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Migranti, la solidarietà dei cittadini di Nerano è uno schiaffo a chi tenta di aizzare una guerra tra disperati

Che bella la storia che arriva da Nerano, vicino a Capri, dove si scorge un’Italia così diversa da quella che naviga tra i social e tra la bile di qualche feroce politico che anche in pandemia tenta di aizzare la gente già sfiduciata e consumata dalla pandemia contro i migranti in questa eterna lotta contro gli ultimi degli ultimi, una guerra tra disperati che serve solo a rimestare voti.

Sedici migranti (14 uomini e 2 donne) provenienti da Iran e Iraq sono sbarcati nella baia di Ieranto e mentre cercavano un centro abitato attraverso tortuosi sentieri sono stati intercettati da una pattuglia dei carabinieri e da un’abitante di Massa Lubrense, quindi accompagnati al borgo di Nerano. Siamo nel pieno della costiera amalfitana, quella che gode della ricchezza di stranieri che passano qui le vacanze e che si è sentita in obbligo di restituire un po’ di serenità. Di notte, nel piccolo borgo, Salvatore Cioffi, un cittadino solidale che di questi tempi diventa addirittura una notizia, si è prodigato per dissetarli e in poco tempo anche gli altri concittadini hanno cominciato una gara di solidarietà. Il proprietario del ristorante “Lo Scoglio”, uno dei più rinomati della zona ha fatto preparare alcuni pasti caldi mentre Rosetta Esposito, che in paese ha un piccolo negozio di alimentari, ha alzato di notte la saracinesca per occuparsi dei profughi. Intanto si sono mosse anche le istituzioni: i medici hanno provveduto a un primo controllo medico e hanno preparato il giro di tamponi per testare le persone (risultate tutte negative) mentre il sindaco di Massa Lubrense Lorenzo Balduccelli si è attivato per una sistemazione per la notte in un salone (dal nome bellissimo e evocativo: Salone delle Sirene) all’interno del municipio. Ora la Procura indaga per capire chi ha trasportato i migranti, non sono state ritrovate imbarcazioni.

La storia fa il giro dei social e sotto, ovviamente, piovono i soliti insulti, il solito cattivismo, il solito razzismo di quelli che si dichiarano non razzisti. Eppure è una storia ordinaria, piccola, che racconta come esistano luoghi e esistano persone che tendono la mano a chi ne ha bisogno, senza troppe domande e senza troppi giri. “A Nerano – ha detto Rosetta Esposito al Corriere della Sera – gli stranieri portano ricchezza e benessere. Ma ora siano noi a dover essere accoglienti”. Perché capita a chiunque di ritrovarsi da una parte o dall’altra della barricata, ciò che conta è farsi trovare pronti, e etici. Sempre.

 

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Il Covid blocca anche le adozioni: 500 bambini non possono andare dalle loro nuove famiglie

L’epidemia porta con sé storie nascoste nelle pieghe che bisogna andare a cercare e che nascondono difficoltà che rimangono sotto traccia. In Italia in questo momento ci sono 500 famiglie che attendono il proprio figlio. Sono famiglie che dopo un lungo percorso sono riuscite ad accedere all’adozione internazionale e che nonostante abbiano già ottenuto l’abbinamento, un percorso sfiancante dal punto di vista burocratico e affettivo, non riescono ad abbracciare i propri figli a causa dei blocchi tra Paesi.

La psicologa e psicoterapeuta Maria Rita Parsi, con un intervento sul settimanale Oggi scrive chiaramente cheper quei bambini attendere ancora significa nuovamente sperimentare un rifiuto che inconsciamente conoscono e consciamente li opprime”. Hanno conosciuto i genitori – spiega la Parsi – scambiando abbracci e pronunciando parole in lingue diverse, nel nome di un nascente amore, di una nascente, reciproca fiducia e speranza di diventare famiglia. Quei bambini sono stati fin dalla nascita segnati da distacchi e da traumatiche esperienze che li hanno separati dalle madri che li hanno messi al mondo. Hanno vissuto in istituti con altri bambini o in famiglie di accoglienza”.

Il presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini Marco Griffini racconta che l’ex vicepresidente della Commissione per le Adozioni Internazionali aveva parlato di “corsie preferenziali” per superare il blocco causato dell’epidemia: serve un accordo urgente con i Paesi di provenienza, di concerto con tutti i Paesi europei per riuscire a sbloccare la situazione. “Questo è un problema urgente che non riguarda solo i 500 bambini italiani già abbinati, che, bisogna ricordarlo, sono già dei potenziali cittadini italiani”, ha aggiunto Griffini.

