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Arcuri si risveglia dal sonno e lancia una proposta vecchia di mesi…

Fermi tutti, si è svegliato Domenico Arcuri. Il commissario straordinario all’emergenza da Covid-19, quello che ha scambiato il suo ruolo – più di una volta – con quello del moralizzatore spalleggiato dal Governo, ieri ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera, per darci una lunga lezione sulla pandemia e sugli strumenti per riuscire a contenerla. Peccato che siano tutte cose che sui media circolano da mesi e peccato che proprio Arcuri sia la persona incaricata di dovere fare funzionare le cose, mica di continuare a spiegarcele. Così ci ritroviamo a leggere il commissario che dice «il senso di ciò che abbiamo imparato è rintracciare il virus sempre prima, curare le persone a casa sempre di più. I medici di base devono poter fare i test nelle case e curare lì il più possibile i malati, visto che ormai i protocolli sono standardizzati».

Potrebbe sembrare un’intervista valida per maggio-giugno, quando ancora ci si illudeva di poter veramente rispettare le 3 T (tracciamento, tamponi e trattamento) invece Arcuri sembra non essersi accorto di quello che sta accadendo con i tracciamenti, che sono ormai praticamente saltati in tutti Italia. Gli addetti al tracciamento non sono stati assunti e il sistema che si è praticamente sbriciolato. Qualcuno potrebbe fare leggere ad Arcuri le parole del suo collega, lì dalle parti del Governo, Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute che ha dichiarato senza mezzi termini che «un’epidemia si combatte con i comportamenti delle persone e con il tracciamento, ma quando vai oltre 10.000-11.000 casi e non riesci più a tracciare». Ma lui, Arcuri il censore, ci tiene a precisare che «facciamo ormai stabilmente oltre 100 mila tamponi molecolari al giorno e ci stiamo attrezzando per chiudere il gap fra domanda e offerta. Daremo alle Regioni molto presto la possibilità di arrivare a 200 mila. Stiamo chiudendo l’offerta pubblica per i test rapidi antigenici e ne compreremo 10 milioni, non più 5».

E sapete quando dovrebbe essere operativo il nuovo straordinario piano dello straordinario commissario? Tra due mesi. Due mesi: esattamente il picco nero che i numeri sembrano indicare come situazione grave in cui rischiamo di sprofondare. In sostanza ancora una volta ci ritroviamo a rincorrere il virus riuscendo semplicemente a mettere una pezza al futuro prossimo. Intanto in Italia abbiamo una capacità di tracciare fino a 2 mila casi al giorno, quando ormai abbiamo abbondantemente sfondato i 10 mila. Non riuscire a reggere l’impatto però non sembra preoccupare il commissario straordinario, che anzi ne approfitta anche per scrollarsi di dosso qualsiasi responsabilità sulla straripante condizione dei mezzi pubblici che portano gli studenti a scuola: «A me – risponde il commissario al Corriere della Sera – è stato chiesto di aiutare a riaprire le scuole in sicurezza». Stiamo a posto così.

E chissà se ad Arcuri non siano fischiate le orecchie per le dichiarazione di Andrea Crisanti, il virologo celebrato da tutti per come ha gestito la situazione in Veneto a inizio epidemia e poi lasciato ai margini, che dice senza mezze misure: «Se invece di buttare soldi per acquistare i banchi a rotelle avessimo investito sul tracciamento e sulla capacità di eseguire i tamponi, oggi saremmo in una situazione differente. Non possiamo andare avanti altri sei mesi solo con le chiusure».

A proposito di Crisanti. Il Governo mesi fa gli chiese un piano per organizzare il sistema di tracciamento. Si chiamava Network Testing e si basava sul fatto che ogni cittadino vive in una rete tridimensionale di relazione i cui piani sono: la scuola, il lavoro, i vicini di casa, gli amici e i parenti con interazioni sia orizzontali che verticali. Lo scopo era di testare tutte le persone che fanno parte di questo spazio di relazioni ogni volta che si identifica una persona contagiata per scoprire colui che ha trasmesso l’infezione e chi ne è stato contagiato bloccando la catena di trasmissione. È esattamente il sistema che ha permesso a Taiwan, Singapore, Cina e Corea del Sud di registrare successi enormi contro il virus. Il piano è stato messo in un cassetto e il Governo se n’è dimenticato.

Fino a ieri, quando Arcuri s’è ridestato dal sonno e ha lanciato una proposta pressoché identica. Solo che nel frattempo è successo di tutto. Il virus è stato dimenticato nella pausa estiva e poi è tornato prepotentemente per ricordarci tutti i mesi persi. Così mentre Arcuri rilancia sui tamponi (e Federlab Italia gli risponde sottolineando «le strutture pubbliche travolte da una totale disorganizzazione» e gli «enormi problemi non solo nel processare i campioni, ma anche nella fase stessa di accettazione e di refertazione») noi ci ritroviamo invece a doversi inventare qualcosa per rallentare la curva dei contagi. Sempre fuori tempo, sempre senza programmazione.

