi”, fa notare Ferruccio Sansa, che ha sfidato alle ultime elezioni regionali proprio Toti. “Non ci sono per comprare tamponi, mascherine e per pagare il personale sanitario. Ma poi i soldi si trovano sempre quando fa comodo a chi governa”.

Toti si difende parlando di “competenze dell’Amministrazione regionale che sono state ulteriormente ampliate nella legislatura appena conclusa, e quindi ciascun componente della Giunta regionale ha maggiori materie di pertinenza rispetto ai componenti delle Giunte regionali delle legislature precedenti, in particolare derivanti dal trasferimento di funzioni dalle Amministrazioni provinciali”. Peccato che quel trasferimento di competenze di cui Toti parla risalga addirittura al 2015.

Non si capisce quindi l’urgenza, peraltro in piena pandemia. Rimane anche il dubbio sul riversare quei soldi agli staff degli assessori piuttosto che ai funzionari della macchina regionale. Tutto questo mentre il presidente Toti spinge per riaprire tutto, riaprire il prima possibile, per dare il via libera a tutti fingendo di non sapere che una macchina per la radioterapia (di cui la Liguria avrebbe bisogno) costa esattamente la cifra annuale assorbita dallo staff del presidente.

Ora il gruppo consiliare della maggioranza ci tiene a precisare che si tratta di “capitoli di spesa diversi” e di cifre che “non tolgono finanziamenti a altre voci”. È il gioco delle tre carte, il solito vecchio gioco. Ma in un tempo nerissimo.

Leggi anche:
1. Caro Toti, è veramente così difficile dire: “Ho sbagliato”? (di Giulio Cavalli)
2. Vaticano, il successore di Becciu? Si fa l’abito da cardinale da 6mila euro pagato coi soldi pubblici

L’articolo proviene da TPI.it qui

Se l’Italia non si indigna per le agghiaccianti torture degli 007 egiziani su Giulio Regeni

Nel 2016 le commesse tra Italia e Egitto si aggiravano sui 10 milioni di euro l’anno. Nel 2019 gli scambi con l‘Egitto per l’Italia hanno superato gli 800 milioni, comprese due fregate della Marina Militare italiana che sono state vendute al Paese guidato da Al-Sisi. Ecco qui tutto il punto che dovrebbe farci indignare, gridare e continuare pervicacemente a scrivere sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore ucciso in Egitto dopo 9 giorni di sequestro.

E, se serve qualcosa per rendersi conto della feroce brutalità di cui si sta parlando, allora basta leggere le conclusioni dei pm di Roma che hanno chiuso l’inchiesta sull’uccisione del ricercatore friulano e che parlano di torture, di sevizie con oggetti roventi, di lame e di bastoni che causarono “acute sofferenze fisiche” uccidendo lentamente Giulio.

Ora ci sono, nero su bianco, anche i reati: sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Nelle carte si legge di di violenze perpetrate per “motivi abietti e futili e con crudeltà”, che hanno provocato “la perdita permanente di più organi”: Giulio è stato torturato “con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni attraverso strumenti affilati e taglienti e di azioni con meccanismo urente”.

I colpevoli? Uomini della National Security egiziana, vicinissimi al governo: rischiano il processo il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif: “È lui ad aver torturato e ucciso Giulio”, scrivono i pm, che hanno raccolto le testimonianze di cinque testimoni oculari. Uno dei testimoni racconta di avere visto Giulio Regeni “incatenato nella sede della National Security. Era magro e aveva i segni delle torture”.

È tutto l’orrore del mondo che la mamma di Giulio Regeni aveva dichiarato alla stampa di avere ritrovato sul viso del figlio. È l’orrore di una violenza che si è burlata della giustizia italiana (i magistrati non hanno ottenuto nessun tipo di collaborazione dall’Egitto) e della nostra politica. È una storia che sanguina anche della mollezza e dell’indifferenza dei nostri governi, che con le mani sporche di sangue di Al-Sisi continuano a firmare contratti e a stringere affari.