“C’è un numero spropositato di bambini orfani a causa del Coronavirus e quindi vanno studiate e applicate assolutamente delle nuove modalità di gestione delladozione internazionale”. E la memoria va a quando il Governo si attivò, era il 2014 con la ministra Boschi, per sbloccare la situazione di 31 bambini in Congo. Un padre sulla pagina Facebook “Un bimbo mi aspetta” scrive: “Continuo a essere convinto di questa scelta, ma ora mi faccio delle domande, perché il tempo per far ripartire le cose c’è stato. Mi rendo conto che un genitore adottivo non muove il mercato di un campionato di calcio. Mi rendo conto che cerano altre priorità (ci sono sempre altre priorità quando si parla di adozione). Ma abbiamo trovato il tempo di andare in vacanza, riaprire i campionati di calcio, spostare turisti e merci. Siamo riusciti a mettere in piedi un turno elettorale. E non siamo riusciti a unire duecento famiglie. Ogni tanto si spera che l’adozione possa essere “veloce” come un abbandono. Anche in tempi di Covid.

Leggi anche: 1. Coronavirus, Conte: “Situazione preoccupa, rispettare le regole. Lockdown a Natale? Non do previsioni, mi occupo di prevenire” / 2. “Dopo i casi di oggi è davvero possibile un nuovo lockdown delle città italiane”: parla Pregliasco / 3. C’è l’emergenza Covid, ma all’Umberto I di Roma i pazienti sono stipati in sala d’attesa. Motivo? Il set di Mission Impossible con Tom Cruise

4. “La gente non ci vuole mai credere fino a quando deve per forza toccare con mano che il virus non è mai stato meno letale”. Parla Cartabellotta del Gimbe / 5. Nonostante il Covid abbiamo realizzato solo metà delle terapie intensive e usato un terzo dei fondi per posti letto e tamponi / 6. Tutti i numeri su Immuni tra le omissioni delle Asl e la paura dei contagiati

7. Giallo, arancione, rosso: i 3 scenari del Cts per le chiusure se salgono i contagi / 8. Covid, il ministro Speranza: “Il 75% dei contagi da parenti e amici: stop a tutte le feste” / 9. L’epidemiologo Le Foche: “I contagiati hanno carica virale bassa, epidemia domabile in primavera”

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Il problema non è solo Montesano che fa il negazionista, ma chi gli chiede pareri sanitari in piena pandemia

L’ultimo in ordine di tempo è Enrico Montesano, che nei suoi film, qualcuno, ci ha anche fatto ridere con la sua stonatura romanesca e con quel cipiglio sempre pronto: il comico romano si accoda al folto gruppo di no mask, quelli che sono contro la “dittatura sanitaria” perché disturbati dalla mascherina, poverini, e che probabilmente non sanno cosa significhi farsi incastrare un respiratore in gola o hanno avuto la fortuna di non avere mai dovuto subire una colonscopia.

Il comico, badate bene ex geometra, è diventata la star della manifestazione dei negazionisti di sabato a Roma, quella che tiene insieme un po’ di complottisti, quelli delle scie chimiche, gli scalmanati del chip sotto pelle e che raccoglie i transfughi più matti dei 5 Stelle (sempre grazie mille per avere contribuito così alla qualità del nostro Parlamento) e quelli che sulla pandemia cercano di ritagliarsi un po’ di visibilità.

Dice in un’intervista a La Stampa Montesano che non si fida dei medici e un comico ex geometra che non si fida della scienza dovrebbe rimanere una curiosità da scambiarsi tra quattro amici al bar e invece qui da noi diventa un parere che sfocia perfino nei giornaloni. E vabbè. Poi ci spiega che le mascherine fanno male perché respiriamo la nostra anidride carbonica e allora gli si potrebbe rispondere con lo studio pubblicato su ‘Annals of the American Thoracic Societyrealizzato da Michael Campos, esperto del Miami Veterans Administration Medical Center e dell’università di Miami come gli effetti della mascherina siano minimi anche in pazienti con insufficienza polmonare molto grave. Ma non servirebbe, no, perché Montesano dice di non fidarsi “dei medici scelti dalla tv” e di essere critico perché è un uomo “curioso”.