L’articolo Arcuri si risveglia dal sonno e lancia una proposta vecchia di mesi… proviene da Il Riformista.

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Le sta sbagliando tutte

Matteo Salvini non fa proposte concrete e dimostra di non avere una strategia sull’emergenza pandemia. E continua a inanellare una serie incredibile di figuracce

Ieri nel Consiglio regionale lombardo, settima commissione ore 10/10.30 volano stracci in casa Lega: Massimiliano Bastoni insulta Salvini ma non si accorge di avere il microfono accesso. Il presidente di commissione Terzani lo rimprovera insieme a Paola Romeo (Forza Italia). Una scena meravigliosa ma indicativa. Eccolo qui:

Il piccolo incidente però è indicativo. Matteo Salvini le sta sbagliando tutte e sono in molti ormai nella Lega che glielo stanno facendo notare. Una premessa: governare un Paese in tempi di pandemia, con tutte le decisioni difficili da prendere, costa moltissimo in termini di consensi. Accade negli Usa con Trump, accade in Francia con Macron, accade in Brasile. Indici di gradimento che sono in continua discesa e le opposizioni che risalgono prepotentemente. È il gioco della politica da sempre: governare costa in termini di consenso e farlo in un periodo di incertezza e di crisi sanitaria ancora molto di più.

Lui no. Lui, Matteo Salvini, è riuscito a passare dal 37% dell’agosto 2019 al 24,3% dell’ultimo sondaggio e continua a inanellare una serie incredibile di figuracce. Ieri mattina è corso dal suo presidente della Lombardia Fontana perché diceva non condivideva il lockdown notturno pensato dal presidente della Lombardia. Ha anche sparato la solita tiritera sulla libertà: «le limitazioni delle libertà personali mi piacciono poco e devono essere l’ultima spiaggia», ha detto prima di entrare nel palazzo della Regione. Ne è uscito scornato. Fontana è rimasto sulla sua posizione e pace per il leader leghista.

Badate bene: Salvini è lo stesso che 15 giorni fa diceva che non ci fosse nessun bisogno di prolungare lo stato di emergenza. Anche in quel caso aveva parlato di scelta politica non suffragata da dati sanitari: in 15 giorni è stato seppellito dalla realtà.

Del resto è lo stesso  che questa estate ha rilanciato più volte l’ipotesi del professore Zangrillo che dichiarava il virus “clinicamente morto”. Com’è andata a finire lo sappiamo bene: perfino Zangrillo ha dovuto tornare sui suoi passi. Salvini ovviamente ha fatto finta di niente, come al solito. A fine luglio Salvini aveva partecipato al convegno dei negazionisti, proprio con Zangrillo e Sgarbi. Riascoltare oggi quello che dicevano in quei giorni fa venire la pelle d’oca.

E ve lo ricordate a febbraio, quando fece quel video in cui disse “riaprire, riaprire tutto, tornare alla libertà”, pochi giorni dopo il paziente uno di Codogno? Ecco, poi ci sono stati i morti e le bare di Bergamo. Ha fatto sparire il video dai suoi social ma poi ci era ricascato ancora. Senza contare tutte le volte che si è esibito fiero senza mascherina, fino a che perfino i suoi supporter lo hanno duramente criticato ed è stato costretto a cambiare rotta.

Due giorni fa si è lamentato perché il presidente del consiglio Conte aveva telefonato alla coppia Fedez e Ferragni per chiedere di sensibilizzare i giovani sull’uso della mascherina e lui, pensando di fare una bella figura, ha detto ai giornali «a me ha fatto solo una chiamata di 40 secondi negli ultimi mesi». Ora, pensateci un secondo: quale sarebbe la strategia di Salvini? Non c’è. Proposte concrete non ce ne sono.

Certo perdere consensi di questi tempi è un capolavoro di inettitudine e tra i suoi (Zaia in testa) sono in molti a dirlo sottovoce. Almeno c’è di buono che non ce lo siamo ritrovati come ministro. Almeno questo.

Buon giovedì.

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E alla fine il Re tornò a Palazzo: Salvini commissaria Fontana: “No al coprifuoco in Lombardia”

Aveva la penna in mano pronto per firmare ma la telefonata del suo capo l’ha rimandato a cuccia. Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, pronto a firmare il decreto che avrebbe previsto il divieto durante le ore notturne di spostamenti non autorizzati e che avrebbe segnato la stretta sui grandi centri commerciali nei weekend, è stato stoppato da Matteo Salvini, probabilmente spaventato dai logaritmi della sua propaganda che ciancia a vanvera di libertà da mesi nella sua quotidiana lotta contro il governo, che si traduce in una contestazione continua, senza capire bene quali siano le sue proposte.

