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doppia

L’equilibrista

Ci sono alcune novità dopo la conferenza stampa di ieri di Mario Draghi. Draghi, l’abbiamo capito bene, è uno con la stoffa democristiana, uno che le conferenze stampa le sa gestire provando ad accontentare tutti ma soprattutto stando attento a non scontentare nessuno, rimanendo sempre in bilico su quell’area di grigio che può essere scambiata per meritevole equilibrio oppure per inutile furbizia. Ognuno si costruirà la sua opinione, ognuno gli concederà la sua porzione di stima.

Draghi ha seppellito Salvini. E ha fatto bene, una volta per tutte: dire «ho voluto io Speranza nel governo e ne ho molta stima» significa togliere una volte per tutte dalle mani di Salvini e compagnia cantante la vecchia scusa di essere con Draghi ma contro Speranza, di fare opposizione a un pezzo del governo continuando a restare nel governo. Non sarà facile ora per il leader leghista raccontarlo ai suoi. Ci sarà da ridere e fa piacere che un presidente del Consiglio (ancora una volta) metta Salvini di fronte alla sua patetica doppia faccia.

Draghi durissimo su Erdogan: «Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, bisogna essere franchi per affermare la propria posizione ma anche pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto». Chiamare un dittatore “dittatore” è sempre una bella notizia, cooperare con un dittatore rientra in quella realpolitik che può piacere o meno.

Ma se qualcuno è felice per la stoccata al sultano turco, allora dovrebbe ascoltare però le giustificazioni piuttosto flebili sulla Libia. Perché Draghi ha parlato di corridoi umanitari che non esistono, al di là di qualche sparuta persona e perché ha parlato di “superamento dei centri di detenzione libici” che sono proprio quel “salvataggio” per cui aveva ringraziato la Libia. No, proprio no. Non ci siamo.

Quindi un colpo di qua e un colpo di là. Non accontentare nessuno e non scontentare tutti. Come gli equilibristi, quelli che ti stupiscono per i primi metri sulla corda e poi annoiano tantissimo, e riescono a essere pericolosi per sé e per gli altri.

Buon venerdì.

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È che ci vorrebbero felici di essere schiavi

Il “rider felice”: un articolo de La Stampa – che si è basato su una notizia falsa – rivela una narrazione che colpevolizza i disoccupati alimentando pregiudizi

Ieri ha fatto molto discutere un articolo pubblicato da La Stampa, a firma di Antonella Boralevi, che racconta di tale Emiliano Zappalà, un rider felicissimo di essere rider, secondo Boralevi, che pedala per 100 km al giorno e guadagna come un manager dopo avere dovuto chiudere il suo studio da commercialista a causa dell’epidemia. Il sottotesto dell’articolo (in cui si attacca anche il reddito di cittadinanza) è in sostanza questo: se siete poveri è colpa vostra che non avete voglia di fare un cazzo perché il mondo del lavoro è pieno di grandi opportunità. Insomma, il solito articolo da libberisti (con due b) che vedono in giro un mondo perfetto e che tacciano coloro che rivendicano diritti come fastidiosi lagnosi.

“Si chiama Emiliano Zappalà, ha 35 anni. Aveva aperto uno studio di commercialista, il Covid gliel’ha fatto chiudere. E lui, invece di chiedere il reddito di cittadinanza, si è messo a lavorare. Dove? In uno dei settori che il Covid ha reso vincenti: la consegna a domicilio. Business raddoppiato in 10 mesi, come il numero degli addetti”, si legge nel pezzo di Boralevi. E già l’incipit è roba da orticaria. E poi: “Come racconta in un’intervista al Messaggero, da quasi un anno il Dottor Zappalà è un rider di Deliveroo. Cioè fa circa 100 chilometri al giorno in bicicletta, con un borsone giallo sulle spalle e consegna pizze e pranzi e spesa. Guadagna 2000 euro netti al mese e, certi mesi, anche 4000. Uno stipendio da manager. Ed è felice”. Felice, capito?