Abbiamo le carte che ci raccontano di uno Stato assassino che noi continuiamo a rifornire di armi. Non c’è da girarci troppo intorno: l’omicidio Regeni è un granello di sabbia in un meccanismo che continua serenamente a funzionare. Ma a volte la sabbia riesce a ottenere risultato insperati. La magistratura ha fatto la sua parte, il governo invece latita.

LEGGI ANCHE Omicidio Regeni, inchiesta chiusa: quattro 007 egiziani verso processo. “Giulio legato con catene di ferro”

L’articolo proviene da TPI.it qui

I pieni poteri

Bisogna discutere con molta pacatezza ma anche con molto rigore su come Giuseppe Conte vuole gestire i soldi del Recovery Fund

Ok, ci siamo arrabbiati moltissimo quando Salvini, l’estate scorsa, ha chiesto pieni poteri, ve lo ricordate?, per gestire la sua emergenza immaginaria. I pieni poteri sono antipatici e ostici alla democrazia da qualsiasi parte provengano e la democrazia parlamentare è qualcosa da preservare con cura, qualcosa che deve essere difesa da un atteggiamento, al di là di chi sia la causa. Per dirsela tutto: a noi danno fastidio quelli che chiedono pieni poteri, non è un problema o no di Salvini.

E allora bisogna discutere con molta pacatezza ma anche con molto rigore del fatto che Giuseppe Conte insista da tempo nel gestire i soldi del Recovery Fund (e sono parecchi soldi) con un piano di cui addirittura alcuni ministri si dichiarano all’oscuro. E già questa è una mostruosità che andrebbe spiegata, punto per punto.

Ma non è tutto: decidere di assumere un potere assoluto e discrezionale facendo leva sull’ennesima task force costituita semplicemente per nomina (senza concorso pubblico come avviene per i funzionari e senza voto come avviene per i politici) è uno scavalcamento che non porta nulla di buono. A chi rispondono quelli? A Conte? No, mi spiace, no. Ci può andare bene pensare di avere evitato pessimi politici per questa pessima pandemia ma la regola del meno peggio scivola sempre al peggio, sempre, e che ci siano tecnici che non rispondano al regolamento pubblico e nemmeno agli elettori non è accettabile, no.

Ci siamo incazzati con quello per la richiesta di pieni poteri e non è il caso, no, di accettare nemmeno la richiesta di troppi poteri di questo che risulta più garbato e elegante. Non è una questione di partiti, no, è una questione di funzionamento di democrazia. Anche se in questo caso ci tocca essere d’accordo con quelli con cui siamo in disaccordo su tutto.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Bella ciao, Lidia

È partita Lidia, fiaccata dal Covid ma con tutta la brillantezza dei suoi 96 anni vissuti tutti senza nodi in gola, con la libertà di chi lotta per la libertà e la giustizia. Ogni volta che muore un partigiano a guardarla da fuori questa nostra Italia sembra un po’ più debole per affrontare la ricostruzione e questa brutta aria che spira in giro per l’Europa. Ogni volta che muore una partigiana perdiamo una chiave per leggere il presente.

Lidia Menapace, all’anagrafe Brisca, era una pacifista. E quanto abbiamo bisogno di pacifisti che amano la lotta e disprezzano la guerra, come spesso ripeteva lei. E sapeva bene che la lotta dei partigiani non è qualcosa che va rinchiuso in un solo periodo storico, nonostante sia la tesi di molti a destra e di troppi anche a sinistra: «La lotta è ancora lunga perché quello che abbiamo ottenuto è ancora recente e fatica a durare», disse, con una lucidità che servirebbe a molta della nostra classe dirigente.

Fu staffetta partigiana e rivendicò il ruolo delle donne durante la guerra della Liberazione: «Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa», disse lo scorso 25 aprile in un’intervista che le fece Gad Lerner. «Il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi». Di noi dicevano che «eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani». Ma «senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza». Quando Togliatti chiese che le donne non sfilassero alla sfilata della Liberazione a Milano perché, secondo lui, il popolo non avrebbe capito lei non seguì l’ordine e si presentò comunque.

