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L’aggravante dello stupro? La vittima (ancora)

La Terza sezione penale della Cassazione ieri ha scritto nero su bianco che in caso di stupro di gruppo se la vittima è ubriaca ai colpevoli non può essere contestata l’aggravante di «aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche». Sapete perché? L’uso delle sostanze alcoliche, spiega la Cassazione, deve essere «necessariamente strumentale alla violenza sessuale, ovvero deve essere il soggetto attivo del reato che usa l’alcool per la violenza, somministrandolo alla vittima». Se lo stupratore offre una birra è condannabile con aggravante, se invece si impegna a trovarne una già ubriaca di suo allora ha fatto bingo e può permettersi di puntare a sostanziali sconti di pena.

Se ci pensate, banalizzando, la Cassazione dice che una donna in evidente stato di fragilità (in questo caso per alcool) è in parte colpevole di ciò che le viene violentemente inflitto da altri. È sempre la stessa schifosissima storia: l’analisi della vittima è un piatto troppo ghiotto per non buttarcisi. E così l’inesorabile erosione dei diritti conquistati dalle (e per le) donne continua. E i loro diritti continuano a scivolare, insieme alla legge 194 che in molti vorrebbero ritoccare, insieme al femminicidio che viene buttato in caciara e insieme ai putridi casi, come quello dei carabinieri e delle studentesse americane a Firenze, che mentre il processo sta valutando la colpevolezza dei due uomini in divisa, sembra essere sparito dal dibattito pubblico (del resto con che faccia potrebbero parlarne ora i Salvini o le Meloni di sorta?).

Sembra di tornare alla sentenza del 2006 in cui una ragazzina quattordicenne pagò lo scotto di non essere più vergine e quindi fondamentalmente colpevole; oppure ai famosi jeans del 1999 che fecero intendere ai giudici che non potessero essere sfilati senza una «fattiva collaborazione»; la sentenza 40565 del 16 ottobre 2012 la Corte di Cassazione ha deciso che durante una violenza di gruppo, uno sconto di pena deve essere concesso a chi «non abbia partecipato a indurre la vittima a soggiacere alle richieste sessuali del gruppo, ma si sia semplicemente limitato a consumare l’atto»; oppure la sentenza del 2014 in cui la Cassazione ci insegnò che gli imputati per violenza sessuale possono ottenere uno sconto di pena per aver commesso un fatto «di minore gravità» anche nel caso di violenze carnali “complete” ai danni delle donne.

Anche Cappuccetto rosso, in fondo, decidendo di attraversare il bosco se l’è andata a cercare.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/07/17/laggravante-dello-stupro-la-vittima-ancora/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

«Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io»

(Se volete leggervi uno dei migliori pezzi scritti di questi tempi ecco Paul B. Preciado)

Torno nella città dove sono nato per fare compagnia a mia madre, costretta a restare qualche giorno in ospedale dopo un’operazione. Questa città della Castiglia, dove corpi umani vagano avvolti da pellicce di animali che non hanno mai vissuto in questa regione e in cui le finestre delle case sono decorate con bandiere spagnole, mi spaventa.

Mi dico che la pelle degli stranieri finisce con l’essere trasformata in cappotti, e che la pelle di quelli che sono nati qui si trasforma da un giorno all’altro in una bandiera. Passiamo i giorni e le notti nella camera 314. L’ospedale è stato ristrutturato di recente, ma mia madre ripete che questa stanza le ricorda quella in cui mi ha partorito. A me, proprio perché non mi ricorda niente, questa stanza di ospedale sembra più accogliente della mia casa natale, più sicura delle strade dello shopping, più festiva delle piazze con le chiese.

La mattina, dopo la visita di routine del dottore, esco a prendere un caffè. In questo ospedale, situato in una zona deserta, non c’è una caffetteria. Cammino lungo il fiume Arlanzón fino al bar più vicino, in un freddo luminoso che i castigliani chiamano “sole con le unghie”. Respiro un’aria gelida, pulita, come un getto di vapore compresso che punta l’angoscia che nascondo nel petto.

La sedia assegnata
Essere il figlio trans di una famiglia cattolica spagnola di destra non è facile. Il cielo castigliano è chiaro come quello di Atene, ma in Grecia è di un blu cobalto. Qui è d’acciaio. Ogni mattina esco fuori e desidero non tornare più. Disertare la famiglia come si diserta la guerra. Ma non lo faccio. Torno in ospedale a occupare la sedia da parente stretto che mi è stata assegnata. A cosa serve che la ragione avanzi se il cuore resta indietro, diceva Baltasar Gracián.