Il pezzo ovviamente è diventato subito combustibile per infiammare gli stomaci contro gli sfaticati che si lamentano e che non producono. Tutto perfettamente in linea con una certa narrazione che vorrebbe risolvere il problema della povertà e dei diritti del lavoro semplicemente negando. Se è felice Emiliano Zappalà dovremmo essere felici tutti. Ovvio. Ah, il grande sogno americano.

Peccato però che Emiliano Zappalà non esista e che quell’articolo sia completamente falso. E c’è da scommettere che tutti quelli che l’hanno rilanciato siano gli stessi che inorridiscono per le fake news in internet, ci metto la firma.

Emiliano Zappalà si chiama Emanuele (vabbè, ha solo sbagliato il nome, una giornalista, a proposito di meritocrazia e di cura nel proprio lavoro), ha studiato da commercialista ma non lo è mai diventato e quindi non ha mai aperto uno studio che quindi non è mai stato costretto a chiudere per la pandemia. Anzi i chilometri che percorre li macina su un motorino. Quindi si perde anche il culto dell’attività fisica, che peccato. Raggiunto da un giornalista de La fionda racconta di avere avuto mesi positivi, di lavorare molte ore al giorno e di guadagnare in media 1.600 euro al mese. Niente stipendio da manager, insomma. Anzi a voler indagare per bene si vede che proprio un Emiliano Zappalà risulta tra i firmatari del contratto siglato da Assodelivery e Ugl, un contratto che introdusse un “cottimo mascherato” e per questo è stato sconfessato e ritenuto illegittimo dallo stesso ministero del Lavoro. Tra l’altro, denunciano molti rider, “la sottoscrizione del contratto è stata utilizzata dalle aziende per ricattare più o meno velatamente i lavoratori: chi non firma, viene estromesso dalle piattaforme”. Insomma Zappalà è molto aziendalista, senza dubbio. E infatti dal suo profilo Linkedin rilancia con molto entusiasmo le comunicazioni aziendali di Deliveroo.

Quindi per l’ennesima volta la favola che avrebbe dovuto colpevolizzare i disoccupati si rivela semplice fuffa buona solo ad alimentare pregiudizi. Un bell’editoriale che si basa tutto su una notizia falsa e su una pregiudiziale narrazione a favore dello schiavismo felice. Perché loro ci vorrebbero così: mica solo schiavi, addirittura anche felici.

A proposito: “è un fatto o no?” chiedeva Antonella Boralevi in chiusura del suo saccente articolo. No, signora Boralevi. No.

Buon martedì.

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I numeri parlano

Contagi, tasso di positività, terapie intensive. Leggere i numeri è un esercizio utile per rendersi conto del punto in cui siamo

“Aumentano i positivi perché aumentano i tamponi”, dicono. Semplice così. Dopo mesi di pandemia ancora esistono quelli che contano il totale dei contagi e ci vorrebbero convincere che la situazione vada letta sul bollettino quotidiano. Se i contagi crescono ci si preoccupa, se i contagi calano ci si calma. Nemmeno il coronavirus ha insegnato l’arte della complessità, nemmeno tutti questi mesi, nemmeno tutti questi morti.

Però i numeri parlano, nella loro sostanziale inamovibilità e leggere i numeri è un esercizio utile. Sia chiaro: non si tratta di creare allarme ma si tratta almeno di rendersi conto del punto in cui siamo.

E il punto in cui siamo è sostanzialmente questo: il tasso di positività sulle persone testate (quindi quelle sottoposte a tampone per verificare la presenza del virus) 4 settimane fa era del 3,4%, 3 settimane fa era del 4,6%, 2 settimane fa era del 6,2%, settimana scorsa era del 7,7% e ieri del 14,2%. Qualcuno potrebbe dire: “mirano meglio”. Sul numero di tamponi processati totali ieri l’Italia ha superato la Francia con un tasso del 9,4%. Il giorno precedente era del 7,9%, prima ancora del 6,6%. Il tasso di positività è in crescita marcata da 10 giorni.

Sempre rimanendo sui numeri: la crescita dei posti occupati in terapia intensiva (a proposito di chi dice “sono tutti asintomatici”) negli ultimi giorni è stata esponenziale. Negli ultimi 12 giorni segue la formula x=(1,075^t)*358. In sostanza secondo la curva ci dice che le terapie intensive raddoppiano ogni 9,6 giorni.