Quando si laureò nel 1945 con il massimo dei voti in Letteratura Italiana il suo professore lodò il suo lavoro definendolo frutto di “un ingegno davvero virile”. Lei non gliela fece passare e si prese dell’isterica. È la stessa Lidia Menapace che diventa la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, dove abitava, poi assessora alla sanità e agli affari sociali. Poi in Parlamento come senatrice di Rifondazione comunista quando era a un passo da diventare presidente della commissione Difesa ma non si trattenne dal dire che le Frecce tricolori fossero “uno spreco di soldi pubblici”. Mai moderata, mai zitta. Venne sostituita dal dimenticabile Sergio Di Gregorio dell’Italia dei Valori.

La sua formazione da donna libera la raccontava così: «Mia madre insegnò a noi due figlie un suo codice etico. Ci diceva: “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete, il marito lo tenete o lo mollate o ve ne trovate un altro. L’importante è che non dobbiate chiedergli i soldi per le calze”». Combatté il sessismo nel linguaggio. A proposito delle declinazioni delle parole al femminile scrisse: «Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria».

Era una donna libera Lidia Menapace e non poteva che essere innamorata della libertà.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Sorvegliata specialmente: Eddi Marcucci

Da marzo l’ex combattente nel conflitto dei curdi contro l’Isis è sottoposta a sorveglianza speciale. Con motivazioni inconsistenti e in virtù di una norma di dubbia costituzionalità

Siamo quasi a dicembre e Eddi Marcucci, 29 anni, continua a essere sottoposta a sorveglianza speciale dal mese di marzo. La “colpa” di Eddi (qui intervistata proprio sulle pagine di Left) è quella di avere combattuto per nove mesi nella battaglia dei curdi contro l’Isis, una guerra che sarebbe spettata a noi e che invece è stata celebrata nelle fasi iniziali e poi volutamente, consenzientemente dimenticata se non addirittura condannata. Eddi è partita nel 2017 per il Rojava con lo scopo di affiancare gli Ypj curde contro gli islamisti che controllavano il Nord della Siria.

Secondo il tribunale di Torino l’essere addestrata all’uso delle armi sarebbe un potenziale pericolo, non si sa bene per chi, e per questo le è stato ritirato il passaporto, ritirata la patente, imposto di stare nella sua abitazione dalle 21 alle 7 ed è obbligata a comunicare tutti i propri spostamenti. Entro Natale la Corte d’appello di Torino deciderà sul ricorso presentato da Marcucci contro la sorveglianza speciale. Le erano anche stati negati i social che ieri sono stati riattivati. Nessuna spiegazione sul perché siano stati tolti e nessuna spiegazione perché ora siano tornati indietro. Niente.

La sorveglianza speciale (eredità dei regi decreti dell’epoca fascista, quando veniva usata come strumento di repressione) è una misura che non viene presa come reazione a un reato commesso ma al fine di prevenire eventuali reati. Si basa sostanzialmente su una serie di indizi sul possibile reato senza nessun riscontro, rimanendo nel campo delle ipotesi. Si pongono ovviamente anche dei dubbi costituzionali su una misura così arbitraria (lo ha sottolineato anche nel 2017 la Corte europea dei diritti umani) che intacca la presunzione di innocenza e che comporta comunque afflizione. Sulla vicenda tra l’altro c’è un gran bel libro edito da People (Dove sei?) scritto da Roberta Lena, madre di Eddi.

Tra le limitazioni c’è anche il divieto di parlare in pubblico e di fare politica: in sostanza non può raccontare la propria storia e quello che le sta accadendo. Per questo vale la pena raccontarla. E per questo sarebbe il caso di sapere quali sarebbero gli “indizi” di questa misura così straordinaria. Anche perché se si tratta solo dell’essere stata addestrata a maneggiare armi allora ci sarebbe qualche milione di persone con un servizio militare alle spalle che andrebbero sorvegliati, subito, qui da noi. No?

