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“A Beirut, come a Damasco, è morta la speranza”: parla lo scrittore siriano Shady Hamadi

Shady Hamadi è uno scrittore di origine siriana e da sempre è un attento osservatore del Medio Oriente. Esilio dalla Siria. Una lotta contro lindifferenza”, edito da Add Editore è il suo ultimo libro.

Lesplosione a Beirut ha acceso le voci di solidarietà falsi cortesi degli esponenti politici con strafalcioni come quello di Manlio Di Stefano. Che sensazione ti provoca la superficialità della politica italiana sul Medio Oriente?
Mi provoca delusione perché l’Italia ha, geograficamente e storicamente, un ruolo di primo piano nei rapporti con il Medio Oriente. Geograficamente perché siamo la porta verso l’Europa; storicamente a causa della presenza araba, durata secoli, nel sud Italia. Gli sbagli eclatanti, come quello di Di Stefano, stanno diventando una prassi (a destra e a sinistra) che non solleva neanche più l’indignazione. Ricordo gli elogi di Renzi al suo “amico”Al Sisi, poco prima della morte di Regeni. O, ancora prima, nel 2011 Franco Frattini che elogiava la Siria per la sua stabilità durante l’ondata delle primavere arabe. Il risultato è davanti a tutti noi.

Come valuti la politica estera del governo italiano?
Sclerotica perché c’è incoerenza nelle azioni della Farnesina a causa della nostra instabilità politica. Prendiamo l’Egitto. Con Renzi, prima dell’uccisione di Regeni, i rapporti erano idilliaci. Ucciso il ricercatore, abbiamo virato completamente. Salvo poi rimandare l’ambasciatore al Cairo. Oggi che cosa rimane del nostro approccio verso l’Egitto, la questione della tutela dei diritti umani? Nulla, a parte la vicenda di Patrick Zaki che non cade nel dimenticatoio grazie all’attenzione di alcuni movimenti di sinistra e Amnesty.

Come valuti lattenzione della politica occidentale sul Medio Oriente?
Dovevamo accompagnare i paesi arabi verso una transizione, sostenendo quel corpo sociale che si chiama società civile ma non lo abbiamo fatto. Preferiamo ancora oggi sostenere militari che con la forza riportano lo status quo antecedente. Guardiamo alla Libia. Parte della comunità internazionale sostiene Haftar; altri Sarraj. All’interno dell’Unione Europea ci sono Stati che, seguendo il proprio interesse nazionale, sostengono gruppi differenti.

Cosa bisognerebbe avere il coraggio di dire/fare?
Abbiamo sbagliato. L’ammissione di colpa dovrebbe arrivare da chi si è seduto in parlamento in Italia come nella Ue. Hanno sbagliato nel guardare al Medio Oriente con i soliti preconcetti: se non c’è un dittatore c’è il fondamentalismo. Come se questi arabi non fossero capaci di emanciparsi da questi due mali, creando una terza via che li conduca verso la democrazia. Il male assoluto, secondo questa vulgata alla Magdi Allam, sarebbe l’Islam. Semplicisticamente sarebbe la religione a bloccare ogni trasformazione.

Da scrittore, con la tua storia, come valuti questo momento internazionale?
É una restaurazione. A Beirut come a Damasco manca la speranza. Sto parlando proprio del sentimento. Sperare di cambiare, di migliorare vita… la gioventù vive nel pessimismo. Questo stato di cose ha prodotto un aumento vertiginoso dei suicidi. Decine di giovani si tolgono la vita esausti non solo di vivere nella miseria ma di non vedere mai un cambiamento. Di chi è la responsabilità di queste morti?

Che ne pensi del rifinanziamento italiano alla Libia?
Abbiamo Salvini che grida contro gli sbarchi. Vuole che si fermino ma lui ed altri hanno firmato per il rifinanziamento della guardia costiera libica da più parti accusata di gestire il traffico di migranti con le mafie locali. Diamo soldi ai trafficanti. Ho idea che chi grida alla chiusura dei porti voglia il contrario. I migranti servono come merce di scambio elettorale, in barba alla sofferenza di quei nei lager.

In Italia haisentito” razzismo?
Personalmente no. Mi definisco da sempre sirio-brianzolo anche se ultimamente mi sento solo brianzolo. Penso che gli italiani non siano razzisti. Credo esista molta ignoranza. Molti politici la sfruttano perché viviamo in una epoca di slogan e non di discorsi culturali. Vede, oggi non vogliamo prenderci la briga di capire perché un nigeriano scappa da Lagos o un siriano da Aleppo. Vogliamo tutto subito, anche le spiegazioni. Il politico improvvisato che ormai dilaga nei talk show e nelle aule un tempo frequentate da Berlinguer, regala slogan. È un ignorante, che non sa che i libici abitano in Libia e che Pinochet non era il dittatore del Venezuela. Non è umile. Infatti non chiede scusa. Dobbiamo ripartire dalla cultura.