In ospedale, da mezzogiorno alle otto di sera, si alternano le visite. Questa camera si trasforma in una scena di teatro pubblico in cui io e mia madre lottiamo, non sempre con successo, per ristabilire i ruoli. Quando deve presentarmi, mia madre dice: “Lui è Paul, mio figlio”. La risposta è sempre la stessa: “Pensavo che avessi solo una figlia”. A quel punto mia madre dice, alzando gli occhi al cielo e cercando di immaginare una scappatoia a questa impasse retorica: “Sì, avevo solo una figlia e ora ho un figlio”. Uno dei visitatori deduce: “Ah, è il marito di tua figlia? Non sapevo che fosse sposata, congratulazioni…”.

Mia madre capisce di aver commesso un errore strategico e si affanna come chi cerca di riavvolgere freneticamente il filo di un aquilone volato già troppo in alto: “No, no, non è sposata, è mia figlia…”. Poi tace per un istante, durante il quale smetto di guardarla. “Mia figlia ora è mio figlio”. La sua voce disegna una cupola di Brunelleschi che si innalza per dire “figlia” e precipita per dire “figlio”.

Non è facile essere la madre di un trans in una città dove avere un figlio queer è peggio che avere un figlio morto. Allora, gli occhi del visitatore schizzano in tutte le direzioni, prima di rispondere con un piccolo sospiro.

Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei

A volte sorrido: mi sento come un Louis de Funès in un film di fantascienza. Altre volte sono sopraffatto dallo stupore. Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io. Non è facile essere il figlio di una famiglia cattolica convinta che Dio non sbaglia mai.

Azioni e pensieri rasserenanti
Decidere di cambiare qualcosa significa contraddire Dio. Mia madre ha rinnegato la dottrina della chiesa. Dice che una madre è più importante di Dio. Continua ad andare a messa la domenica, ma ci va per fare i conti con l’aldilà, e la chiesa non deve immischiarsi. Lo dice a bassa voce, sa di essere blasfema. Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei. Mi sento in debito verso mia madre perché non sono e non posso essere un buon figlio per lei.

Quando le sollevo le gambe per favorire la circolazione del sangue mi dico che sono più bravo come badante che come figlio. Quando aggiorno le app del suo telefono, riorganizzo lo schermo e installo nuove suonerie mi dico che sono meglio come tecnico informatico che come figlio. Mentre le acconcio in capelli in uno chignon e aumento il volume della pettinatura sopra la fronte mi dico che sono meglio come parrucchiere che come figlio. Quando scatto qualche foto per inviarla ai suoi amici che hanno superato gli ottant’anni e non possono venire a farle visita mi dico che sono meglio come fotografo che come figlio.

Sono meglio come garzone che come figlio. Sono meglio come compilatore dei suoi video preferiti di Rocío Jurado su YouTube che come figlio. Sono meglio come lettore del giornale locale che come figlio. Sono meglio come piegatore di vestiti che come figlio. Sono meglio come pulitore del bagno che come figlio. Sono meglio come infermiere notturno che come figlio. Sono meglio come aeratore della stanza che come figlio. Sono meglio come cercatore di chiavi perse in fondo alla borsa che come figlio. Sono meglio come distributore di pillole che come figlio. Sono meglio come fotocopiatore di documenti per la previdenza sociale che come figlio.

E tutte queste cose – curare, acconciare i capelli, riparare computer e telefoni, scaricare video, trovare chiavi, fare fotocopie – mi calmano i pensieri e mi rasserenano.

(Traduzione di Andrea Sparacino, fonte Internazionale)

“Ci sono cose più importanti dello ius soli”: eccole

Nella patetica discussione delle “altre cose più importanti” che serve a qualche vigliacchetto per non affrontare la votazione sullo ius soli (che tra l’altro non è nemmeno uno ius soli, a proposito di narrazioni tossiche) i benaltristi del Parlamento ci hanno fatto intendere che vi fossero urgenze imprescindibili da affrontare, talmente gravi da impedirne la votazione.

Bene. Sappiate che oggi in Senato si discuterà di un fondamentale pacchetto di «mozioni sui monumenti commemorativi di Cristoforo Colombo» (fonte).

Se volessimo andare a settimana prossima (il Senato si riunisce il martedì e il giovedì, settimana cortissima, e il giovedì è tutto dedicato a interpellanze e interrogazioni) allora sappiate che martedì 17 ottobre non c’è spazio per lo ius soli (che non è uno ius soli) perché il Senato è impegnato su una proposta di legge sulla dieta mediterranea che «istituisce la “Giornata Nazionale della dieta mediterranea – patrimonio dell’umanità” la quale verrà celebrata il 16 novembre di ogni anno» (fonte).

Tutto questo perché non c’è nulla di più fastidioso e inaccettabile di una schiera di eletti, protetti dai propri segretari di partito, che decide di non decidere per non essere costretti a prendere una posizione. Inutili come una schiera di meteorologi che preferirebbe non dirci che tempo potrebbe fare domani oppure alla stregua di chirurgo che ritarda un’operazione perché deve ricaricare prima il proprio pendolo in salotto. Solo che quelli non potrebbero permetterselo. Questi invece sì.