E quindi? Quindi abbiamo una Regione appesa a Salvini, che “vuole capire” e che, in visita papale, decide di citofonare direttamente alla sede della Regione per farsi dare ripetizioni di pandemia. E fa niente che intanto i numeri salgano e che gli ospedali si riempiano. Deve capire, lui.

Eppure nella frase con cui Salvini annuncia lo stop c’è dentro tutta l’irresponsabilità che si coglie in questi mesi del virus. Ha detto, testualmente, il leader della Lega: “Il Governo respinge tutte le nostre richieste e a noi tocca portare la croce, imponendo misure impopolari che fanno infuriare i cittadini?”. Tradotto significa: perché dovremo prendere noi le misure impopolari a difesa della salute quando potremmo rimbalzarle al governo?

E dentro c’è tutta la strategia di chi antepone il consenso alla responsabilità della salute pubblica e c’è tutto il succo della politica salviniana che continua a essere semplicemente un sondaggio perpetuo che tende a inseguire le sensazioni istantanee dei suoi sostenitori per riuscire a sfamarle. Badate bene: un capo di partito, senza rendersi conto, lamenta “l’impopolarità” delle misure senza nemmeno fare un cenno alla salute pubblica. Non basta come prova evidente?

Poi, volendo, c’è anche tutta la retorica dell’autonomia lombarda sventolata proprio dal presidente Fontana. Quello stesso Fontana che per mesi si è messo di traverso con il governo Conte per speculare un po’ sulla pandemia, proprio nei mesi peggiori, e che ci ha sempre detto che la sua regione non ha bisogno di prendere ordini da nessuno. Ecco, quello lì stamattina si è messo buono buono nel suo ufficio a farsi sgridare dal suo capo per decidere come aggiustare decisioni già prese in nome di qualche like in più sulla pagina Facebook del Capitano.

Davvero, presidente Fontana, ci vuole dare lezioni di autonomia dopo una mattinata del genere? Davvero i pareri e gli studi di tutti i suoi esperti rimangono incagliati sulla riunione di partito? Dai, facciamo i seri, su.

Leggi anche: 1. Salvini stoppa Fontana e fa slittare il coprifuoco in Lombardia: “Prima voglio capire” / 2. Milano, il direttore dell’Ats: “I tamponi non ci salveranno, bisogna stare a casa e tagliare attività non essenziali”

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E ancora sparisce la politica

Il governo che tenta di arginare il Covid con l’occhio fisso sul consenso. L’opposizione che si dice contro le chiusure e poi chiede “severità contro il virus”. Così la politica si sottrae alle proprie responsabilità

Torna il virus e sparisce la politica. I dati continuano a non essere buoni e il dibattito rimane sempre bassissimo come si conviene a un Paese che ha scambiato la propaganda come unico lievito della discussione pubblica. Fateci caso.

Da una parte c’è un governo preoccupato dal consenso. Giuseppe Conte sa benissimo che gli italiani, dopo l’esperienza di mesi fa, non crederanno più di essere i colpevoli di un nuovo eventuale disastro. Ci sarebbe da discutere di modifiche strutturali del sistema sanitario, ci sarebbe da discutere di dove prendere i soldi che mancano per rimettere in piedi un Paese che deve convivere con il virus e ancora siamo alle prediche in cui si consigliano le buone maniere contro il Covid. L’abbiamo capito che indossare la mascherina è utile ma abbiamo anche capito che non basta. Abbiamo capito che il distanziamento è utile ma abbiamo anche capito che non basta. Abbiamo capito che lavarsi le mani è utile ma non basta. E onestamente abbiamo anche capito che il Covid non lo spargevano i runners e i passeggiatori con cani prima e non sta solo nei bicchieri dell’aperitivo di oggi. Inseguire il virus e i sondaggi con l’occhio sempre fisso sul consenso non funziona, lo dimostrano gli indici di gradimento a picco dei governatori sceriffi che ora brancolano nel buio.

Dall’opposizione poi arrivano segnali ancora più sconfortanti: sono contro le chiusure ma chiedono “severità contro il virus” e poiché l’unico modo per fermare la curva è ridurre le frequentazioni sociali sarebbe curioso sapere esattamente da Salvini, Meloni e compagnia cantante cosa farebbero loro. Essere contro a qualsiasi decisione è una posizione comoda e facile, non è politica. Salvini è talmente contro a tutto che ieri probabilmente si è incagliato ed è riuscito a sbraitare anche contro la Lombardia, poi qualcuno deve avergli dato un colpo di gomito e l’ha fatto rinsavire. Parlare di “libertà” senza prendersi la responsabilità di spiegare anche come avere la libertà di non ammalarci è retorica, non è politica.