Ma il capolavoro di Montesano è quando dice di aderire alla manifestazione ma confessa di non partecipare perché “a una manifestazione può intervenire chiunque e se non so chi potrò incontrare non partecipo, anche se aderito”. Un capolavoro. Ci tiene a dire di non essere un negazionista però ci dice che le mascherine fanno male. Poi si supera ancora: consiglio di tenerle al chiuso e non all’aperto. Infine il solito giochetto retorico: “ma qualcuno – dice – lo dovrà dire che il re è nudo. Oppure no? Il pensiero unico non mi è mai piaciuto”. Insomma la pensa diversamente perché gli piace la postura, tutto qui, e in compenso gli regala anche un po’ della visibilità perduta. Poi ci sarebbe la domanda delle domande: come siamo arrivati a chiedere pareri scientifici a Montesano (e agli altri)? Si attende risposta.

Leggi anche: A Roma i sovranisti scendono in piazza per la “Marcia della Liberazione”. Tra i sostenitori anche Enrico Montesano: “Se non otteniamo niente, ci vuole un po’ di disobbedienza civile”

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Demonizziamo l’assassino di Lecce senza renderci conto che l’invidia è diventata il motore di quest’epoca

Il presunto omicida di Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta a Lecce avrebbe confessato di avere agito perché “erano troppi felici e per questo mi è montata la rabbia” (qui le virgolette sono d’obbligo poiché la frase è stata riportata da fonti investigative ed è ancora tutto da appurare) e subito si è scatenata una ridda di criminologi e esperti di ammazzamenti che frugano nella vita del ragazzo per raccontarci tutti i suoi lati presumibilmente oscuri. La demonizzazione dell’assassino è una catarsi meravigliosa: più lo dipingiamo lontano da noi, meno assomiglia a noi e più ci sentiamo in pace con noi stessi.

Stupisce però che ci si stupisca dell‘invidia senza rendersi conto che è il motore politico e sociale di quest’epoca, invidia intesa come il soffrire del bene (o spesso del bene percepito) degli altri per rifocillare un’identità fragile. Perché la domanda “perché lui sì e io no?” è in fondo la domanda delle domande di un certo ragionamento sociale e politico che qui sembra andare per la maggiore. L’invidioso che non è contento di sé e che percepisce il bene dell’altro come una diminuzione di se stesso è lo stesso che si lamenta ogni volta che ci si batte per i diritti di qualcuno a cui lui non sente di appartenere (gli altri possono essere gli stranieri, la casta, i percettori del reddito di cittadinanza, i dipendenti pubblici e un’infinità di altre categorie).

Su una certa malsana invidia si è scatenato un certo populismo di questi anni che punta a maledire e smontare ciò che viene vissuto come più in alto piuttosto che proporre ragionamenti complessi. Sull’invidia tra poveracci si basa tutta la retorica di chi ha instillato una guerra tra disperati convincendoci che erodere i diritti degli altri garantisca i nostri diritti. Come oggetti di invidia sociale si propongono alcuni modelli culturali che mostrano inaccessibili stili di vita.

Poi l’invidia diventa risentimento e infine rancore e così si accende la guerra (e talvolta la violenza) di cui infine ci stupiamo. Scriveva Paul Valéry: guardando bene, si scopre che nel disprezzo c’è un po’ di invidia segreta. Considerate bene ciò che disprezzate e vi accorgerete che è sempre una felicità che non avete, una libertà che non vi concedete, un coraggio, un’abilità, una forza, dei vantaggi che vi mancano, e della cui mancanza vi consolate col disprezzo”. Nietzsche scriveva di una versione più feroce dell’invidia come gioia maligna che porta a godere del male dell’altro.

Siamo sicuri che l’invidia sia solo una mostruosa eccezione da relegare all’omicidio di Lecce? Perché il giorno che decideremo di non demonizzare, non deridere, non compiangere, non disprezzare ma comprendere le azioni umane forse riusciremo ad aprire un dibattito più proficuo e interessante.