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

L’audizione di Renzi getta nuove ombre sul caso Regeni: quando fu informato il governo italiano?

È successo qualcosa di importante nell’audizione di Matteo Renzi, nella veste di ex Presidente del Consiglio, di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, ritrovato senza vita il 3 febbraio 2016 in Egitto. Secondo quanto dichiarato da Renzi la morte del ricercatore friulano gli sarebbe stata comunicata il 31 gennaio, ben 6 giorni dopo la scomparsa. Ha detto Renzi: “Noi abbiamo reagito mettendo in campo tutti gli strumenti – ha detto – Abbiamo lavorato tutti insieme a livello istituzionale come una squadra. Sì, abbiamo rimpianti. Io ho pensato ‘perché abbiamo saputo questa notizia solo il 31 gennaio?’ Se avessimo saputo prima avremmo potuto agire prima”.

Peccato che l’allora ambasciatore italiano in Egitto Maurizio Massari avesse dichiarato alla stessa Commissione che l’ambasciata italiana venne informata dal professore che Regeni avrebbe dovuto incontrare, Gennaro Gervasio, il 25 gennaio alle 23.30. E a sottolineare l’incongruenza c’è anche un comunicato del Ministero degli Esteri che “precisa che le Istituzioni governative italiane e i nostri servizi di sicurezza furono informati sin dalle prime ore successive alla scomparsa di Giulio, il 25 gennaio 2016”. Non è una cosa da poco: attivarsi sin dalle prime ore della sparizione di Regeni avrebbe sicuramente permesso un intervento più tempestivo, come ammette lo stesso senatore di Italia Viva, e forse avrebbe permesso un più facile accertamento della verità.

Smentito dalla Farnesina Renzi ha voluto controbattere con una nota del suo ufficio stampa: “nel corso dell’audizione di questa mattina il senatore Renzi ha espressamente richiamato la relazione del ministro Gentiloni e del Segretario Generale Belloni come parte integrante della sua esposizione. Che la Farnesina fosse informata dal 25 gennaio alle 23.30 è vero per esplicita dichiarazione lasciata a verbale dall’Ambasciatore Massari”. Quindi secondo Renzi la Farnesina sapeva ma non aveva informato il Presidente del Consiglio. Ma è possibile che il capo del Governo non sappia che un suo concittadino all’estero risulta irreperibile?

Ma i dubbi non sono finiti: il 27 e il 30 gennaio l’intelligence italiana ha incontrato gli omologhi egiziani, che avevano già avvisato l’ambasciatore italiano della scomparsa di Regeni. È possibile che in quelle due riunioni non si sia affrontato l’argomento? Ed è pensabile che i servizi italiani (che fanno riferimento al Presidente del Consiglio) non abbiano avuto occasione di aggiornare Renzi sulla scomparsa di un giovane italiano? Tutti dubbi che hanno bisogno di essere chiariti in fretta perché nella storia di Giulio Regeni (e delle responsabilità della politica egiziana) non possiamo permetterci di avere ombre anche sulle istituzioni italiane. La morte di Giulio Regeni non merita altre macchie. Davvero, no.

Leggi anche: Regeni, la procura di Roma è pronta al processo agli 007 egiziani. Ma il governo italiano teme al-Sisi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Uomini che ammazzano donne

Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Una ogni tre giorni. E le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno aggravato il fenomeno

I numeri emergono dal VII Rapporto Eures sul femminicidio in Italia. Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Qualcuno oggi strumentalmente vi dirà che sono meno delle 99 donne dello scorso anno ma in realtà sono diminuite le vittime femminili della criminalità comune (da 14 a 3 nel periodo gennaio-ottobre 2020) mentre risulta sostanzialmente stabile il numero dei femminici di familiari (da 85 a 81) e, all’interno di questi, il numero dei femminici di di coppia (56 in entrambi i periodi); in aumento (da 0 a 4) anche le donne uccise nel contesto di vicinato. Per dirla facile facile: nel 2020 l’incidenza del contesto familiare è dell’89%, superando l’85,8% dell’anno scorso.