A febbraio giustamente ci dicevano di essere impreparati e tutti sono stati presi alla sprovvista. Oggi la politica (tutta) dovrebbe dirci: ecco come abbiamo intenzione di abbassare la curva dei contagi, ecco quanti sono i posti letto disponibili e quanti saranno disponibili a breve, ecco in che tempi agiremo per assumere anestesisti e infermieri, ecco come scaglioneremo per alleggerire i trasporti (visto che ormai il loro potenziamento è andato in fumo), ecco come proveremo a ripristinare un tracciamento decente, ecco dove troveremo i soldi per farlo. Il paternalismo non funziona più e non funziona più l’opposizione facile.

Programmi fattibili per tenere in piedi questo Paese in questo delicato momento: questa è politica. E sembra che la stiano facendo più i virologi dei politici.

Buon mercoledì.

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I numeri parlano

Contagi, tasso di positività, terapie intensive. Leggere i numeri è un esercizio utile per rendersi conto del punto in cui siamo

“Aumentano i positivi perché aumentano i tamponi”, dicono. Semplice così. Dopo mesi di pandemia ancora esistono quelli che contano il totale dei contagi e ci vorrebbero convincere che la situazione vada letta sul bollettino quotidiano. Se i contagi crescono ci si preoccupa, se i contagi calano ci si calma. Nemmeno il coronavirus ha insegnato l’arte della complessità, nemmeno tutti questi mesi, nemmeno tutti questi morti.

Però i numeri parlano, nella loro sostanziale inamovibilità e leggere i numeri è un esercizio utile. Sia chiaro: non si tratta di creare allarme ma si tratta almeno di rendersi conto del punto in cui siamo.

E il punto in cui siamo è sostanzialmente questo: il tasso di positività sulle persone testate (quindi quelle sottoposte a tampone per verificare la presenza del virus) 4 settimane fa era del 3,4%, 3 settimane fa era del 4,6%, 2 settimane fa era del 6,2%, settimana scorsa era del 7,7% e ieri del 14,2%. Qualcuno potrebbe dire: “mirano meglio”. Sul numero di tamponi processati totali ieri l’Italia ha superato la Francia con un tasso del 9,4%. Il giorno precedente era del 7,9%, prima ancora del 6,6%. Il tasso di positività è in crescita marcata da 10 giorni.

Sempre rimanendo sui numeri: la crescita dei posti occupati in terapia intensiva (a proposito di chi dice “sono tutti asintomatici”) negli ultimi giorni è stata esponenziale. Negli ultimi 12 giorni segue la formula x=(1,075^t)*358. In sostanza secondo la curva ci dice che le terapie intensive raddoppiano ogni 9,6 giorni.

Poi ci sono i fatti: i tracciamenti ormai sono sostanzialmente persi. Ieri l’Ats di Milano, solo per fare un esempio, per bocca del suo direttore sanitario Vittorio De Micheli ha dichiarato: «Non riusciamo a tracciare tutti i contagi, a mettere noi attivamente in isolamento le persone. Chi sospetta di aver avuto un contatto a rischio o sintomi stia a casa». Siamo a questo punto, ancora. Ieri Walter Ricciardi, ordinario di Igiene all’Università Cattolica del sacro Cuore di Roma e consulente del ministro della Salute ha detto «un’epidemia si combatte con i comportamenti delle persone e con il tracciamento, ma quando vai oltre 10.000-11.000 casi e non riesci più a tracciare». Crisanti lo spiega bene: «È saltato completamente il sistema di tracciamento. Le misure di contenimento sono inutili senza un piano organico per dotare l’Italia di un sistema che mantenga basso il numero dei contagi. È la vera sfida. Se invece di buttare soldi per acquistare i banchi a rotelle avessimo investito sul tracciamento e sulla capacità di eseguire i tamponi, oggi saremmo in una situazione differente. Non possiamo andare avanti altri sei mesi solo con le chiusure. Quest’estate – ricorda – eravamo arrivati a 300 contagi al giorno, avremmo dovuto porci il problema e organizzarci per evitare che quel dato tornasse a salire mettendo in campo un reale ed efficace sistema di tracciamento e tamponi. Invece non abbiamo fatto nulla.»

Stiamo discutendo dell’ultimo Dpcm quando è già superato dai fatti. E la sensazione, ascoltando anche dalle parti del governo dove con questa situazione ancora si discute di “movida”, è che la situazione attuale abbia bruciato tutti i mesi di vantaggio accumulati. E che non ci sia nemmeno il coraggio di dirlo chiaramente.

Buon martedì.