Leggi anche: 1. I bigliettini, la mascherina, la foto Whatsapp: i passi falsi di Antonio De Marco, il presunto killer di Lecce; // 2. Omicidio Lecce, la confessione di Antonio De Marco: “Sì, sono stato io. Erano troppo felici”; // 3. Lecce, “Il killer deriso dai due in un sms”. Si indaga sul movente della vendetta; // 4. Chi è Antonio De Marco, il 21enne di Lecce che ha ucciso Eleonora Manta e Daniele De Santis

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Elly Schlein a TPI: “Io segretario Pd? Sto bene dove sto. Sui migranti troppe ambiguità, ci vuole più coraggio”

Vicepresidente della Regione Emilia Romagna ed ex europarlamentare, Elly Schlein fondato le liste “Coraggiosa” hanno corso alle ultime elezioni amministrative con buoni risultati. TPI l’ha intervistata su Ue, politiche migratorie e futuro del governo.
L’Europa dice “superiamo gli accordi di Dublino” e poi esce con questa solidarietà invertita tra stati del Migration Pact. Che ne pensi?
È un errore strategico perché, al di là della dichiarazione del volere abolire il regolamento di Dublino, non risolve il nodo fondamentale che solo la riforma approvata dal parlamento nel 2017 risolveva: cioè un ricollocamento automatico per condividere equamente tra gli stati la responsabilità sull’esame delle richieste di asilo, valorizzando i legami delle persone. Quello è il tema. Mi sembra un piano deludente perché in questo modo mette da parte il lavoro fatto dal parlamento e approvato dalla maggioranza e che poteva essere utilizzato anche per convincere i governi dentro al consiglio a votare, anche a maggioranza qualificata. E invece ripropone l’idea molto vecchia della solidarietà flessibile. Un’operazione culturalmente molto pericolosa è mettere sullo stesso piano i ricollocamenti (e quindi la condivisione dell’accoglienza) e la sponsorizzazione dei rimpatri. Mi sembra che lasci le mani libere a quei governi che si sono dimostrati molto interessati alla solidarietà europea quando vuol dire fondi strutturali e assolutamente indisponibili quando si tratta di un’altra forma di responsabilità europea che è quella che già i trattati chiedono sull’asilo e sull’accoglienza. Mi sembra anche un errore strategico perché anziché farsi forte di una posizione già approvata dal parlamento si riparte da zero con una proposta che non risolve il tema della solidarietà obbligatoria.

L’Europa dice che è solidarietà obbligatoria perché comunque devi dare un contributo…
Cosa sceglieranno i paesi del blocco di Visegrad tra i ricollocamenti e tra il dare un po’ di soldi per fare i rimpatri o dare altro supporto operativo? C’è poi un’altra preoccupazione che sono le procedure accelerate alle frontiere che sembrerebbero aumentare il carico di lavoro ai paesi di confine come l’Italia e soprattutto non si capisce basate su cosa. La convenzione di Ginevra chiede un pieno esame individuale delle domande d’asilo e se tu fai una procedura accelerata – magari basata sul concetto molto discrezionale di paese terzo sicuro – rischi di costituire un filtro d’ingresso che nega il permesso di asilo a seconda del paese da cui provieni. Non mi sembra un passo avanti. Mi sembra un passo indietro. Perfino la commissione Junker, anche se con soglie altissime, faceva scattare un obbligo di ricollocamento per tutti i paesi europei. Al governo italiano spetta un difficile negoziato in cui trovare alleati sui ricollocamenti obbligatori.

In Italia qualche giorno fa hanno bloccato la Mare Jonio ed è la sesta nave ferma in porto per questioni burocratiche anche piuttosto discutibili. I decreti sicurezza rimangono sempre lì e Lamorgese ha parlato di possibili profili penali per le Ong. Come siamo messi qui da noi a criminalizzazione della solidarietà?
Evidentemente male. Mi sembra che ci sia ancora troppa ambiguità in relazione all’obbligo di ricerca e soccorso in mare e non mi sembra che si sia risolto il tema facendo la guerra a coloro che cercano di sopperire alle mancanze istituzionali. Non si sta discutendo di rimettere in mare un’operazione di ricerca e soccorso istituzionale come è stata Mare Nostrum, no, e a fronte di questo a maggior ragione è sbagliato criminalizzare chi si sta occupando di salvare vite in mare che è un obbligo giuridico e morale. Male.