Poi ci sono i fatti: i tracciamenti ormai sono sostanzialmente persi. Ieri l’Ats di Milano, solo per fare un esempio, per bocca del suo direttore sanitario Vittorio De Micheli ha dichiarato: «Non riusciamo a tracciare tutti i contagi, a mettere noi attivamente in isolamento le persone. Chi sospetta di aver avuto un contatto a rischio o sintomi stia a casa». Siamo a questo punto, ancora. Ieri Walter Ricciardi, ordinario di Igiene all’Università Cattolica del sacro Cuore di Roma e consulente del ministro della Salute ha detto «un’epidemia si combatte con i comportamenti delle persone e con il tracciamento, ma quando vai oltre 10.000-11.000 casi e non riesci più a tracciare». Crisanti lo spiega bene: «È saltato completamente il sistema di tracciamento. Le misure di contenimento sono inutili senza un piano organico per dotare l’Italia di un sistema che mantenga basso il numero dei contagi. È la vera sfida. Se invece di buttare soldi per acquistare i banchi a rotelle avessimo investito sul tracciamento e sulla capacità di eseguire i tamponi, oggi saremmo in una situazione differente. Non possiamo andare avanti altri sei mesi solo con le chiusure. Quest’estate – ricorda – eravamo arrivati a 300 contagi al giorno, avremmo dovuto porci il problema e organizzarci per evitare che quel dato tornasse a salire mettendo in campo un reale ed efficace sistema di tracciamento e tamponi. Invece non abbiamo fatto nulla.»

Stiamo discutendo dell’ultimo Dpcm quando è già superato dai fatti. E la sensazione, ascoltando anche dalle parti del governo dove con questa situazione ancora si discute di “movida”, è che la situazione attuale abbia bruciato tutti i mesi di vantaggio accumulati. E che non ci sia nemmeno il coraggio di dirlo chiaramente.

Buon martedì.

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Lo smemorato del Sussidistan

Eccolo qui, ancora, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi che come un falco rotto si lancia sul sistema Italia impartendo la sua lezione di politica dall’alto della sua (modesta) esperienza imprenditoriale e con i suoi soliti toni di guerriglia contro il Paese sociale. La sua ultima impresa, il suo ultimo bullismo lessicale è tutto nella parola «Sussidistan» con cui ha bollato l’Italia colpevole, a suo dire, di occuparsi troppo dei poveri e troppo poco delle imprese. «Aderire allo spirito dell’Ue significa una visione diversa dai sussidi per sostenere i settori in difficoltà. Nel lockdown il governo ha assunto misure di sostegno alla liquidità delle imprese e di rifinanziamento al fondo Pmi, ma i sussidi non sono per sempre, né vogliamo diventare un Sussidistan», ha detto Bonomi all’assemblea annuale degli industriali, riprendendo tra l’altro il termine già usato dall’economista del partito di Italia viva e trasformando un discorso serissimo e fondamentale per il futuro del Paese in uno slogan da macchiette.

Però ci vuole davvero un bel coraggio e tanta miopia per sostenere che il denaro a pioggia sia distribuito solo nella «logica del dividendo elettorale» nell’Italia in cui gli industriali hanno dimostrato di sapere battere cassa come forse da nessun’altra parte, tanto che al ministero dello Sviluppo economico c’è addirittura un’intera task force (un’altra, l’ennesima) dedicata esclusivamente agli incentivi alle imprese.

Forse bisognerebbe ricordare a Bonomi che già nel Dopoguerra fu lo Stato, attraverso le banche pubbliche, la Mediobanca di Enrico Cuccia e l’Iri a iniettare denaro nell’industria nazionale. Qualcuno potrebbe ricordare cosa accadde negli anni Novanta quando tutti i cittadini pagavano mutui con interessi a doppia cifra e lo Stato firmava il famoso “tasso Fiat” al 7% per aiutare l’azienda automobilistica italiana, quella che non ha avuto molti scrupoli poi a chiudere i suoi impianti italiani e delocalizzare con tanta agilità spostando tutto l’asse verso gli Stati Uniti.

