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domande

Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

Siria chimica: Erode si è fermato Idlib

«È stato Assad!» gridano tutti. Come se il mondo (e ancora di più la Siria) potesse essere il tavolo banale su cui giocano i buoni contro i cattivi, come se poi non ci fossero anche i morti di Mosul, come se lo Yemen invece fosse solo la cloaca dei morti di serie b oppure come se la fabbricazione di armi non sia un ricco banchetto tutto occidentale.

Nell’ordine di qualche ora la colpa dei bambini gasati è stata affibiata a Assad, ai ribelli, a Obama (da Trump), all’ONU, a Putin, più qualche manciata di scenari apocalittici dei complottisti rossobruni più affilati. Tutti alla ricerca di un nemico unico che sia riconoscibile, facile e banalmente tranquillizzante.

Molti con le risposte, pochi con le domande. Francesco Vignarca, ad esempio, scrive: «La parte preponderante di colpa per i terribili attacchi chimici avvenuti in Siria è in chi ha lanciato tali ordigni. Ma non è secondaria nemmeno la colpa di chi ha fabbricato, trasportato, autorizzato tali armi. E vale per qualsiasi armamento, in ogni guerra. Troppo facile pensare che i “cattivi” siano solo quelli dell’ultimo pezzettino del viaggio tra l’ideatore di un’arma e la vittima finale…». Già, chi ha ” fabbricato, trasportato, autorizzato tali armi”? Tornando indietro nel tempo, chi ha appoggiato festante le “primavere arabe”?

 

(continua su Left)

Viva Via Gaggio domanda su Malpensa: ecco le risposte

viva-via-gaggio-tra-terra-e-poesia-lo-spot-L-_8V71RIl comitato Viva Via Gaggio pone alcune domande ai candidati. Ecco le mie risposte:

  • Sapreste descrivere brevemente in cosa consiste il Masterplan?

E’ il “piano di espansione” dell’aeroporto di Malpensa per l’ampliamento della struttura aeroportuale con la costruzione, tra le altre cose, di una terza pista e del relativo terminal, oltre a nuovi capannoni, collegamenti ferroviari e strutture turistiche (es. hotel). Il tutto “invadendo” un’area esterna all’attuale sedime dell’aeroporto, quella brughiera “bene comune”, ambiente unico da tutelare e salvaguardare.

Io, il Masterplan, l’ho definito “l’Expo dei Filippelli”. Non è un caso che il progetto della terza pista comprenda in gran parte una fetta del territorio di Lonate. Ci sono le indagini che lo provano, con tanto di intercettazioni: gli affari li faranno soprattutto gli ‘ndranghetisti.

  • In merito al Masterplan di SEA, come intenderete procedere se eletti?

Da sempre ho dichiarato la mia assoluta contrarietà, un NO chiaro, ostinato, “senza se e senza ma”, che si è tradotto, in questi due anni e mezzo da consigliere SEL, in diverse interrogazioni e osservazioni sull’argomento.

E’ mia intenzione continuare su questa strada.

Sono convinto che la Regione soffra di mancanza di pianificazione e di disegno strategico. Attualmente siamo di fronte ad una crescita dell’aeroporto di Bergamo, mentre quello di Brescia è sottoutilizzato e le stime sul traffico (36 milioni di passeggeri effettivi a fronte di 60 milioni di capacità massima) rendono del tutto ingiustificato l’ampliamento di Malpensa, il cui traffico, tra l’altro, è in calo.

E’ quindi necessario che la Lombardia si doti di un piano di sviluppo del sistema aeroportuale basato sui dati effettivi e non sulla smania di cementificazione e sul “costruire per costruire” che ha caratterizzato tutta l’“era Formigoni”. Occorre concentrare l’attenzione sull’ottimizzazione dei movimenti a terra e in volo, sulla riduzione del rumore, sull’uso dei pontili per evitare eccessive movimentazioni di bus e rullaggi, sull’uso di mezzi elettrici per i movimenti a terra.

  • L’alta densità di popolazione nei pressi dell’aeroporto è un fattore da non sottovalutare: sapete quali rischi corrono i cittadini in termini di salute e qualità della vita?

So che il livello di inquinamento – dell’aria, acustico e luminoso – nel territorio intorno all’aeroporto è preoccupante, com’è stato accertato anche da numerosi studi dei Comuni e del Parco del Ticino e dallo studio HYNEA. E’ un dato molto grave, che colpisce l’ambiente e la salute dei cittadini.