Troppe ambiguità anche da parte di questa maggioranza. Spero possa risolverla in modo diverso anche con la modifica di questi decreti sicurezza che davvero stiamo aspettando da troppo tempo. Era il primo segnale necessario di discontinuità del governo Conte e ne stiamo parlando ancora dopo un anno. È importante che arrivi in fretta e che corregga non solo la criminalizzazione delle Ong ma anche gli altri profili gravissimi come quello che tendeva a smantellare l’unico sistema di buona accoglienza che è quello diffuso, che rifiuta la grande concentrazione di persone dove spariscono i diritti e spesso si infila l’ interesse economico, quello che privilegia le piccole soluzioni abitative distribuite sul territorio con adeguati servizi di inserimento nella società e con adeguati controlli da parte delle amministrazioni locali e con trasparenza sull’utilizzo dei fondi. Chi ha scritto i decreti sicurezza privilegiando le grandi concentrazioni rispetto all’accoglienza diffusa è proprio chi vorrebbe fare dell’accoglienza un business, calpestando i diritti. Con un po’ di coraggio in più questa maggioranza dovrebbe riscrivere complessivamente le leggi sull’immigrazione rimediando ai disastri delle destre che hanno prodotto irregolarità e ingiustizia, non certo inclusione e sicurezza per le comunità.

Molti ti vorrebbero segretaria del Pd ma le tue liste “Coraggiosa” hanno corso alle amministrative ottenendo ottimi risultati. Hai intenzione di continuare su questa linea o pensi che si possa pensare a un partito di centrosinistra che tenga insieme tutto?
Noi stiamo bene dove stiamo. Anzi, in una tornata che ha segnato dei risultati importanti ma non brillanti per le forze progressiste e la sinistra siamo rimasti positivamente sorpresi che le liste di coraggiosa abbiano avuto una crescita significativa. a Faenza abbiamo fatto il 7,22 per cento, a Vignola abbiamo avuto una crescita del 145 per cento rispetto alle regionali di 8 mesi fa. A Imola è andata bene, siamo cresciuti al 5 per cento. Quindi in una tornata in cui il centrosinistra si è difeso bene ma non c’è stata una crescita in valori assoluti, “Coraggiosa” è in controtendenza forse perché stiamo provando a dare una chiarezza di visione che in questo momento a livello nazionale manca. Stiamo cercando, dentro le coalizioni, di contribuire a fermare la destra ma qualificando la nostra proposta sui temi della lotta alle disuguaglianze e alla transizione ecologica, due temi su cui chi si sta mobilitando anche fuori dalla politica è stufo di titubanze e di ambiguità. Questo può essere anche uno spunto importante per le forze che formano questa maggioranza. Sui temi del clima, dell’immigrazione e del lavoro di qualità bisogna che si sblocchi questo governo. Su giustizia sociale e transizione ecologica questo governo può fare fronte comune e fare un balzo in avanti. “Coraggiosa” non ha mai avuto l’ambizione di essere un nuovo partito o una sigla in più, ha sempre avuto l’ambizione di scuotere l’intero campo delle forze ecologiste e progressiste pretendendo chiarezza nella visione condivisa di futuro. Unità sì ma non ha senso se non è accompagnata dalla coerenza di un progetto condiviso. Quindi per ora noi continuiamo a stare dove stiamo e continueremo su questa strada.

Come vedi il futuro del governo?
I risultati elettorali danno un respiro ampio ma non per stare fermi, guai a sedersi sui risultati. Quei risultati consegnano la responsabilità alle forze di governo di rilanciare in avanti. Abbiamo un’occasione straordinaria, le risorse in arrivo vanno utilizzate coinvolgendo i territori e le parti sociali, non è un sfida di governo, è una sfida che riguarda il paese. Quelle risorse ci danno l’occasione di ricostruire il paese su basi nuove, possiamo risolvere alcuni ritardi accumulati nei decenni.
Quali sono le priorità?
Transizione ecologica, su cui bisogna investire il 37 per cento delle risorse del Recovery Fund, la trasformazione digitale, su cui bisogna investire il 20 per cento e la coesione sociale. Le priorità indicate dalla commissione europea centrano proprio la congiunzione tra lotta alle diseguaglianze e transizione ecologica che sono i temi su cui insistiamo da tempo. Se il governo avrà la capacità di progettare il nuovo e non semplicemente aprire cassetti polverosi per accontentare qualcuno, si potranno spendere bene. Nei vecchi cassetti ci sono progetti scritti troppi anni fa per riuscire a interpretare i cambiamenti che servono. Io credo che la tenuta di questo governo si misurerà se le forze che lo compongono, piuttosto che continuare a distinguersi, proveranno a lavorare concretamente sui temi che li uniscono. E questi sono i temi su cui possono provare a fare un passo avanti insieme.