Oppure si potrebbe tornare sul cronico tasto dolente di Alitalia che è stata privatizzata ma non è mai stata realmente privata nella distribuzione delle sue perdite che sono ricadute e continuano a ricadere nelle tasche dei contribuenti. Oppure si potrebbe ricordare i miliardi di euro che ogni anno arrivano come contributi indiretti o come sgravi fiscali all’industria del cemento che formalmente vanno a favore dei cittadini sotto i fantasiosi nomi di sismabonus, ristrutturazioni, rifacimento terrazze e soprattutto come bonus facciate ma che di fatto servono ad alimentare un settore in crisi profonda anche di idee che senza aiuti di Stato sarebbe fermo al palo. Dice il segretario Cgil Maurizio Landini in un’intervista a La Stampa che «il Sussidistan è quello delle aziende che vivono di contributi pubblici. Tra il 2015 e il 2020 alle imprese sono andati sussidi per più di 50 miliardi. E più di un terzo dei 100 della manovra del 2020. Una cifra consistente, una parte è prevista anche nella manovra più recente. Sono sussidi per incentivare assunzioni, sgravi fiscali, aiuti di ogni genere. Noi chiediamo di uscire dalla logica degli aiuti a pioggia per una nuova politica industriale che incentivi a creare lavoro di qualità e non precario innanzitutto per giovani e donne».

Il tema vero di questa epoca politica è che è in corso un attacco sconsiderato ai poveri e alla povertà (non certo per sconfiggerla con redditi decenti), che si camuffa come critica politica al Reddito di cittadinanza e a Quota 100 ma che sostanzialmente punta a spostare i soldi del prossimo Recovery fund sulle imprese che non vogliono perdere la propria occasione di sedersi al tavolo e di dividersi una bella fetta della torta. L’avevamo già scritto qualche numero fa proprio su queste pagine (vedi Left del 26 giugno, La democrazia secondo Confindustria, ndr): Confindustria ha lanciato Bonomi nell’agone politico con l’evidente obiettivo di succhiare più soldi possibili dai (molti) soldi che arriveranno dall’Europa. Solo questo. Tutto qui. E il trucco di non distinguere i piani del rilancio industriale da quelli della lotta alle povertà è astutamente utilizzato per confondere le acque.

Infine il prode Bonomi si lancia anche nella sconclusionata proposta di fare pagare l’Irpef direttamente ai dipendenti in nome di una “semplificazione” che non si capisce esattamente cosa porterebbe: in un Paese dove l’evasione fiscale costa 107 miliardi all’anno (metà del Recovery fund) e con la scandalosa statistica che ci dice che il 93% dell’Irpef è pagato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati la proposta suona come un sottilissimo invito a investire in quelle stesse modalità che da anni azzoppano le casse pubbliche con l’enorme “fantasia fiscale” di una certa parte dell’imprenditoria italiana.

Un fatto però suona chiaro e cristallino: nel Paese dei capitalisti senza capitali che fanno imprenditoria con i soldi degli altri (o con i soldi pubblici) Carlo Bonomi si presenta con tutti i ghingheri che servono per apparire il perfetto protettore di un certo padronato che ha nel vocabolario del futuro solo una parola: soldi, soldi, soldi.

L’editoriale è tratto da Left del 9-15 ottobre 2020

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Un errore madornale

Il caso dello stipendio raddoppiato del presidente Inps, Pasquale Tridico non può essere considerata semplicemente una “svista” derubricata come un incidente di percorso e non un enorme errore della maggioranza in un delicato momento politico. Che Conte dica che non sapeva e che Di Maio ora prometta accertamenti è troppo poco per pensare che tutto si dissolva nel giro di poche ore.

Il presidente dell’Inps, sulla cui gestione ci sarebbe più di qualcosa da ridire a partire dall’attacco hacker al sito che poi non c’è mai stato, ha ottenuto un aumento di stipendio (che Repubblica definisce anche retroattivo ma su questo Tridico ha smentito) in piena estate un decreto interministeriale che porta la firma della ministra del Lavoro Nunzia Catalfo (che vigila istituzionalmente sull’Inps) e quella del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Una decisione che ha interessato anche gli altri compensi dei consiglieri e quelli dell’intero consiglio di amministrazione dell’Inail (compreso il presidente Bettoni).