Parliamo, per quanto riguarda della salute, di aumento dell’insorgenza di malattie respiratorie, cardiovascolari, forme tumorali, e dell’aumento del numero di decessi da queste causati: dal 1997 al 2009 – secondo Andrea Bagaglio, medico del lavoro ex funzionario Asl – i decessi per malattie respiratorie in tutti i comuni dell’Asl di Varese sono aumentati del 14%, e nei comuni del Cuv lo stesso parametro è salito del 54%.

La Regione Lombardia aveva affermato la necessità di procedere in modo coordinato tra Valutazione di impatto ambientale e Valutazione ambientale strategica. Nei fatti, è stato avviato esclusivamente il primo dei due iter. E invece il punto è che soltanto la Vas permette di valutare se la zona sia in grado di sopportare un aumento del sedime aeroportuale e un incremento dei voli per passeggeri e merci, ed è l’unico mezzo che ci permetta di  valutare  l’impatto della terza pista su tutto il territorio, brughiera e popolazione.

  • Malpensa viene spesso descritta come principale – quando non unica – fonte di lavoro per i cittadini dei Comuni circostanti: sapete descrivere le condizioni e la qualità del lavoro all’interno dell’aeroporto?

Quando su una “grande opera” iniziano ad alzarsi le voci contrarie, arriva sempre alle nostre orecchie la frase “Ma non si può impedire, perché crea occupazione”.  Ma è la verità? E qual è prezzo?

Se anche fosse vero che Malpensa assicura l’occupazione ai cittadini dei Comuni circostanti, cosa tutta da dimostrare, è sicuramente vero che le condizioni di lavoro sono inconfessabili.

Lavoro nero, aumento della precarietà, appalti e subappalti tra cooperative che sfruttano la manodopera (pagata con salari sempre più bassi, come in una “guerra tra poveri”) e che, a forza di “passare l’incarico” creano un sistema di sfruttamento a catena. E i diritti dei lavoratori diventano un’utopia, mentre aumentano, da parte della Dirigenza, le ritorsioni e le discriminazioni verso i lavoratori più sindacalizzati.

Non manca la cassa integrazione, visto il calo del traffico (ma a cosa serve, allora, costruire la Terza pista?) e il fallimento – o la riduzione del numero dei voli – di molte compagnie.

Tra le iniziative che SEL proporrà nei primi sei mesi di nuovo governo regionale, ci sono leggi per la sperimentazione del reddito minimo di cittadinanza e per il contrasto al lavoro nero e la destinazione di risorse per situazioni di crisi e politica attiva del lavoro.

  • Ad oggi, credete possibile che un territorio come il nostro abbia bisogno di un ulteriore Polo Logistico di 200.000 mq in pieno Parco del Ticino?

Non credo proprio. Non ne vedo l’utilità ma, soprattutto, sono convinto che l’area sia assolutamente da tutelare.

La realizzazione del Polo Logistico comporterebbe la scomparsa di un’ampia fetta di territorio di brughiera e un’ulteriore delocalizzazione dei cittadini del Comune di Lonate Pozzolo.

C’è bisogno, invece, di tutelare l’area del Parco del Ticino, che ha caratteristiche da proteggere secondo la direttiva habitat e secondo la direttiva uccelli. La scomparsa di questo habitat sarebbe una perdita immensa, visto che non potrà rigenerarsi spontaneamente altrove né essere ricostruito artificialmente in altro luogo per le particolari caratteristiche del suolo, come studi del Parco del Ticino in collaborazione all’Università di Pavia hanno sottolineato.

Con SEL, abbiamo in programma la promozione di provvedimenti di legge sulla tutela ambientale e l’inquinamento (riduzione delle sostanze inquinanti).

  • Il nostro territorio si trova all’interno del Parco Naturale della Valle del Ticino, il più grande parco fluviale europeo. Quali sono le vostre ricette per realizzare il giusto equilibrio tra Aeroporto e Parco?

Come sottolineavo prima, le previsioni sull’utenza non sono affatto in “forte crescita”, anzi.

Credo quindi che sia doveroso pensare ad un tavolo con gli enti locali e le associazioni per studiare insieme le soluzioni per il futuro.