Buon martedì.

(continua su Left)

La normalizzazione dello sterco

È un’operazione che richiede tutta una sua scienza la normalizzazione dello sterco. Rendere potabile ciò che prima era solo una rivoltante deiezione ha bisogno di un fortunoso contesto, di un perfetto incastro di eventi che diventano scivolo per digerire l’inammissibile, di una schiera di avvoltoi pronti a tutto per garantire l’autopreservazione, di un’opposizione culturale blanda e sfibrata, della giusta dose di paura (quanto basta per sdoganare la legittimità di un “egoismo solo per legittima difesa”) e di un’informazione prona ai desiderata degli agitatori nei posti di potere.

La normalizzazione non segue i percorsi consueti delle riforme. No. La normalizzazione (che non ha nulla a che vedere con il riformismo o la naturale evoluzione) entra di soppiatto dalla porta del retro per incendiare la folla senza prendersi la responsabilità di informarla e istruirla per poi poter dire “andava fatto così” o “ce lo chiedevano tutti”: oggi, luglio 2017, lo “Ius Soli” (che tra l’altro non lo è nemmeno, se non di nome, tanto che hanno dovuto aggiungerci “temperato” per farci intendere che si tratta di una concessione, una leccata fugace ad un diritto) si blocca in Parlamento perché serve una pausa di riflessione, come ci dicono loro, e perché “molto dipenderà dal clima dell’opinione pubblica” (come mi ha detto ieri un alto dirigente di questo vergognoso centrocentrocentrocentrosinistra che sta al governo).

E se serve recuperare voti a sinistra (perché questi i voti li “recuperano”, come si dice di un cliente scontento da lisciare offrendo il limoncello) allora ci si ingegna in una legge sull’apologia di fascismo (brutta e pasticciata) per dare un colpetto al cerchio e uno alla botte. Una legge che ancora una volta serve più a non perdere fette di mercato piuttosto che avere l’aspirazione di essere una matrice culturale: una legge che vuole punire “istigazione ed apologia dei delitti contro la vita e l’incolumità della persona” nel caso fosse compiuto tramite “telefono, Internet e social network” e non importa che siamo il Paese in cui la xenofobia di antica memoria fascista possa tranquillamente rientrare nei resoconti stenografici del Parlamento come se fossero noccioline.

È un gioco di normalizzazione lenta allo sterco con qua e là qualche contentino, con tutti concentrati ad ammaestrare un popolo bue curando i dettagli della distrazione. Perché poi, giova ricordarlo, alla fine stiamo parlando degli stessi che vorrebbero aiutare i migranti “a casa loro” dimenticando l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra (“Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere – in nessun modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche”). Sono gli stessi che colonizzano l’Africa per aprire i rubinetti all’Eni e poi si propongono per instaurare ricchezza e democrazia. Sono gli stessi che armano le guerre in giro per il mondo e si propongono per risolverle.

Il problema non è solamente quello di avere (e avere avuto) un governo di centrosinistra che ha sdoganato le politiche della destra. Qui siamo oltre: qui abbiamo un governo che ha deciso di allinearsi al fango per terrore degli elettori, rotolandosi negli inferi di quegli stessi istinti che vorrebbero cancellare da Facebook illudendosi di combatterli così.

Perché la mancata approvazione dello “ius soli” (come il ventiquattrenne morto di appendice e razzismo a Napoli, come l’urlare di “non avere l’obbligo morale di salvare tutti” o come la barzelletta della minaccia di “chiudere i porti” o la scenetta di indignarsi per gli accordi firmati con l’Europa) ha un odore (e un riscontro) ben più putrido di un busto di Mussolini (che putrido rimane). Ma è tutto così realisticamente normale. Invece.

Buon mercoledì.

(continua su Left)

Dalla “legge che tutti avrebbero dovuto copiare” a quella copiata male (apposta)

Ci avevano promesso di far tornare “il voto ai cittadini”. Destri, sinistri, cinquestelle, tutti d’accordo. Dopo avere scritto una legge incostituzionale (olè) hanno capito che il segreto stava semplicemente nel trovare un nome che sembrasse affidabile. Devono avere pensato a “Mercedes” o “Bmw” ma poi per problemi di marchio registrato si sono accontentati di “tedesco”.