Il tema non è tanto lo stipendio di Tridico (il suo predecessore Boeri guadagnava 103mila euro mentre Tridico è fermo a quota 62mila) ma ciò che turba, e non poco, è che Tridico, uomo da sempre vicino al Movimento 5 Stelle, è stato ricompensato in un momento sciagurato, mentre il Paese annaspa in un mare di cassa integrazione e con tanti lavoratori ancora in attesa e proprio l’Inps ne dovrebbe saper qualcosa. E pure sulla giustificazione che il blitz sia stato fatto ad agosto perché l’istituto ha compiuto dei tagli significativi risulta piuttosto risibile poiché i revisori la pensano diversamente.

Il problema è che se tu riduci la politica a una mera questione di costi (ed è il giochetto che si è utilizzato durante la campagna del referendum) poi trovi sempre uno più puro che ti epura e ora sarebbe curioso cosa ne dice Di Maio (visto che era lui ministro quando partì la proposta). Quello stesso Di Maio che ora promette di “chiedere chiarimenti”.

Perché a forza di coltivare populismo poi di populismo si muore. Evidentemente.

Buon lunedì.

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Calderoli che odiano le donne

Secondo l’autore del Porcellum i candidati maschi sarebbero favoriti alle elezioni perché “si accoppiano” di più. Lo ha detto in Senato, ricevendo gli applausi di Salvini

«Qualcuno dice che questo è fatto per favorire la parità di accesso. Ve lo dice un umile e modesto conoscitore della materia elettorale: chi la conosce sa che in collegi che hanno a disposizione un numero di candidature che va da due a sette, quindi piuttosto piccolo, la doppia preferenza di genere danneggia il sesso femminile, perché normalmente il maschio è maggiormente infedele della femmina, per cui accanto a una candidatura maschile…». Così il senatore della Lega Roberto Calderoli intervenendo in Aula al Senato durante la discussione generale sul dl per la doppia preferenza in Puglia.

«Il maschio solitamente si accoppia con quattro o cinque rappresentanti del gentil sesso, cosa che la donna solitamente non fa – dice ancora – Il risultato è che il maschio si porta i voti di quattro o cinque signore e le signore non vengono elette».

Mentre il senatore Calderoli pronunciava queste bestialità di fianco a lui il senatore Matteo Salvini applaudiva. Sì, applaudiva.

Ciò che sconvolge è che ogni giorno, da qualche parte, arriva la prova inconfutabile che questi:

  • odiano le donne;
  • ritengono le donne altro rispetto al proprio esser maschi;
  • ritengono la politica una pratica da cacciatori e furbi e non da amministrazione della cosa pubblica;
  • ritengono gli uomini valorosi per le loro infedeltà mentre le donne le immaginano ovviamente silenti e punite;
  • sono talmente sfacciati che dicono le cose che dicono in una seduta del Parlamento, con tanto di verbale scritto;
  • si danno di gomito quando parlano di donne come se fossero nei peggiori bar.

Ma una domanda mi agita da sempre: ma le donne come fanno a votarli? Ma le donne della Lega non hanno niente da dire ai Calderoli che odiano le donne?

Ah, a proposito: prima tocca agli stranieri, poi agli omosessuali, poi alle donne. Piano piano, vedrete, toccherà prima o poi anche a voi. Perché loro sono patrioti di un’unica patria: se stessi.

Buon venerdì.

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Bisogna anche voler stare bene

Il buongiorno di oggi me l’ha mandato Letizia. Letizia è un’infermiera e, come spesso accade, si ritrova ad avere a che fare con la speranza e con la disperanza. Il suo racconto è uno spaccato di vita che fa bene al cuore. Il racconto è del tempo in cui il Covid mieteva centinaia di vittime al giorno ma questo brano non parla solo di Coronavirus: parla di un modo di intendere la vita.

