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Bella ciao, Lidia

È partita Lidia, fiaccata dal Covid ma con tutta la brillantezza dei suoi 96 anni vissuti tutti senza nodi in gola, con la libertà di chi lotta per la libertà e la giustizia. Ogni volta che muore un partigiano a guardarla da fuori questa nostra Italia sembra un po’ più debole per affrontare la ricostruzione e questa brutta aria che spira in giro per l’Europa. Ogni volta che muore una partigiana perdiamo una chiave per leggere il presente.

Lidia Menapace, all’anagrafe Brisca, era una pacifista. E quanto abbiamo bisogno di pacifisti che amano la lotta e disprezzano la guerra, come spesso ripeteva lei. E sapeva bene che la lotta dei partigiani non è qualcosa che va rinchiuso in un solo periodo storico, nonostante sia la tesi di molti a destra e di troppi anche a sinistra: «La lotta è ancora lunga perché quello che abbiamo ottenuto è ancora recente e fatica a durare», disse, con una lucidità che servirebbe a molta della nostra classe dirigente.

Fu staffetta partigiana e rivendicò il ruolo delle donne durante la guerra della Liberazione: «Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa», disse lo scorso 25 aprile in un’intervista che le fece Gad Lerner. «Il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi». Di noi dicevano che «eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani». Ma «senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza». Quando Togliatti chiese che le donne non sfilassero alla sfilata della Liberazione a Milano perché, secondo lui, il popolo non avrebbe capito lei non seguì l’ordine e si presentò comunque.

Quando si laureò nel 1945 con il massimo dei voti in Letteratura Italiana il suo professore lodò il suo lavoro definendolo frutto di “un ingegno davvero virile”. Lei non gliela fece passare e si prese dell’isterica. È la stessa Lidia Menapace che diventa la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, dove abitava, poi assessora alla sanità e agli affari sociali. Poi in Parlamento come senatrice di Rifondazione comunista quando era a un passo da diventare presidente della commissione Difesa ma non si trattenne dal dire che le Frecce tricolori fossero “uno spreco di soldi pubblici”. Mai moderata, mai zitta. Venne sostituita dal dimenticabile Sergio Di Gregorio dell’Italia dei Valori.

La sua formazione da donna libera la raccontava così: «Mia madre insegnò a noi due figlie un suo codice etico. Ci diceva: “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete, il marito lo tenete o lo mollate o ve ne trovate un altro. L’importante è che non dobbiate chiedergli i soldi per le calze”». Combatté il sessismo nel linguaggio. A proposito delle declinazioni delle parole al femminile scrisse: «Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria».

Era una donna libera Lidia Menapace e non poteva che essere innamorata della libertà.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Li disprezzano perfino i terremotati

Nella perpetua guerra tra poveri per instillare rabbia i sovranisti di casa nostra infilano l’ennesima perla (in termini semplici si direbbe bufala) pur di secernere un po’ di bile e affamare i disperati, alla continua ricerca di un nemico trafugato tra gli straccioni con buona grazia di chi invece ne gode seduto nei posti di potere. L’ultima patetica illazione (che ovviamente ha fatto il pieno di clic sui social e nei discorsi da bar) è una foto che dovrebbe ritrarre le tende dei terremotati di Amatrice coperte dalla neve a dimostrazione del fatto che mentre “i migranti godono di tutte le comodità” invece i “nostri italiani” debbano fare i conti con le precarie condizioni e con il gelo.

Sono talmente fessi questi petulanti oliatori seriali che non si sono nemmeno resi conto di avere reso virale un’immagine che ritrae invece il campo profughi di Arsal, in Libano, che in questi giorni è stato flagellato dalla tempesta “Norma” che ha distrutto gran parte dei giacigli, dei materassi e dei viveri a disposizione dei profughi siriani fuggiti dalla guerra e ospitati nel campo. In quello stesso campo, a causa della tempesta, lo scorso 8 gennaio ha perso la vita una bambina siriana di otto anni e molti altri bambini non hanno avuto a disposizione latte per più di una settimana.

Ma se non stupisce che la notizia sia stata ribattuta con foga da Primato Nazionale e altri goffi megafoni della becera destra suprematista (e razzista) italiana fa comunque specie che sia stata rilanciata (con una foto di Amatrice del 2017) dall’account ufficiale di Forza Italia (ah, i moderati),  e poi l’immancabile Giorgia Meloni che quando c’è da prendere una sonora cantonata accorre subito in prima fila (“Presidente Conte, non è che sull’aereo col quale vuoi andare a prendere i migranti a Malta c’è posto pure per i terremotati di Accumoli e Amatrice sommersi da una montagna di neve?” ha twittato il 9 gennaio tutta fiera la leader di Fratelli d’Italia con una foto che invece risale al 2017 a corredo della sua figura barbina).

Intanto i terremotati continuano a essere usati come spot elettorali, mica come persone, per diventare clava contro i nemici politici e poi essere dimenticati un minuto dopo. In questi 7 mesi di governo, al di là della propaganda, non è accaduto niente: nessuno sgravio fiscale, nessuna risposta ai cittadini che provano a rialzarsi. Nulla.

Anzi, c’è di peggio: è lo stesso sindaco di Amatrice a perdere le staffe. «Resto davvero allibito – ha dichiarato il primo cittadino in una nota ribattuta qualche giorno fa dalle agenzie – Siamo tutti adulti e vaccinati e sappiamo che quando si vuole visibilità, quando si avvicinano le elezioni, si usa qualsiasi mezzo. Chi è qui queste cose le vede davvero di cattivo gusto. Parlare di Amatrice e degli amatriciani va fatto ma usare immagini false è poco corretto e denota pochezza culturale. Se volete parlare di Amatrice fatelo – ha detto il sindaco – ma parliamo di cose serie, senza fare allarmismi o facendo paragoni che non c’entrano nulla».

Insomma, li disprezzano perfino i terremotati. A voi le conclusioni.

Buon lunedì.

 

 

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/01/14/li-disprezzano-perfino-i-terremotati/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.