Transizione ecologica significa investire su un nuovo modo di spostarsi, una mobilità dolce e sostenibile puntando su ferro, intermodalità e ciclabili, vuol dire creare occupazione di qualità nelle rinnovabili, nell’efficientamento energetico degli edifici e nella prevenzione del dissesto, perché l’unica grande opera che serve al paese è la cura del territorio così colpito dai cambiamenti climatici. E poi investire sulla trasformazione digitale per rimediare i ritardi enormi che abbiamo a partire dalle pubbliche amministrazioni, ma vuol dire riuscire a governare anche processi di innovazione tecnologica per metterli al servizio delle persone, perché non governati hanno prodotto un’enorme concentrazione di ricchezze e saperi. Si dovrà assicurare pari accesso alla rete per chiudere i divari territoriali, e per il privato investire nel digitale vuol dire innovare e contribuire all’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese.

Coesione sociale significa anche fare un enorme investimento sulla scuola, sul capitale umano, sulla formazione a partire dagli asili nido. Investire sui nidi vuol dire rendere più solidi i percorsi educativi contrastando povertà educative e dispersione scolastica, ma significa anche fare politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro indispensabili per colmare il divario occupazionale delle donne, favorendo una migliore distribuzione del carico di cura. Dopo la crisi del 2008, le ricette hanno reso il lavoro più precario, specie per donne e giovani. Oggi dobbiamo evitare quegli errori e ricostruire su basi diverse. Non abbiamo più scuse, le risorse ci sono.

Leggi anche: TPI intervista Elly Schlein, campionessa di preferenze in Emilia-Romagna: “Vi racconto la nuova sinistra che può battere Salvini”

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Solidali a respingere

C’era grande attesa per il il nuovo Patto europeo per le migrazioni e l’asilo, il Migration pact che ieri Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha presentato in pompa magna. C’era anche molta attesa visto che proprio la presidente nei giorni scorsi aveva annunciato il superamento del Regolamento di Dublino che da tempo rende iniquo l’approccio degli Stati europei nei confronti delle migrazioni.

La presidente ha parlato di “un nuovo inizio” (che è una frase che qui in Italia risuona con l’odore stantio dei decreti sicurezza che continuano a rimanere in vigore) parlando di “solidarietà europea”. In cosa consiste?

Rimane il principio del Paese di primo ingresso che dovrà svolgere tutte le pratiche burocratiche e sanitarie. Dice l’Europa che però nel giro di pochi giorni saranno prese “veloci decisioni di asilo e di rimpatrio”, con l’intento di velocizzare l’esame delle domande d’asilo. Diventa difficile pensare che la ricerca di rapidità non comprima ulteriormente i diritti che già spesso vengono calpestati. Ma tant’è.

E allora dov’è la solidarietà? È una solidarietà al contrario, la solita, dell’Europa che si chiude. Il vicepresidente della Commissione, Schinas, ha ripetuto più volte la definizione di “sponsorship sui rimpatri”. Spiega Schinas: «La nuova idea di sponsorizzazione dei rimpatri servirà a riequilibrare interessi concorrenti: non tutti gli Stati membri accetteranno la ricollocazione dei migranti con questo sistema offriamo un’alternativa percorribile: se non si decide di accogliere si può aiutare nel rimpatrio». In sostanza: se un Paese non vuole accogliere deve aiutare gli altri a rimpatriare. Una nuova solidarietà europea che li vede tutti uniti a respingere. Il piano è sempre lo stesso: solidali tra Stati a contenere gli arrivi e ancora più perfomanti nei respingimenti. I “ricollocamenti”, quelli che dovevano essere “automatici” dopo gli accordi di Malta e che sono rimasti lettera morta, continuano a rimanere un’utopia.

E un programma di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo? Niente. L’apertura di canali umanitari (e legali)? Niente. Interrompere la criminale cooperazione con la Libia? Niente. Collocamenti automatici? Niente. Sanzioni? Niente.

Siamo alle solite: una decisione a respiro cortissimo e una solidarietà che no, non ce la fa proprio a guardare a quelli che vengono dal mare.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Non c’è un giudice a Strasburgo?

Tocca parlare ancora di Turchia, perché i diritti sono sempre quelli degli altri e perché la finta contrizione per la morte di Ebru Timtik sembra non avere insegnato nulla, niente.

