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Appalto a sua insaputa

Una nuova fiammante storia arriva dalla Lombardia del duo Fontana & Gallera e questa volta si impiglia tra le pieghe dei parenti del presidente, più precisamente nelle pieghe di bilancio della Dama spa che appartiene – tramite Divadue srl – per il 10% a Roberta Dini (moglie di Attilio Fontana) e per il resto delle quote – tramite una fiduciaria svizzera – a suo fratello Andrea Dini.

Il 16 aprile Regione Lombardia tramite l’agenzia regionale pubblica degli acquisti Aria spa acquista dalla moglie e dal cognato di Fontana camici per un valore di 513mila euro. I bravi giornalisti di Report (la puntata andrà in onda stasera) chiedono spiegazioni al cognato di Fontana: quello prima risponde che «non è un appalto, è una donazione. Chieda pure ad Aria, ci sono tutti i documenti» e poi si corregge aggiungendo che «effettivamente, i miei, quando io non ero in azienda durante il Covid, chi se ne è occupato ha male interpretato, ma poi me ne sono accorto e ho subito rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione».

Dal canto suo il presidente Fontana, ha annunciato, tramite un comunicato, una querela nei confronti del Fatto quotidiano che ha anticipato il contenuto dell’inchiesta di Report, e ha diffidato la trasmissione di RaiTre «dal trasmettere un servizio che non chiarisca in maniera inequivocabile come si sono svolti i fatti». Nella nota Fontana ha ribadito la sua «totale estraneità alla vicenda» e ha precisato di aver «già spiegato per iscritto» agli inviati di Report di non sapere «nulla della procedura attivata da Aria spa» e di non essere «mai intervenuto in alcun modo». Ed ecco la replica di Ranucci (Report): «Non vedo proprio perché non dovremmo andare in onda. In fondo raccontiamo un bel gesto. Senza di noi e senza il Fatto Quotidiano nessuno avrebbe infatti saputo che l’azienda del cognato del presidente della Lombardia ha donato ai suoi cittadini materiale sanitario. E dal momento che Fontana dice di essere all’oscuro possiamo dire che tutto sia avvenuto a sua insaputa, sia in Regione che in casa. Insomma credo debba ringraziarci. Se non ce ne fossimo occupati noi avrebbe continuato a non sapere nulla».

In effetti a fine maggio risultano stornati i soldi con una nota d’accredito ma risulta piuttosto significativa la risposta di un appalto a sua insaputa che aggiunge un nuovo capitolo all’insaputismo dei nostri politici – alcuni dei quali negli anni hanno ricevuto appartamenti, favori, scambi e ogni volta ci hanno spiegato che non possono controllare tutto.

L’insaputismo del resto è lo stesso male che attanaglia quelli che continuano a concedere le piazze ai fascisti stupendosi poi che si comportino da fascisti oppure quelli che soffiano sulla violenza e poi si stupiscono della violenza oppure quelli che a sua insaputa hanno messo i malati in mezzo agli anziani delle Rsa.

Bisognerebbe scrivere una nuova legge morale: se qualcuno a sua insaputa è stato gravemente inopportuno allora è troppo superficiale per ricoprire un incarico pubblico. Solo così, forse, si potrebbe sconfiggere il virus dell’insaputismo che infesta la storia politica d’Italia.

Buon lunedì.

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I rimorsi di non avere detto ai genitori

So che non è un argomento da buongiorno, o forse sì, ma è capitato a tutti di vedere andarsene un genitore e di rosolare nel rimorso di non avergli detto tutto, di essersi negato un abbraccio, un ti voglio bene, qualcosa che si è rimandato convinti che tanto ci sarà un domani, un altro spazio in cui fare ciò che c’è da fare e invece niente. La morte è infame, arriva quando hai ancora tutte le carte sul tavolo e tu eri andato a dormire dicendoti che tanto sistemerai tutto domattina.

Ci vorrebbe un libro delle cose non dette perché non si è fatto in tempo. Sarebbe il romanzo più scorticante, doloroso, vero e bellissimo che si possa leggere in giro. Qualcosa che sanguina amore come quelle foto dei tempi in cui anche le macchine fotografiche erano un lusso eppure quando le guardi riesci a intuire tutti i movimenti e le parole dei dieci minuti prima e quelli dei dieci minuti dopo.

Il rimorso di non avere detto qualcosa ai genitori è la distanza tra quello che siamo e quello che vorremmo essere, il burrone che ci ritroviamo tutti a percorrere prima o poi nella vita ed è una di quelle cose che anche se te la spiegano in cento non la impari mai, non ci riesci a metterla in pratica, ci anneghi anche solo a pensarci.

Pensa se fossimo tutti, quelli che sono orfani e anche quegli altri, a compiere quel passo e a vivere ogni giorno con il cuore spalancato. Pensa quanto sarebbero risibili i piccoli odi quotidiani che qualcuno vuole sventolare come veritieri, come sarebbero piccole le persone che ci incitano a diventare impermeabili.

Vorrei un giorno, tutto il giorno, stare lì, in quel guado, perdermi a leggere tutto e scriverci un editoriale che sembrerebbe quello di un matto, un inno a quelli che riescono a essere quello che vorrebbero, un invito a viverla aperta questa vita che molti vorrebbero costringere negli schemi di un’anaffettività difensiva.

E mentre ci pensavo alla fine l’ho scritto.

Buon venerdì.