Punto molto sulla discontinuità rispetto alla precedente amministrazione regionale: se con Formigoni la programmazione era basata sul “costruire per costruire”, io invece voglio impegnarmi per una programmazione reale degli interventi, una programmazione che sia basata sulle reali necessità del territorio, dei suoi abitanti e dell’ambiente. La Regione quindi dovrà interfacciarsi con le realtà territoriali locali e con le associazioni e i cittadini, invece che con i “soliti noti” interessati unicamente al profitto. Per una più sana gestione dei fondi pubblici e dell’ambiente.

  • Sulla pagina di Expo2015 – il cui tema è logicamente in contrasto con il consumo di suolo – si legge: “All’Expo in mostra la frontiera della scienza e della tecnologia: preservare la bio-diversità, rispettare l’ambiente in quanto eco-sistema dell’agricoltura, tutelare la qualità e la sicurezza del cibo, educare alla nutrizione per la salute e il benessere della Persona […].” Come credete si possano supportare tali tesi, quando il Masterplan è finalizzato a supportare i milioni – e perchè non miliardi – di visitatori in arrivo per Expo2015? [ricordiamo che nei primi 10 mesi del 2012 Malpensa ha registrato un traffico che sfiora i 16 milioni di passeggeri. Le previsioni per il 2030 sono di 50/70 milioni di passeggeri]

Sono convinto che Expo vada ripensata, proprio nell’ottica di poter accogliere un gran numero di visitatori mantenendo un profilo di sostenibilità. Non può mascherarsi da evento “buono” e poi calpestare la legalità,  i diritti delle persone e l’ambiente.

Parlando di EXPO, ma anche in generale di politiche ambientali, credo fortemente che vadano incentivate, promosse e supportate tutte quelle pratiche che sono oggi possibili e imprescindibili per un ambiente che sia davvero “bene comune”. Penso alle energie rinnovabili, alla mobilità “sostenibile” (veicoli  innovativi con motori e combustibili a minimo impatto per il trasporto pubblico e collettivo), alla forestazione compensativa per pareggiare il consumo di suolo, all’estensione dell’agricoltura invece che della cementificazione, e ad un’edilizia che prediliga il risparmio energetico e delle risorse idriche e la riduzione delle emissioni.

La tutela ambientale è strettamente collegata alla lotta alle mafie. Pensiamo alla presenza della criminalità organizzata nel settore degli appalti e del trattamento e smaltimento dei rifiuti: salvaguardando l’ambiente, rifiutando la cementificazione selvaggia e sostenendo le politiche del riciclo e riuso, si “tagliano le gambe” alla catena di illegalità che da sempre va a braccetto con le grandi opere e i grandi eventi.

E’ possibile prevedere un EXPO che sia davvero “Nutrire il pianeta”, se lo si ripensa in chiave sostenibile, come terreno di sperimentazione di nuove politiche che sappiano coniugare l’aspetto di “attrattiva” per i visitatori con quello etico e sostenibile per l’ambiente e il territorio.

n.b.: nel 2010, insieme a Chiara Cremonesi (SEL) e Pippo Civati (PD) ho promosso “EXPO No Crime”, il primo intergruppo interistituzionale che vuole coagulare i rappresentati della Regione Lombardia, Provincia di Milano e Comune di Milano in un percorso di vigilanza, dibattito e confronto nella realizzazione di EXPO 2015. Un luogo di partecipazione di politici, associazioni, movimenti, giornalisti, liberi cittadini dove fare domande ma soprattutto provare a costruire risposte. Un segnale chiaro per chi oggi infila il malaffare nelle pieghe della sonnolenza lombarda. Per dire che sappiamo chi sono “le famiglie” e quali sono “i modi” al banchetto dell’Expo ma adesso ci siamo anche noi. Adesso tocca a noi. Ognuno con il proprio ruolo e la propria storia siamo chiamati ad assumerci la responsabilità di un’azione politica e civile che diventa sempre più urgente.

Sì, lo voglio

Lui avrà avuto forse trent’anni, quasi quaranta, sicuramente non più di quarantacinque. Portati male, comunque. Di troppo o troppo poco.