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Spiegateci perché gli esperti che minimizzavano il virus ora imperversano in tv (di Giulio Cavalli)

Spiegateci perché gli esperti del virus “clinicamente morto” imperversano in tv

Il virus non è morto, anzi, purtroppo per noi è in ottima salute: sfondati i 10mila positivi con 150mila tamponi, 55 deceduti, 4.343 ricoverati in più di cui 52 in terapia intensiva. Stanno benissimo però anche quelli che nei mesi scorsi vedevano psicotici e allarmisti dappertutto, quelli che ci avvisavano che ormai era tutto alle spalle e che addirittura si innervosivano se qualcuno provava a chiedere un po’ di precauzione in vista dell’autunno. Fu Alberto Zangrillo, primario del San Raffaele, che lo scorso 31 maggio ci annunciò nel corso del programma Mezz’ora in più che “il virus clinicamente non esiste più”.

Zangrillo poi provò a correggere il tiro, certo, ma rimane lo studio del San Raffaele di Milano che parlava (a maggio) di “pochi pazienti e tutti con sintomi lievi” dovuti al fatto che il virus aveva perso la propria capacità replicativa e che risultava essere “enormemente” indebolita rispetto a quella registrata a marzo. “Ha ragione il mio amico Alberto Zangrillo: clinicamente il Covid-19 non c’è più, è morto, ho più degenti con infezioni batteriche”, disse Paolo Navalesi, direttore dell’Istituto di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda ospedaliera di Padova e della Scuola di specialità, che si espresse anche sul futuro: “In base all’esperienza maturata in questi tre mesi, posso dire che se siamo riusciti ad affrontare in pochi giorni un’emergenza completamente sconosciuta, oggi saremmo in grado di rispondere nel giro di qualche ora, perciò mi sento tranquillo”.

“Chi parla di seconda ondata fa terrorismo”, disse ad agosto Matteo Bassetti, direttore della Clinica malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, che parlò addirittura di una “psicosi per una malattia ormai sotto controllo“. Sempre Bassetti lo scorso 9 settembre ci assicurava anche che in Campania non c’era “nessuna seconda ondata” ma semplicemente una “coda, peraltro prevedibile”. Eh, già. “Non ci sarà la seconda ondata” diceva anche Giorgio Palù, professore emerito di microbiologia e virologia dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia.

“Non ci sarà una seconda ondata, l’autunno sarà come adesso, il virus si sta adattando all’uomo, magari farà un ping pong con il pipistrello, cioè ce lo ripasseremo tra specie, ma non se ne andrà fino al vaccino”, disse il 6 agosto Massimo Clementi, professore ordinario di virologia al San Raffaele. E ora? Ora quegli stessi “esperti” che hanno minimizzato e hanno addirittura deriso chi temeva l’autunno tornano a essere considerati “affidabili” e a imperversare nei media. Ma siamo sicuri che non sia il caso di chiedere conto delle dichiarazioni che sono state rilasciate? Almeno un accenno di spiegazioni, basterebbe anche solo un “sì, scusate, mi sono sbagliato”. No? Ora teneteli bene a mente perché saranno quelli che cominceranno a strepitare contro il governo per le mancate misure. Scommettiamo?

Leggi anche: 1. Allarme terapie intensive: ecco la situazione regione per regione. Se i casi aumentano non siamo pronti / 2. “Ora fermiamoci 3 settimane”: parla Crisanti / 3. E alla fine lo hanno fatto: gli sceriffi governatori scavalcano il governo e chiudono le scuole (per colpa loro) – di Luca Telese / 4. Negazionisti contro empiristi: la guerra tra i virologi che decide se siamo liberi o no

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Il Covid blocca anche le adozioni: 500 bambini non possono andare dalle loro nuove famiglie

L’epidemia porta con sé storie nascoste nelle pieghe che bisogna andare a cercare e che nascondono difficoltà che rimangono sotto traccia. In Italia in questo momento ci sono 500 famiglie che attendono il proprio figlio. Sono famiglie che dopo un lungo percorso sono riuscite ad accedere all’adozione internazionale e che nonostante abbiano già ottenuto l’abbinamento, un percorso sfiancante dal punto di vista burocratico e affettivo, non riescono ad abbracciare i propri figli a causa dei blocchi tra Paesi.

La psicologa e psicoterapeuta Maria Rita Parsi, con un intervento sul settimanale Oggi scrive chiaramente cheper quei bambini attendere ancora significa nuovamente sperimentare un rifiuto che inconsciamente conoscono e consciamente li opprime”. Hanno conosciuto i genitori – spiega la Parsi – scambiando abbracci e pronunciando parole in lingue diverse, nel nome di un nascente amore, di una nascente, reciproca fiducia e speranza di diventare famiglia. Quei bambini sono stati fin dalla nascita segnati da distacchi e da traumatiche esperienze che li hanno separati dalle madri che li hanno messi al mondo. Hanno vissuto in istituti con altri bambini o in famiglie di accoglienza”.