Leggi anche: 1. Libano: devastante esplosione al porto di Beirut. Le impressionanti immagini della deflagrazione / 2. Libano, ferito un militare italiano in un’esplosione al porto di Beirut / 3. Libano, esplosione al porto di Beirut: incidente o attentato? Tutte le ipotesi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)

In Siria i bambini dormono a lungo

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Non stanno dormendo come dormono i bambini. No. Questi sono morti e succede in Siria, che non è nemmeno così lontana a puntarla con il dito sul mappamondo o su una cartina geografica. “Centinaia di morti e di feriti, tra cui donne e bambini, sono il risultato del barbaro uso di gas letali da parte del regime di Assad nell’area del Ghouta, a est di Damasco“, denunciano i Comitati locali di coordinamento siriani. Assad si difende dicendo che sono solo invenzioni e forzature dei ribelli mentre il suo amico Putin dichiara di avere dei dubbi. Putin. Dei dubbi. La comunità internazionale intanto ha avviato un’indagine per toccare con mano la situazione: se veramente si tratta di un attacco con gas nervino sarebbe il massacro più grave degli ultimi 25 anni. Venticinque, anni. Non dormono i bambini in Siria come dormono i bambini a ferragosto, qui. Dormono più a lungo e più lunghi stesi per terra come sanno stare stesi in poco spazio solo i bambini, in tutte le parti del mondo. Ma la narrazione della guerra civile (che sia Siria o Egitto o comunque qualsiasi Paese che richieda un’infarinatura di storia e politica di quelle parti) è fastidiosa e riservata solo ai “saccenti”. Non è una vicenda da srotolare tranquillamente sulla spiaggia o durante l’aperitivo: chissà perché da quelle parti del mondo i bambini morti puzzano meno dei nostri. E nemmeno i protocattolici tutti impegnati nella legge anti-anti-omofobia riescono ad intenerirsi.

Questo silenzio mi allontana dalla politica che vorrei più dello stipendio del parrucchiere del Senato. Sono strano, si vede, io.

Voi che domani sarete ancora vivi, che cosa state aspettando? Perché non amate abbastanza? Voi che avete tutto, perché avete così paura?

Io non so se ci si possa perdonare di non riuscire a sentire le guerre. Se davvero abbiamo il cuore così stretto e l’intelligenza così strabica da non occuparci di quello che succede in tutti i luoghi così dissimili da noi. Forse il nostro federalismo è una legittimazione di un egoismo che non vogliamo combattere perché ci risulta faticoso o forse perché la borsa delle preoccupazioni è già colma delle sole cose vicine.

Comunque: in Siria c’è la guerra. Guerra vera, guerra per strada senza armi troppo artificiali e con i bambini maciullati per terra. Guerra a morsi ma con troppo poco petrolio per diventare internazionale. Guerra raccontata come sappiamo s-raccontare noi quando vogliamo essere coccolati nella rassicurante idea collettiva delle guerre e della morte.

Francesca Borri, freelance in Siria, prova a chiedere una riflessione sulla narrazione della guerra e, sopratutto, sul ruolo dell’informazione:

Ma siamo reporter di guerra, dopo tutto, o no? Una band of brothers (e sisters). Rischiamo la nostra vita per dare voce ai senza voce. Abbiamo visto cose che la maggior parte delle persone non vedrà mai. Siamo un bel repertorio di storie per quando siete a tavola, gli ospiti cool che ognuno vuole invitare. Ma la sporca verità è che invece di essere uniti, siamo i nostri peggiori nemici; e il motivo per cui un pezzo viene pagato 70 dollari al pezzo non è che non ci sono soldi, perché ci sono sempre soldi per un pezzo sulle fidanzate di Berlusconi. La vera ragione è che se uno chiede 100 dollari, c’è qualcun altro che è pronto a farlo per 70. È la concorrenza più feroce. Come Beatriz, che oggi mi ha segnalato la strada sbagliata così sarebbe stata l’unica a coprire la manifestazione, e mi sono trovata in mezzo ai cecchini per colpa del suo inganno. Solo per coprire una manifestazione, come centinaia di altri.

Ma facciamo finta di essere qui per far sì che nessuno potrà dire “Ma non sapevo che cosa stava accadendo in Siria”. Quando in realtà noi siamo qui solo per ottenere un premio, per ottenere visibilità. Noi stiamo qui a competere l’uno contro l’altro come se ci fosse un Pulitzer alla nostra portata, quando invece non c’è assolutamente nulla. Noi siamo schiacciati tra un regime che ti concede un visto solo se sei contro i ribelli, e i ribelli che, se tu stai dalla parte loro, ti permettono di vedere solo quello che vogliono farti vedere. La verità è che siamo dei falliti. Due anni dopo, i nostri lettori a malapena si ricordano dove è Damasco, e il mondo istintivamente descrive ciò che sta accadendo in Siria come “quel caos”, perché nessuno capisce nulla di Siria — solo sangue, sangue, sangue. Ed è per questo che i siriani non ci possono vedere ora. Perché mostriamo al mondo foto come quella bambino di sette anni con una sigaretta e un kalashnikov. È chiaro che è una foto artefatta, ma è apparsa sui giornali e siti web di tutto il mondo a marzo scorso, e ognuno poteva urlare: “Questi siriani, questi arabi, che barbari!” Quando sono arrivata qui, i siriani mi fermavano e mi dicevano: “Grazie che state mostrando al mondo i crimini del regime”. Oggi un uomo mi ha fermato, e mi ha detto: “Vergognati”.

Se davvero avessi capito qualcosa della guerra, non avrei dovuto dimenticarlo cercando di scrivere di ribelli e lealisti, sunniti e sciiti. Perché davvero l’unica storia da raccontare in guerra è come vivere senza paura. Tutto potrebbe finire in un istante. Se l’avessi saputo, non avrei avuto così paura di amare, di osare, nella mia vita; invece di essere qui, ora, a stringere me stessa in questo angolo buio, rancido, a rimpiangere disperatamente tutto quello che non ho fatto, tutto quello che non ho detto. Voi che domani sarete ancora vivi, che cosa state aspettando? Perché non amate abbastanza? Voi che avete tutto, perché avete così paura?