La coppia continua a rappresentare il contesto relazionale più a rischio per le donne, con 1.628 vittime tra le coniugi, partner, amanti o ex partner negli ultimi 20 anni (pari al 66,2% dei femminici di familiari e al 48,7% del totale delle donne uccise) e 56 negli ultimi dieci mesi (pari al 69,1% dei femminici di familiari e a ben il 61,5% del totale delle donne uccise). Gli autori sono “per definizione” nella quasi totalità dei casi uomini (94%), con valori che nel corso dei singoli anni oscillano tra il 90% e il 95%. Le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno fortemente modificato i profili di rischio del fenomeno: osservando i dati relativi ai femminicidi familiari consumati nei primi dieci mesi di quest’anno si rileva come il rapporto di convivenza, già prevalente nel 2019 (presente per il 57,6% delle vittime), raggiunga il 67,5% attestandosi addirittura all’80,8% nel trimestre del dpcm Chiudi Italia. Quando, tra marzo e giugno, ben 21 delle 26 vittime di femminicidio in famiglia convivevano con il proprio assassino.

L’omicidio però è spesso solo l’atto finale di una violenza che si consuma. Il femminicidio all’interno della coppia è spesso soltanto il culmine di una serie di violenze pregresse: violenze psicologiche (20%), violenze fisiche (17,7%), stalking (13,3%) e violenze note a terzi (11,1%). Violenze però denunciate solo nel 4,4% dei casi.

Poi c’è la violenza delle parole, sì anche quella. Nel suo rapporto Barometro dell’odio Amnesty International ha analizzato i commenti sui social. Le donne continuano a essere vittime di una società profondamente maschilista e sessista, nei luoghi pubblici, all’interno delle mura domestiche e anche sul web. Guardando al dibattito in modo ampio, su oltre 42.000 post e tweet analizzati, più di 1 su 10 (il 14%) è offensivo, discriminatorio o hate speech. Di questi il 18% rappresenta un attacco personale a un influencer, uomo o donna, tra quelli osservati; nel caso delle influencer, tale incidenza sale al 22%. Un terzo di questi ultimi commenti è sessista e si concretizza in attacchi contro i diritti di genere, la sessualità, il diritto d’espressione. Comuni gli insulti di carattere “morale” che bollano la donna come immorale o “prostituta”, che la classificano per il modo di vestire o per la sua vita sentimentale. A partire dalla presa di posizione di queste donne contro la discriminazione di genere, a favore del diritto all’aborto, o alla parità tra i sessi o alla libera espressione delle proprie scelte sessuali.

Scrive Amnesty: «In sostanza, si aggredisce la donna che si presenta come autonoma e libera nelle proprie scelte, o perché la stessa si esprime a favore della altre categorie fatte oggetto d’odio, come accade con migranti e musulmani. Una vera e propria catena di montaggio dell’odio, che mette insieme idee, comportamenti, identità, scelte che rappresentano i diritti e le libertà delle persone, per farle oggetto di pubblico ludibrio e di discriminazione violenta».

Buona giornata contro la violenza sulle donne. Con i numeri in mano.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

“Quello che mi resta di mamma morta di Covid? Un sacchetto con le sue cose infette”, la terribile storia di Moira

Una foto che gronda solitudine, un sacchetto rosso appoggiato per terra con gli indumenti e gli effetti personali della madre morta di Covid all’Irccs Policlinico San Donato. Moira Perruso, che di mestiere è una giornalista ma si occupa anche di fotografia, ha condiviso quel momento sul suo profilo Facebook: «Ai miei piedi ciò che mi restituiscono di mia madre… Non posso nemmeno buttarmi a capofitto su quegli abiti per sentire ancora una volta il suo odore, sono infetti… Per chi nega, per chi specula, per chi non ha protetto: che possiate sentire anche voi il rumore del cuore in frantumi». In poco tempo sul suo post si sono accavallate centinaia di testimonianze di persone che hanno vissuto lo stesso dolore.