Il presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini Marco Griffini racconta che l’ex vicepresidente della Commissione per le Adozioni Internazionali aveva parlato di “corsie preferenziali” per superare il blocco causato dell’epidemia: serve un accordo urgente con i Paesi di provenienza, di concerto con tutti i Paesi europei per riuscire a sbloccare la situazione. “Questo è un problema urgente che non riguarda solo i 500 bambini italiani già abbinati, che, bisogna ricordarlo, sono già dei potenziali cittadini italiani”, ha aggiunto Griffini.

“C’è un numero spropositato di bambini orfani a causa del Coronavirus e quindi vanno studiate e applicate assolutamente delle nuove modalità di gestione delladozione internazionale”. E la memoria va a quando il Governo si attivò, era il 2014 con la ministra Boschi, per sbloccare la situazione di 31 bambini in Congo. Un padre sulla pagina Facebook “Un bimbo mi aspetta” scrive: “Continuo a essere convinto di questa scelta, ma ora mi faccio delle domande, perché il tempo per far ripartire le cose c’è stato. Mi rendo conto che un genitore adottivo non muove il mercato di un campionato di calcio. Mi rendo conto che cerano altre priorità (ci sono sempre altre priorità quando si parla di adozione). Ma abbiamo trovato il tempo di andare in vacanza, riaprire i campionati di calcio, spostare turisti e merci. Siamo riusciti a mettere in piedi un turno elettorale. E non siamo riusciti a unire duecento famiglie. Ogni tanto si spera che l’adozione possa essere “veloce” come un abbandono. Anche in tempi di Covid.

Leggi anche: 1. Coronavirus, Conte: “Situazione preoccupa, rispettare le regole. Lockdown a Natale? Non do previsioni, mi occupo di prevenire” / 2. “Dopo i casi di oggi è davvero possibile un nuovo lockdown delle città italiane”: parla Pregliasco / 3. C’è l’emergenza Covid, ma all’Umberto I di Roma i pazienti sono stipati in sala d’attesa. Motivo? Il set di Mission Impossible con Tom Cruise

4. “La gente non ci vuole mai credere fino a quando deve per forza toccare con mano che il virus non è mai stato meno letale”. Parla Cartabellotta del Gimbe / 5. Nonostante il Covid abbiamo realizzato solo metà delle terapie intensive e usato un terzo dei fondi per posti letto e tamponi / 6. Tutti i numeri su Immuni tra le omissioni delle Asl e la paura dei contagiati

7. Giallo, arancione, rosso: i 3 scenari del Cts per le chiusure se salgono i contagi / 8. Covid, il ministro Speranza: “Il 75% dei contagi da parenti e amici: stop a tutte le feste” / 9. L’epidemiologo Le Foche: “I contagiati hanno carica virale bassa, epidemia domabile in primavera”

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Scoppia il bubbone del trasporto pubblico. Ma potevamo pensarci prima

Eccolo finalmente il dibattito che si è aperto dopo mesi di muro contro muro. Dopo settimane passate a scorgere dappertutto le testimonianze fotografiche allarmate della situazione nelle fermate dei trasporti pubblici locali e all’interno dei convogli, quegli stessi che trasportano le persone che, sai com’è, devono spostarsi per vivere, lavorare, mangiare, studiare ora scoppia il bubbone del trasporto pubblico.

L’allarme, corroborato dai numeri, lo lancia l’Asstra, associazione delle società di trasporto pubblico, che mette nero su bianco il “rischio di fenomeni di assembramento alle fermate e alle stazioni”. Ma va? Eccoci, quindi: mentre il Comitato Tecnico Scientifico pensa di ridurre al 50% la capienza dei mezzi pubblici rispetto all’80% attualmente consentito (e quasi mai rispettato, perché poi ci sarebbe da discutere anche dei controlli che mancano) Asstra comunica che in quel caso “risulterebbe difficile per gli operatori del Tpl continuare a conciliare il rispetto dei protocolli anti Covid-19 e garantire allo stesso tempo il diritto alla mobilità per diverse centinaia di migliaia di utenti ogni giorno, con il conseguente rischio di fenomeni di assembramento alle fermate e alle stazioni”.

I numeri sono chiari: “si rischierebbe – scrive Asstra – di non poter soddisfare da oltre 91mila (ipotesi capienza massima consentita al 75%) a circa 550mila spostamenti ogni giorno (scenario al 50%), arrecando un notevole disservizio quotidiano all’utenza. Andando nello specifico, ipotizzando una riduzione al 50% della capienza massima, si impedirebbe a circa 275mila persone al giorno di beneficiare del servizio di trasporto sia per motivi di studio che di lavoro”.