L’avvocato Aytaç Ünsal, collega di Ebru Timtik e anche lui al suo 214° giorno di sciopero della fame, anche lui condannato per terrorismo e ovviamente sottoposto a un processo farsa, ha rischiato di fare la stessa fine della sua collega e di altri che in questi mesi stanno protestando contro il governo di Erdogan e che sono accusati in modo strumentale per essere messo fuori gioco.

Nelle scorse ore, fortunatamente, la Corte di Cassazione di Ankara ha deciso la sua immediata scarcerazione per motivi di salute. I giudici hanno stabilito che l’avvocato 32enne debba essere “immediatamente liberato” a causa del “pericolo che rappresenta per la sua vita la permanenza in prigione”. Nei giorni scorsi, i sanitari avevano lanciato l’allarme sul deterioramento delle sue condizioni di salute.

Ma solamente due giorni fa, il 2 settembre, la Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) aveva bocciato il ricorso per la scarcerazione di Ünsal confermando la decisione della Corte costituzionale turca dello scorso 14 agosto. E già questo dovrebbe porre delle domande poiché giuristi di tutta Europa stavano sottolineando l’iniquità della giustizia turca nei confronti degli avvocati. Giusto per capire a che punto siamo arrivati basti pensare che il ministro dell’Interno, Süleyman Soylu, ha definito una «terrorista» l’avvocata morta, e ha denunciato l’ordine degli avvocati di Istanbul per averla commemorata. In Turchia sono vietate anche le lacrime.

Ma non è tutto, no: il presidente della Cedu, Robert Spano, è in questi giorni in Turchia per ricevere una Laurea Honoris Causa in Giurisprudenza a Istanbul e poi tenere, ad Ankara, una Lectio Magistralis presso l’Accademia di Giustizia turca. L’Università statale di Istanbul è stata al centro di una massiccia epurazione dopo il fallito “colpo di Stato” del 2016: furono licenziati 192 accademici. Quell’università è il simbolo dell’opera di pulizia da parte di Erdogan e che un giudice super partes decida di esserne ospite accende più di qualche dubbio.

Lo scrittore Mehmet Altan ha scritto a Spano: «Non so come si possa essere fieri di essere membri onorari di una università che condanna alla disoccupazione, alla povertà e al carcere centinaia di docenti solo per il loro pensiero e i loro scritti». Altan è un accademico di fama mondiale ed era stato espulso da quella università per le sue idee e fu tra i primi intellettuali arrestati nella repressione post-golpe. L’accusa, tanto per chiarire di cosa stiamo parlando, sarebbe quella di avere mandato “messaggi subliminali” durante un programma televisivo. Altan è stato poi prosciolto ma non è mai stato reintegrato all’università, marchiato come traditore.

In tutta la Turchia pendono qualcosa come 60mila richieste di reintegro da parte di lavoratori che hanno perso il proprio lavoro per le loro idee politiche. E sapete chi vaglierà quelle richieste? Robert Spano, quello che in questi giorni è in gita d’onore proprio in Turchia.

E questo per oggi è tutto.

Buon venerdì.

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Il problema non sono i furbetti dei 600 euro, ma i leader che li hanno portati in Parlamento

Guardare il dito e la luna. È una storia che comincia come una barzelletta: ci sono tre leghisti, c’è un Cinque Stelle e uno di Italia Viva, la caccia ai nomi sarà lo sport della giornata e forse anche dei prossimi giorni. Che in mezzo ai richiedenti ci siano anche presidenti di regioni (che certo non hanno stipendi inferiori ai parlamentari) sembra essere sfuggito ai più. L’importante sono i parlamentari, gli obiettivi sono i parlamentari, tutti addosso ai parlamentari. Sia chiaro: che i cinque siano l’antitesi di quella disciplina e di quell’onore che sono richiesti dalla Costituzione a chi si ritrova a governare la cosa pubblica è fuori da ogni dubbio.