Stavano a Roma in un ristorante troppo imbucato per non essere scientificamente un ristorante costruito apposta con quella forma lì per inghiottirsi tutti i viaggiatori con una predisposizione all’imbuco. Tavolini fuori, sì, ma con siepi altissime, come un cubo di edera. Camerieri riservati da sembrare timidi da almeno un paio di secoli. Nessun orario di apertura o chiusura: se apri un ristorante così introvabile soffri l’orario dei mondi paralleli, degli alieni per salvarsi, dei non-luoghi senza bisogno di aerei o centri commerciali. Insomma un ristorante che esiste solo se si incrociano perfettamente gli appuntamenti: luogo, ora, imprevisti e tutto quel cumulo delle probabilità.

Lei deve essere stata accondiscendente tutto il pranzo. Lo scalino più irto era stata la scelta del vino. Cosa da poco. Hanno finto di metterci la testa per quell’abitudine alle complicazioni come una malattia.

Poi lei deve avere fatto una di quelle domande definitive. Perché lui si è guardato in giro. Per sbaglio ha incrociato anche uno dei riservatissimi camerieri dalla riservatissima postura. Che per poco non ha rischiato il lavoro per quell’errore di mira di sguardi.

Poi si è bloccato. Ha pagato il conto come se dovesse morire ogni secondo e lasciare le cose a posto. Lei ha sorriso prima. Poi si è indispettita. E alla fine si è alzata mentre il rumore di elettrocardiogramma sputava lo scontrino. Dietro l’angolo della strada si sono incrociati di nuovo. Ciechi a tutti. Un sciogliersi di ombre a forma di macchia sul marciapiede per quel sole così matematicamente verticale.

Sono giovani, mi ha detto un carabiniere. Non hanno ancora imparato a non pensare al domani. Un ‘sì, lo voglio’ come il rosario prima di andare a dormire.

Interviste come monologhi assistiti

«Una confessione per iscritto è sempre menzognera». Lo diceva Italo Svevo, o meglio lo diceva Zeno, o forse entrambi, e questo è solo il primo di molti tranelli. Non per nulla l’autobiografia ha fama di essere il più malfido dei generi letterari; si presta a tutte le reticenze e le compiacenze, agli accomodamenti retrospettivi, alle civetterie. Qui si lascia osservare l’analogia fondamentale tra l’ego umano e il soufflé in cottura, che è tutto un informe gonfiarsi e ribollire finché non lo trafigga la punta di una forchetta. Ecco, questa forchetta potrebbe provvederla il formato del libro-intervista, dove il narcisismo dell’autore cozza a ogni pagina con un emissario del principio di realtà, l’intervistatore. In altre parole, l’unico rimedio all’espansione incontrollata del soufflé è il dialogo, e anche per questo c’è chi mette in capo all’albero genealogico degli intervistatori Platone, fondatore del libro-intervista in forma di dialogo filosofico. Genealogia rivelatrice da qualunque lato la si guardi, perché 1) Platone scriveva sia le domande sia le risposte, se la suonava e se la cantava; 2) certi intervistatori di Socrate erano, per dire il meno, piuttosto accomodanti: Critone non fa che punteggiare gli sproloqui del maestro con i suoi «vero», «è chiaro», e «come no?». Ergo, dire che Platone è il padre del libro-intervista equivale a dire, grosso modo, che ogni intervista è un’intervista immaginaria o unmonologo camuffato.

Nella nostra epoca, il modello platonico puro va ricercato nelle interviste ai leader politici, e in particolare in un sottogenere assai nutrito: l’intervista a Fidel Castro. Il Critone di turno si è chiamato di volta in volta Frei Betto, Gianni Minà o Tomás Borge, tutti impegnati in una strenua gara di resistenza. Minà resse sedici ore, tanto che Valerio Riva lo candidò al Guinness dei primati per «la più lunga intervista fatta in ginocchio». Ma i record sono fatti per essere battuti, e così Ignacio Ramonet accumulò tra il 2002 e il 2005 ben cento ore di conversazione con il facondo líder maximo, che divennero un libro di settecento pagine. Ma lo si dovrebbe squalificare dalla competizione: come dimostrò all’epoca il giornalista spagnolo Arcadi Espada, l’intervista dell’allora direttore di «Le Monde diplomatique» era per buona parte un copia-e-incolla di vecchi discorsi di Castro e articoli usciti sulla stampa di regime. Il libro, ironicamente, s’intitolava Autobiografia a due voci. Presentandolo, Ramonet si premurava di ricordare che anche «i dialoghi platonici erano interviste». Appunto, e le scriveva tutte Platone.

Un bel pezzo di Guido Vitiello.