275mila persone che resterebbero a piedi. L’opzione rimane sempre la stessa: togliere utenza come soluzione più semplice e economica piuttosto che investire in capienza. E a nessuno è venuto in mente che il rafforzamento del trasporto pubblico fosse una delle priorità da mettere in agenda il prima possibile, ben prima della pluriprevista seconda ondata che tutti sapevano che sarebbe arrivata.

Eppure in questi mesi sono state molte le proposte per ripensare in tempo la mobilità (quella di BikeItalia, solo per fare un esempio) e di tempo a disposizione per governare l’inizio delle attività produttive e scolastiche ce n’è stato abbastanza. Forse sarebbe stato meglio accanirsi un po’ meno contro la ministra Azzolina e chiedere più risposte alla ministra De Micheli, che ora ha convocato finalmente le Regioni per un confronto sul tema. Tardi.

Leggi anche: Scontro sui trasporti, le Regioni chiedono orari scaglionati per le scuole: oggi il tavolo con De Micheli

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I rider di Uber Eats erano schiavizzati: la compagnia commissariata per caporalato

L’inchiesta su Uber Italy che vede coinvolte 10 persone per caporalato tra cui la manager di Uber Gloria Bresciani è la perfetta fotografia di un momento storico, al di là poi della rilevanza giudiziaria: sistematizzare le disperazioni per poterle spolpare fino all’ultimo centesimo appoggiandosi sulle povertà e nascondendosi dietro l’algoritmo di una piattaforma è il comandamento degli sfruttatori del 2020, gli schiavi non sono più solo nei campi con le schiene spezzate ma macinano chilometri sotto il sole o sotto la pioggia per la miseria di una lavoro sottopagato a cottimo come nelle peggiori storie di secoli fa.

È uno schiavismo scintillante, quello del delivery che ci porta comodamente i cibi a domicilio, che una certa narrazione è riuscito addirittura a rivenderci come una conquista. Solo che nel vocabolario impolverato dei diritti ormai sembra essersi smarrito il senso che una “conquista” lo è se porta vantaggi a tutti e invece qui ci troviamo di fronte a lavoratori, ancora una volta, stretti nella morsa di azienda e clienti.

Tra gli indagati anche Danilo Donnini e Giuseppe e Leonardo Moltini, amministratori della Flash Road City Srl e della Frc Sr, che andavano a cercare carne da macello da fare salire in bicicletta nelle sacche più in difficoltà delle storture politiche: i “pericolosi” immigrati in attesa di protezione umanitaria, quegli stessi che vengono già mangiati da certa propaganda politica, tornavano utilissimi per diventare manovalanza. Sono perfetti, se ci pensate, per un certo tipo di capitalismo: si ritrovano in una posizione di debolezza per reclamare diritti e hanno troppa fame per rinunciare a un lavoro.

Si legge nelle carte del pm di Milano Paolo Storari che gli indagati “approfittavano dello stato di bisogno dei lavoratori, migranti richiedenti asilo dimoranti nei centri di accoglienza straordinaria, pertanto in condizione di estrema vulnerabilità e isolamento sociale” e li destinavano al lavoro per il gruppo Uber “in condizioni di sfruttamento”. Pagamenti a cottimo per 3 euro a consegna, indipendentemente dalle distanze da percorrere e dalla fascia oraria, mance dei clienti che venivano sottratte, punizioni arbitrarie: “Abbiamo creato un sistema per disperati, ma i panni sporchi si lavano in casa”, diceva intercettata al telefono la manager di Uber. Consapevoli di essere degli schiavisti e sicuri di poter ambire all’impunità. Forse sarebbe il caso di imparare presto i nuovi riferimenti per riconoscere le nuove schiavitù. In fretta.

Leggi anche: Rider sfruttati, Uber Italia commissariata dal tribunale

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Il dramma di Valerio, suicida in cella dove non doveva stare…

Per il suicidio del detenuto Valerio Guerrieri, suicidatosi nel carcere di Regina Coeli il 24 febbraio del 2017 all’età di 21 anni, si dovrà perseguire penalmente anche la direttrice del carcere in quel periodo, Silvana Sergi, e una dirigente del Dap. L’ha deciso il gip Claudio Carini che ha respinto per la seconda volta la richiesta di archiviazione del pm Attilio Pisani. Ora si valutano le accuse di omissione di atti d’ufficio e reato di morte come conseguenza di un altro delitto, oltre all’indebita limitazione di libertà personale. Valerio Guerrieri non doveva essere in carcere, c’era scritto a chiare lettere perfino nella sentenza con cui era stato condannato a quattro mesi di reclusione in cui il giudice indicava chiaramente di trasferirlo in una Rems, la residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza che accoglie chi ha gravi disturbi mentali. Insieme alla direttrice del carcere e alla dirigente del Dap, il procedimento va avanti anche per sette agenti della penitenziaria di Regina Coeli e un medico, tutti già imputati. Il medico è accusato di omicidio colposo per non aver controllato in cella il ragazzo sottoposto «alla misura della grande sorveglianza».