G. è un uomo alto quasi 2 metri, 74 anni ma la malattia gliene ruba una decina. Il dolore nello sguardo implacabile. Da giovane è stato certamente molto affascinante.

Con parecchie infermiere è stato un po’ brusco nei gg. precedenti. Anche con me all’inizio.

Quando ha suonato il campanello ero da un altro paziente. La collega viene a riferirmi che vuole parlare proprio con me, l’infermiera riccia e bionda.

Mentre percorro il corridoio per andare verso la sua stanza ripenso al suo referto: cure solo palliative… metastasi ovunque…

Entro nella stanza.

Lui è seduto sul bordo del letto, le mani sulla ferita, rivolto verso la finestra a guardare fuori, verso le montagne. È solo in stanza, gli altri due letti sono vuoti.

Mi guarda e sorride appena.

Gli dico:

– Chiamo il medico per farle prescrivere qualche altro farmaco più efficace, sta soffrendo troppo.

– No, non lo faccia, infermiera. Davvero. Non chiami il medico, ho ancora un po’ di male ma non sto morendo di dolore. Resti un pochino qui a parlare con me la prego.

Sono le 3 di notte, chiacchieriamo per circa mezz’ora. Lui è tranquillo, accenna a un altro sorriso per il mio accento romano, piano piano mi dà del tu, come parlasse a sua figlia o a sua nipote. Prima di lasciarlo riposare gli chiedo:

– Come sta? Ha ancora dolore?

– No, sto meglio, grazie..

Si sistema nel letto, tira su le coperte..

– …sto meglio, grazie, ma ricordati che bisogna anche voler stare bene. Bisogna anche volerlo…Ripete con un lieve sorriso.

Alle 7,40 stacco, vado a casa. Potrei dormire finalmente. Ma non voglio e non posso. Penso e ripenso. Penso a quanta vita in quella chiacchierata…

Sì, perché quando la vita ci sfugge viviamo avidamente ogni minuto e ogni secondo che passa. Ne percepiamo l’importanza. E quando hai questa consapevolezza, spesso, è troppo tardi.

Bisogna anche voler stare bene.

Questo è accaduto circa un anno fa, lo scrissi di getto e oggi lo condivido. Oggi mi sono tornate in mente le sue parole: “bisogna anche voler stare bene”. Oggi G. non è più con noi.

Ma quanti “G” ci sono ancora in ospedale? Tanti. Tantissimi, con le stesse paure e gli stessi bisogni, con quel senso di stanchezza indefinita, verso tutto e tutti.

Non dobbiamo dimenticare che alle solite paure, probabilmente se ne sarà aggiunta un’altra. Quella che i loro riferimenti in ospedale pensino solo al Coronavirus e che siano troppo impegnati dalla situazione di emergenza, per comprendere anche la loro paura di morire… che per alcuni è una certezza, inesorabile, anche se “vogliono stare bene”…

Non sono spariti questi pazienti. Ci sono, c’erano prima e ci saranno ancora in futuro. Dobbiamo continuare a comprendere anche la loro paura, adesso raddoppiata, triplicata..

Per questo dico che voglio far trapelare il mio sorriso da dietro la mascherina. Anche quando ho paura. Voglio che si vedano le rughe ai lati degli occhi e che questi siano più sottili, come quando sorridi, appunto. Voglio imparare a sorridere solo con gli occhi. Adesso e ancora nei prossimi gg., perché sarà lunga e sarà ancora più difficile di oggi, per noi Infermieri, Medici, Oss e per tutti. E anche quando tra un annetto dovremo ricucire ogni ferita, tangibile o meno. Adesso non dobbiamo mollare e non molleremo.

#Celafaremo per molte persone è quasi fastidioso da sentire, con il bollettino dei morti che incombe ogni giorno. Per noi #Infermieri, invece, è un mantra che ci sostiene gli uni gli altri, che ci fa resistere, ci dà la forza per cercare di superare con una angoscia calibrata questo momento difficile per tutti. Il senso non è sminuire il problema, ma rafforzare la soluzione, con “boccate di ottimismo”. Anche per questo, spesso, scherziamo tra di noi nei momenti di pausa e di solitudine forzata.