«Il post è nato – mi racconta Moira – perché ho chiamato l’ospedale, volevo indietro le cose di mia madre, la sua fede nuziale, una collanina che indossava sempre e che le avevamo regalato noi. “Posso riavere gli oggetti di mia mamma?”, ho chiesto. Quando sono arrivata al Policlinico, al settimo piano del reparto Covid un infermiere mi ha adagiato il sacchetto, con anche i suoi vestiti, e mi ha chiesto una firma. Quel momento mi si è fissato negli occhi e ho voluto fotografarlo perché era un fatto emotivo personale ma anche un fatto pubblico, qualcosa che sta accadendo a migliaia di persone. Solo oggi ho ricevuto centinaia di mail di figli che hanno ritirato così le cose di un genitore. Mia madre stava bene, cresceva i nipoti, tutta una vita messa ai miei piedi. In quel momento mi sono detta: come si fa a negare questa evidenza? Come si fa a dire: “Non muori per Covid ma muori con il Covid”».

Già, questo gioco di frugare tra le parole per sminuire. Mia madre è morta di Covid, mia madre stava bene e ora è un mucchio di vestiti infetti. Capisco anche i medici, non hanno il tempo fisico per trattare il dolore, non possono anche curare “l’umano”, ma io ho avuto il cuore in frantumi. Mi è stata negata anche la “liturgia” della morte, non ha potuto indossare quel maglione rosso che amava, nessuno che la teneva per mano. Era una donna riservata e dignitosa. Ora quando mi addormento la penso sigillata dentro un sacco. Ma come si fa a non avere la responsabilità di proteggere il prossimo? Non possiamo pensare di dare colpa alla politica se non siamo responsabili come individui. La giustizia non è una delle virtù cardinali? Moira ce l’ha con i negazionisti.

Non si può negare, non è più tempo, non si può dire che i Pronto Soccorso sono vuoti, non si può avere il coraggio di dire che le ambulanze girano vuote. Il negazionista cos’ha? Paura della morte? Da che cosa è afflitto? Becera ignoranza? Il mio dolore non è un complotto. Mi è stato negato il diritto di seppellire mia madre e non so nemmeno dove sia in questo momento. Mi è stata negata anche la morte, di mia madre. Sono arrivate tantissime testimonianze. Forse c’è bisogno di parlare del dolore, se ne parla ancora troppo poco. Sì, si sta parlando troppo poco del dolore, nella narrazione si trascurano le persone. I protocolli tra ospedali cambiano: mio padre (anche lui malato di Covid) è all’Humanitas e mi chiamano tutti i giorni per aggiornarmi sulle sue condizioni di salute mentre per mia madre ho dovuto implorare dopo otto giorni di sapere qualcosa, poi mi hanno detto che l’avrebbero svezzata e che andava tutto bene, poi le hanno messo il casco poi la morfina, poi è morta.

Non l’ho più sentita. Ma questa cosa me l’hanno raccontata un migliaio di persone, che è anche una responsabilità, per me. Ho l’immagine di mia mamma terrorizzata che si sarà chiesta che fine avrà fatto la sua famiglia. Lei mi ha accudito per 50 anni e io non sono stata capace di accompagnarla nella morte. Lo so, è una roba scontata, ma dov’è lo straordinario nel dolore? È un momento in cui siamo di fronte a un fatto che sta cambiando il mondo e il nostro modo di affrontare il dolore. E forse chi nega semplicemente ha una paura fottuta.

L’articolo “Quello che mi resta di mamma morta di Covid? Un sacchetto con le sue cose infette”, la terribile storia di Moira proviene da Il Riformista.

Fonte