La vicenda di Valerio Guerrieri, ennesimo morto per malagiustizia, inizia alle dieci di sera di venerdì 2 settembre del 2016. Valerio è fermo con la sua moto ai bordi del Grande raccordo anulare di Roma, una pattuglia della Polizia lo nota e accosta ma il ragazzo non risponde e riparte immediatamente: un inseguimento che dura 30 chilometri e che coinvolge cinque volanti della Polizia e che si conclude con la caduta del motociclista. Trasportato d’urgenza all’ospedale Sant’Andrea viene arrestato per «resistenza, lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato». Il ragazzo dice di non ricordare nulla e di non avere la patente. Viene condannato agli arresti domiciliari.
Non è una vita facile quella di Valerio: già a cinque anni i genitori decidono di chiedere aiuto al centro di tutela salute mentale e riabilitazione in età evolutiva di Ostia perché le maestre dell’asilo osservano strani comportamenti.

Nel 2009 era stato ricoverato al reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico di Roma dove gli viene diagnosticata «una personalità borderline con lievi tratti psicomaniacali». A quattordici anni comincia a prendere psicofarmaci, viene mandato alla comunità terapeutica Casetta Rossa di Roma e segue un percorso terapeutico che dovrebbe aiutarlo. Poi nel 2010 viene trasferito alla comunità Lilium, in provincia di Chieti, nel 2011 è a Villa Letizia, un centro romano che si occupa di problemi psichiatrici. La sua è una vita passata tra farmaci e le evidenti difficoltà famigliari. Il 1 maggio del 2012 lo arrestano mentre cerca di rubare una Vespa e viene portato al carcere minorile di Casal Del Marmo e poi ai domiciliari a Villa Letizia. Secondo il racconto della madre sarebbe proprio lì che il figlio conosce uno dei capi della banda della Magliana che gli insegna a rapinare i supermercati. La sua vita continua tra ricoveri, arresti e Tso affidato ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), fughe e nuovi arresti.

Nel 2015 gli tocca l’ospedale psichiatrico giudiziario, il manicomio criminale, a Secondigliano. Esce il 1° dicembre del 2015 perché tutti gli Opg in Italia devono chiudere per legge. Finisce in una comunità aperta a Rocca Canterano, nei pressi di Subiaco, ma scappa di nuovo. In quel periodo prende 9 psicofarmaci al giorno. Valerio interrompe le cure, di nuovo, e di nuovo è Tso. È una storia piena di dolore. In un’intervista rilasciata a Internazionale l’anno scorso la madre raccontava che Valerio «passava le giornate ciondolando per casa, pareva uno zombie». Arriviamo alle battute finali di questa storia: dopo l’arresto del settembre 2016, nonostante le disposizioni del giudice, Valerio viene spedito a Regina Coeli, 946 carcerati in quel periodo, il doppio di quelli per cui c’è spazio.

Il 16 febbraio scrive una lettera al fratello: «Ciao frate’ ti scrivo adesso 9.40 del mattino ti scrivo soltanto per dirti che mi dispiace x tutto io qui sto impazzendo non ce la faccio più ma vabbè me la so cercata (…) veramente ora son stanco di mangiare di fare qualunque cosa di scappare basta se io me ne vado x sempre penso che voi non sentirete la mia mancanza voglio andarmene per sempre quindi ora ti lascio con la penna ma non con il cuore ciao fratellone mio ci rincontreremo stai ar ciocco addio!?!?». Otto giorni dopo si uccide impiccandosi in bagno.

I compagni di cella raccontano che aveva preparato il cappio nel giorno precedente. Nella richiesta di rinvio a giudizio a carico di due medici e sette agenti di polizia penitenziaria il pm Pisani chiede la condanna per omicidio colposo per non aver sorvegliato e controllato il ragazzo come bisognava fare, e cioè ogni 15 minuti e con visite psichiatriche quotidiane. Contemporaneamente, Pisani ha provato ad archiviare le indagini sulla direzione del carcere e del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap): secondo il magistrato avrebbero agito con negligenza ma non con dolo ma ora arriva la decisione del gip. Una cosa è certa: il suicidio di Valerio Guerrieri è l’ennesima storia di uno Stato che usa il carcere come discarica sociale, un luogo dove rinchiudere qualsiasi forma di devianza, dai poveri ai tossicodipendenti fino ai malati psichiatrici. E così le carceri scoppiano e si moltiplicano i casi di suicidi di persone che avevano bisogno di cure, prima che di detenzione, e invece sono state lasciate sole. Come racconta la storia di Valerio.

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