Quando ne usciremo non sarà perché siamo eroi, siamo forti, siamo bravi, siamo angeli… Niente di tutto questo. #Celafaremo perché, uniti, ognuno avrà fatto la sua parte: chi al lavoro, per il bene di tutti, chi restando a casa, per il bene di tutti.

“Bisogna anche voler stare bene.”

E impareremo a sorridere solo con gli occhi.

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La parità degenere

In Puglia l’ostruzionismo di Fratelli d’Italia ha impedito che la doppia preferenza di genere fosse inserita nella legge elettorale, come previsto da una norma nazionale del 2016. Così il governo ha dovuto metterci una pezza

Che gran brutta figura che ha rimediato il Consiglio regionale della Puglia. La notizia è passata sottobraccio eppure è una notizia di portata storica perché vede il governo, con il presidente Conte, intervenire per decreto lì dove i consiglieri regionali sono riusciti a dare il peggio di se stessi.

Partiamo dall’inizio: il Consiglio regionale pugliese nell’ultima occasione utile non riesce a introdurre la doppia preferenze di genere così come stabilito dalla legge nazionale, la n.20 del 2016, riuscendo addirittura a farsi bloccare da qualche migliaio di emendamenti da parte di Fratelli d’Italia, quelli della famiglia tradizionale che evidentemente le donne le vorrebbero vedere solo a casa a stirare e accudire i bambini. Che una Regione non riesca a mettersi in regola, dopo oltre quattro anni, con una legge così importante e non riesca a garantire la parità di genere e soprattutto per fare qualcosa di concreto per la partecipazione politica delle donne è la fotografia di un Paese in cui l’autopreservazione (degli uomini) è e rimane uno degli ostacoli principali.

Il governo ha provato a richiamare i consiglieri regionali alle loro responsabilità ma l’invito è caduto nel vuoto: la brama di qualche maschietto di non perdere il posto alle prossime elezioni evidentemente ha contato di più di principi che vengono annunciati e poi mai messi in pratica. Così alla fine è dovuto intervenire il presidente Conte con una mossa che ha qualcosa di storico: il governo ha nominato il prefetto di Bari Antonia Bellomo commissario straordinario con la funzione di provvedere «agli adempimenti strettamente conseguenti per l’attuazione del decreto sulla doppia preferenza di genere nelle Regionali in Puglia». Poche ore dopo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il decreto legge.

Ha ragione la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bonetti quando scrive: «Affermiamo così che la parità di genere è un principio da tutelare in tutto il Paese, in maniera uniforme, perché in maniera uniforme va tutelato il diritto alle pari opportunità. Avevo anticipato negli scorsi giorni la volontà di utilizzare questo strumento inusuale, sperando tuttavia che le istituzioni pugliesi si adeguassero autonomamente. Non avendolo fatto, non abbiamo avuto altra scelta che questa per garantire i diritti e la legalità. Ho chiesto e insistito per un commissario straordinario che sia garante della piena applicazione del decreto e lo abbiamo individuato nella persona del Prefetto di Bari».

È un gesto enorme. E giusto. E dimostra invece la parità degenere della politica quando si occupa solo di sopravvivere.

Ben fatto.

Buon lunedì.

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La morale è sempre doppia quando non c’è

Scusatemi se mi butto nel fango. La lotta tra le ghiande, ruzzolando in mezzo ai maiali, è antipatica e stomachevole però vi giuro che no, non riesco a starne fuori. Andiamo con ordine: nella notte tra il 18 e il 19 ottobre a Roma è stata ammazzata Desirée Mariottini, una ragazzina di sedici anni il cui cadavere è stato ritrovato in uno stabile abbandonato e occupato in via Lucani, quartiere San Lorenzo. Il caso vuole che i fermati come sospettati per l’omicidio siano stranieri. E negri. E ancora una volta apriti cielo. Ronde, ruspe, quel becero avvoltoio del ministro dell’inferno subito pronto a pisciare sul palazzo per marcare il territorio e già delle belle ronde da dare in pasto ai giornali.