Chiedere 600 euro nella comodissima posizione dell’essere parlamentare è un gesto infimo, siamo d’accordo ma una riflessione ragionata e ampia dovrebbe spingerci a porci domande e allargare la discussione. Una norma, ad esempio, che prevede un contributo a pioggia, senza limiti di reddito, a tutti è politicamente sbagliata e praticamente inutile ai fini dell’uguaglianza sociale: i parlamentari hanno sfruttato una falla nella legge (e fanno schifo anche per questo) che ha permesso a molti benestanti di usufruire di un bonus di cui non avevano bisogno. Diciamolo: dare 600 euro a tutti è stata una pessima idea, forse dettata dall’emergenza, ma una pessima idea. Il buon legislatore scrive le leggi (e i decreti) perché siano funzionali ai più bisognosi e perché sbarrino la strada ai furbi. In questo caso non è successo, diciamolo chiaramente.

Poi dell’epoca Covid sarebbe da raccontare anche quella parte di imprenditori che hanno usufruito della cassa integrazione senza avere nessuna riduzione di fatturato, sarebbe da parlare dei cassintegrati che hanno continuato a lavorare normalmente per qualche imprenditori che si ritene particolarmente furbo, sarebbe da parlare di chi in nome dell’emergenza si è addirittura arricchito usufruendo comunque degli aiuti di Stato. Facendo due conti siamo di fronte a un dissanguamento di denaro pubblico enormemente più grave di quel gruzzolo di 600 euro. Sarebbe bello che l’INPS ci parlasse anche di questo, no?

E infine un punto strettamente politico: quanto comodo fa all’antipolitica (quell’antipolitica che ci ha trascinati in questo gretto populismo) che dei parlamentari vengano sventolati come prova della fallacia di una legge che invece ha favorito una platea ben più vasta? Quanto gioca tutto questo per il prossimo referendum (populista) che ancora una volta punta sulla quantità e non sulla qualità? E soprattutto: ma chi ha scelto quei parlamentari, quelli che dovrebbero formare la classe dirigente di questo Paese, non ha nulla da dirci? Perché quei nomi li sappiamo già: Matteo Salvini, Gianroberto Casaleggio e Matteo Renzi. Loro non hanno nulla da dirci?

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Le domande semplici, da non dormirci la notte

Ogni tanto sogno di essere un giornalista. Sogno di porre delle domande e, nel sogno, di avere addirittura delle risposte. Mi sveglio tutto sudato e non riesco nemmeno ad ascoltarle, le risposte. Così poi tutto il giorno mi trascino con gli interrogativi in testa, che mi martellano.

Ad esempio: ma a voi sinceramente sembra normale che uno dei due vicepremier vada a cena dal proprietario della più importante azienda televisiva del Paese, una cena senza streaming e senza twitter e senza nemmeno uno straccio di diretta Facebook, noi non sappiamo nulla di quello di cui hanno parlato e il giorno successivo si sblocchi la nomina della più importante figura della televisione pubblica?

Poi: ma a voi sinceramente sembra normale che nessuno chieda dove siano finiti i 49 milioni di euro di contributi pubblici che un partito (che è al governo) dichiara semplicemente finiti? Ma se fosse un vostro figlio a dirvi li ho finiti nessuno di voi gli chiederebbe dove, come? Niente? A posto così?

E poi: ma a voi sembra normale che una nave militare italiana (la Caprera) che era stata pugnacemente spedita a controllare che non arrivassero migranti dalle coste libiche sia stata beccata con settecento chili (700 chili) di sigarette di contrabbando quando in Italia? 3.600 stecche chiuse in 72 scatole? In nome della lotta agli scafisti?

E poi: è possibile in un Paese laico (almeno sulla carta) essere sommersi per tutto il giorno dalle diverse cronache del “miracolo di San Gennaro” senza che nessun titolista, caporedattore, direttore o anche semplice lettore incazzato chieda di mettere la parola “miracolo” tra virgolette? Sembra un’inezia, lo so, ma l’ecologia lessicale è sempre un ottimo viatico per quella sociale.

E poi: ma la ministra che si è spesa come avvocatessa in difesa delle donne davvero non ha niente da dire sul medievale Ddl Pillon? Non ha niente da dire sui cinquanta (50, eh) femminicidi avvenuti quest’anno? Ma davvero i reati cambiano consistenza e gusto in base al governo in carica?

E infine: ma ve li ricordate tutti quelli che hanno difeso Formigoni e ci hanno governato insieme vent’anni? E, per curiosità, sapete in che governo è stato eletto Presidente della 9ª Commissione Agricoltura del Senato della Repubblica?

Ecco. Basta così.

Buon giovedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/09/20/le-domande-semplici-da-non-dormirci-la-notte/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/05/01/il-colloquio-di-lavoro/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.