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E invece Di Maio su internet ha detto cose giuste (di cui non parla nessuno)

Mezz’ora di internet gratuito per tutti: i giornali aprono con titoli divertenti e divertiti sulla dichiarazione del ministro Luigi Di Maio dando sfogo agli istinti d’opposizione che in questo caso perdono completamente di vista l’argomento centrale.

Internet come diritto, innanzitutto: forse l’immagine della mezz’ora come diritto è banale e banalizzante ma internet come “diritto primario” (come ha detto ieri Di Maio) è un tema fondamentale di cui si discute in tutta Europa e quasi niente in Italia (eppure è l’argomento fondante della Dichiarazione dei diritti di internet elaborata dalla commissione Boldrini nella precedente legislatura ed è un punto su cui si è battuto a lungo a Stefano Rodotà). E sentire un vicepresidente del Consiglio che affronta l’argomento è una buona notizia.

Ieri tra l’altro Di Maio, in occasione dell’Internet day, ha anche preso una posizione chiara contro la riforma europea del copyright che vorrebbe tassare la condivisione di link (se vi fa ridere leggerlo così pensate a quanto poco ne avete letto in giro) e che vorrebbe demandare agli algoritmi il filtraggio ex ante di contenuti (ne parla con precisione Fabio Chiusi su Valigia Blu qui). Il discorso di Di Maio (che trovate qui) mentre in Italia è stato condensato nella riga della mezz’ora al giorno ha ricevuto il plauso delle più importanti organizzazioni internazionali di diritti digitali.

Forse sarebbe il caso che l’informazione (e l’opposizione, se esistesse) avesse più cura degli argomenti in campo e usasse un po’ più di lucidità piuttosto che buttarsi a testa bassa allo stesso modo contro il vergognoso fallimento del diritto umanitario internazionale e contro una frase estrapolata dal suo contesto. Ci guadagnerebbe il Paese e ci guadagnerebbe la credibilità di chi scrive. Per capirsi: è vergognoso Salvini, sono vergognosi i porti chiusi (che poi in realtà non sono chiusi) ma è vergognosa anche la Link tax a cui questo governo si è opposto chiaramente. Si può dire uscendo dal tifo?

Buon mercoledì.

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Berlusconi ha già cominciato la campagna acquisti. Il prossimo centrodestra è già putrido

“Non si dice mai di no a chi dice ‘Sottoscrivo il vostro programma’. Noi saremmo molto convenienti per loro perché potrebbero incassare interamente l’indennità parlamentare”: la frase è stata pronunciata da Silvio Berlusconi durante un’intervista al Corriere della Sera e i “loro” di cui parla sono i transfughi del Movimento 5 Stelle che, nonostante siano stati “espulsi” dal Movimento, saranno eletti (per merito di una pessima legge elettorale, giova ricordarlo) e andranno a rimpinguare un Gruppo misto che si preannuncia già folto fin dall’inizio della legislatura.

Stiamo parlando (per ora) di sei persone coinvolte nel cosiddetto caso “rimborsopoli”: Maurizio Buccarella, in lista al secondo posto per il Senato nel collegio Puglia 2; Carlo Martelli, al primo posto per il Senato nel collegio Piemonte 2; Elisa Bulgarelli, al terzo posto nel collegio Emilia Romagna 1 per il Senato; Andrea Cecconi, al primo posto per il collegio Marche 2 per la Camera; Silvia Benedetti, al primo posto in un collegio veneto per la Camera; Emanuele Cozzolino, al terzo posto in un altro collegio veneto sempre per Montecitorio; dei quattro candidati “massoni” (Piero Landi, candidato a Lucca; Catello Vitiello a Castellammare di Stabia, David Zanforlin a Ravenna e Bruno Azzerboni a Reggio Calabria), di Emanuele Dessì (amico del clan Spada e in affitto in una casa popolare a 7 euro al mese e candidato al Senato nel collegio Lazio 3, al secondo posto).

Ma non è questione solo di candidature sbagliate: qui si tratta di un recidivo (Berlusconi) che sfrontatamente dichiara di avere aperto la campagna acquisti per ambire a un gruppo parlamentare già dopato indipendentemente dal risultato elettorale. È il solito Berlusconi, quello pessimo a cui la storia ci ha abituato, quello che la Lorenzin e la Bonino da sinistra dichiarano come prossimo alleato naturale in nome della responsabilità. È lo stesso disco. Rotto. Vecchio. E quasi nessuno si indigna.

Buon mercoledì.

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La dignità dell’errore. E delle scuse

Filippo Chiarello aveva 38 anni, due bambini piccoli e un intervento da fare alla colecisti in laparoscopia. Nell’ospedale Santa Sofia di Palermo ci è entrato con l’idea di doverne uscire in pochi giorni, pronto ad affrontare una di quelle operazioni che di questi tempi sono routine. E invece è morto. E fino a qui sembrerebbe l’ennesima storia di malasanità pronta a finire sui giornali (locali, perché la sanità è sempre argomento molto poco pop) e ad aprire una sequela giudiziaria tra cartelle cliniche, scarichi di responsabilità e assicurazioni trincerate in difesa.

Invece qui le porte della sala operatoria si sono aperte davanti alla faccia addolorata di un medico che si è dichiarato colpevole di un errore: «Ho spalancato le porte della sala operatoria, ho allargato le braccia e ho detto che era colpa mia. Mi sono sentito morire dentro, sulle facce dei parenti ho visto la disperazione – racconta il medico che ha fatto l’intervento – e mi assumo la responsabilità ma ci tengo a far sapere che non ero distratto, ero concentrato. La verità è che può capitare e i rischi degli interventi in laparoscopia sono dietro l’angolo».

 

(continua su Left)

Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.