Sia chiaro. Da queste parti, di chi scrive, una giovane donna uccisa, per di più dopo una probabile violenza, è un dolore schifoso e inaccettabile. È necrofilia anche lucrare sui morti, paragonarli, ma per sbugiardare i vermi bisogna entrare nel verminaio. Eccoci.

Tra la morte di Pamela (usata ovunque per spargere odio fecale) e la morte di Desirée sono passati dieci mesi. Dieci mesi. Solo nei primi sei mesi di quest’anno sono state uccise altre quarantaquattro donne. Quarantaquattro.  Nel 2017 sono state uccise 113 donne. Centotredici. Due di loro erano al quinto e al sesto mese di gravidanza. Ad uccidere sono stati, nella quasi totalità dei casi, mariti, compagni o ex, incapaci di accettare la fine della relazione o la volontà della partner di volersi ricostruire una vita al di fuori della coppia. Niente negri, niente drogati. Bianchissimi e merdosissimi mariti. Vi ricordate qualche nome delle altre donne oltre a Pamela e Desirée? Uno, anche solo uno. Niente, vero? Vi sembra normale? No, non è normale.

Poi: Desirée era stata denunciata per spaccio. Il padre la picchiava, dicono le sue amiche, ed è stato denunciato per stalking. Dopo la separazione dei genitori era stata affidata ai nonni. Bene, ora pensate a come è stato dipinto Stefano Cucchi e come tutt’oggi i suoi famigliari siano ricoperti di fango: perché Cucchi è un drogato rovinato dalla famiglia e invece Desirée è una povera stella massacrata dallo straniero?

La risposta è semplice: in modo orribile in questo Paese ci sono deplorevoli personaggi (capeggiati dal ministro dell’inferno) che grufolano nella spazzatura per trovare morti che tornino utili alle loro tesi. Un esercito di topi con sembianze umane che invocano la sedia elettrica per i negri e citano invece il raptus amoroso se sono bianchi e italiani. Ed è uno schifo indicibile. Una necrofilia cromatica di stercorari che cercano discariche per spargere odio razzista. Feccia. E sullo sfondo il dolore dei morti che vengono sventolati come souvenir.

Chi non ha una morale finge sempre di averla doppia. Ma è niente. Niente mischiato con niente. Niente al quadrato. Sempre zero.

Buon venerdì.

 

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/10/26/la-morale-e-sempre-doppia-quando-non-ce/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Dalla “legge che tutti avrebbero dovuto copiare” a quella copiata male (apposta)

Ci avevano promesso di far tornare “il voto ai cittadini”. Destri, sinistri, cinquestelle, tutti d’accordo. Dopo avere scritto una legge incostituzionale (olè) hanno capito che il segreto stava semplicemente nel trovare un nome che sembrasse affidabile. Devono avere pensato a “Mercedes” o “Bmw” ma poi per problemi di marchio registrato si sono accontentati di “tedesco”.

Hanno scritto una legge elettorale che ci viene proposto come modello di rappresentatività e governabilità e invece non lo è. Rubo la spiegazione che mi ha dato, in una ricca conversazione ieri sera, il professore Andrea Pertici:

Saranno i partiti a scegliere gli eletti. Tutti i seggi sono attribuiti con sistema proporzionale sulla base sostanzialmente di una doppia lista bloccata: quella della circoscrizione (che al Senato è la Regione) e quella data dall’insieme dei candidati nei collegi uninominali della stessa circoscrizione (al Senato, Regione). Collegi uninominali dove non vince il candidato più votato ma semmai quello del partito più votato. E per non rischiare proprio nulla comunque il primo che passerà è il capolista del partito nella circoscrizione, dopo il quale si pescheranno i candidati nei collegi arrivati primi, poi gli altri candidati di lista e infine gli altri candidati dei collegi uninominali che hanno perso. Insomma, quello che conta è il partito. Quello che conta assai meno il nostro voto. Si parte da un modello europeo (questa volta il tedesco, si diceva) ma si finisce sempre con un sistema molto italico.

In pratica io voto il candidato che stimo nel mio collegio ma il mio voto premia prima il capolista bloccato.

 

(continua su Left)