Hanno scritto una legge elettorale che ci viene proposto come modello di rappresentatività e governabilità e invece non lo è. Rubo la spiegazione che mi ha dato, in una ricca conversazione ieri sera, il professore Andrea Pertici:

Saranno i partiti a scegliere gli eletti. Tutti i seggi sono attribuiti con sistema proporzionale sulla base sostanzialmente di una doppia lista bloccata: quella della circoscrizione (che al Senato è la Regione) e quella data dall’insieme dei candidati nei collegi uninominali della stessa circoscrizione (al Senato, Regione). Collegi uninominali dove non vince il candidato più votato ma semmai quello del partito più votato. E per non rischiare proprio nulla comunque il primo che passerà è il capolista del partito nella circoscrizione, dopo il quale si pescheranno i candidati nei collegi arrivati primi, poi gli altri candidati di lista e infine gli altri candidati dei collegi uninominali che hanno perso. Insomma, quello che conta è il partito. Quello che conta assai meno il nostro voto. Si parte da un modello europeo (questa volta il tedesco, si diceva) ma si finisce sempre con un sistema molto italico.

In pratica io voto il candidato che stimo nel mio collegio ma il mio voto premia prima il capolista bloccato.

 

(continua su Left)

Le lacrime di Carl Gustav Jung

Perché, nella modesta casa canonica a Kleinhüningen, dove suo marito è pastore, Emilie Preiswerk, sposata Jung, volga improvvisamente lo sguardo altrove dai suoi ricami e scoppi a piangere a dirotto, in un qualsiasi martedì pomeriggio del 1880, non è chiaro; anzi, al suo bimbo di cinque anni, Carl Gustav – che è l’unico in tutto il cosmo ad accorgersi dello zampillo assurdo di quelle lacrime – si scatena un terrore dentro al cuore quando la vede. Il bambino guarda la madre intensamente, senza dire niente, indagando con i piccoli occhi chiari la stanza, per capire cosa sia successo, chi le abbia fatto così male. Ma non c’è nulla: nessuno. Non ha radice, quel dolore. C’è solo un vasto silenzio nell’aria, che detona in un’eco di ansie mute. Quando Emilie riconosce la paura negli occhi del figlio, si asciuga le lacrime con il grande fazzoletto rosa che tiene sempre in tasca e gli sorride, come a dirgli: “non è niente, mamma sta bene”. Anche Carl Gustav sorride, d’istinto, di rimando, ma il terrore provato gli resta dentro. Quel terrore che non capiva il soffrire della creatura che più amava. Torna ai suoi giochi solitari con un’angoscia nuova.

Anche se è un medico, un filosofo, impegnato a Burghozli in uno dei maggiori centri di cura psichiatrica svizzera, lo sguardo di Carl Gustav Jung, alla fine dell’estate del 1904, non è molto diverso quando una diciannovenne strillante, di nome Sabine Spielrein, varca le porte del sanatorio. Geme, ride, urla come se fosse penetrata da lame, si lamenta e dice cose apparentemente senza senso. Il dottor Jung la prende in cura.

Seduta nella stanza bianca, contorta da ondate di tic che le sfigurano il volto, il dottore la percepisce piena di un’energia che non comprende appieno. È come se le sue strilla provenissero da una camera di tortura chiusa dentro la sua mente, di cui si è perduta la chiave. Ora lui vuole ritrovare quella chiave.

Poche settimane prima, nel suo taccuino, Jung aveva scritto di un immaginario caso clinico denominato “Sabine S.”. Ed ora, eccola lì: Sabine Spielrein. Sembrerebbe una incredibile coincidenza. Ma il giovane dottore non crede nelle coincidenze. Crede che le cose accadano dispiegandosi dalla nostra anima, come segni di un libro che dobbiamo imparare a decifrare. Crede che tutto accada con significato. Se ora quella donna è lì, è perché il destino gli sta parlando: Carl Gustav Jung ne è certo. Lo dice anche a sua moglie Emma; e le confida che, stavolta, vuole abbandonare le cure inefficaci della psichiatria contemporanea, per sperimentare un nuovo metodo, creato da un suo collega viennese, un tipo che lui non ha mai visto, che alcuni considerano un genio, altri un ciarlatano. Un tipo di nome Sigmund Freud. Quello che Jung non racconta a sua moglie è il fremito alle gambe che sente quando Sabine lo guarda, nei suoi rari sprazzi di lucidità non assediata da incubi. La trova bellissima come una tempesta. In lei, intravede pianeti perduti della propria interiorità. Come se Sabine fosse venuta a lui, per indicargli chi potrebbe ancora essere. Come se lei, mentre lui la cura, lo stesse curando.

I risultati medici sono straordinari: nel 1911, Sabine Spielrein somiglia alla ginnasiale promettente che era stata. Sembra uscita dall’inferno in cui era piombata durante le sue crisi, sembra avere un’armatura nuova. Si laurea brillantemente in medicina, vuole diventare psicanalista. Jung l’ha curata. L’ha curata con il metodo di Freud.

(Un gran pezzo di Cesare Catà. Continua qui)