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La festa alle mamme

Un altro giorno da reality show è passato. Con i politici che festeggiano la mamma senza proporre soluzioni per sostenere le donne madri. Che nel 2020 in tante hanno perso il lavoro o vi hanno rinunciato per seguire i figli. Anche perché mancano gli asili nido

In questo tempo in cui tutti i giorni i politici non possono permettersi di dimenticare di onorare le feste ieri si è assistito a un profluvio di auguri dei leader (e pure di quelli meno leader) alle loro mamme e a tutte le mamme d’Italia (i patriottici) e a tutte le mamme del mondo (i globalisti). Ci siamo abituati, senza nemmeno farci più troppo caso, ad aspettarci dai politici gli stessi input di un influencer, mettiamo il mi piace alla sua foto con la mamma e ci scaldiamo per un augurio pescato su qualche sito di aforismi.

Le mamme, dunque. Su 249mila donne che nel corso del 2020 hanno perso il lavoro, ben 96 mila sono mamme con figli minori. Tra di loro, 4 su 5 hanno figli con meno di cinque anni: sono quelle mamme che a causa della necessità di seguire i bambini più piccoli hanno dovuto rinunciare al lavoro o ne sono state espulse. D’altronde la quasi totalità – 90mila su 96mila – erano già occupate part-time prima della pandemia. È questo il quadro che emerge dal 6° Rapporto Le Equilibriste: la maternità in Italia 2021, diffuso in occasione della Festa della mamma da Save the Children. Uno studio sulle mamme in Italia che, oltre a sottolineare le difficoltà affrontate fa emergere ancora una volta il gap tra Nord e Sud del Paese.

Già prima della pandemia la scelta della genitorialità, soprattutto per le donne, è spesso interconnessa alla carriera lavorativa. Stando ai dati, nel solo 2019 le dimissioni o risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro di lavoratori padri e lavoratrici madri hanno riguardato 51.558 persone, ma oltre 7 provvedimenti su 10 (37.611, il 72,9%) riguardavano lavoratrici madri e nella maggior parte dei casi la motivazione alla base di questa scelta era la difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze della prole.

Lo «shock organizzativo familiare» causato dal lockdown, secondo le stime, avrebbe travolto un totale di circa 2,9 milioni di nuclei con figli minori di 15 anni in cui entrambi i genitori (2 milioni 460 mila) o l’unico presente (440 mila) erano occupati. Lo «stress da conciliazione», in particolare, è stato massimo tra i genitori che non hanno potuto lavorare da casa, né fruire dei servizi (formali o informali) per la cura dei figli: si tratta di 853mila nuclei con figli 0-14enni, nello specifico 583mila coppie e 270mila monogenitori, questi ultimi in gran parte (l’84,8%) donne.

Il problema è urgente: nonostante gli asili nido, dal 2017, siano entrati a pieno titolo nel sistema di istruzione, ancora oggi questa rete educativa è molto fragile e, in alcune regioni, quasi inesistente. Una misura necessaria a dare ai bambini maggiori opportunità educative sin dalla primissima infanzia, che contribuirebbe a colmare i rischi di povertà educativa per le famiglie più fragili, ma anche a riportare le donne e in particolare le madri nel mondo del lavoro. La Commissione europea ha indicato come obiettivo minimo entro il 2030 per ciascun Paese membro di almeno dimezzare il divario di genere a livello occupazionale rispetto al 2019 ma per l’Italia, numeri alla mano, la missione sembra praticamente impossibile.

In un Paese normale nel giorno della Festa della mamma i politici non festeggiano la mamma ma illustrano le proposte. La politica funziona così: c’è un tema e si propongono soluzioni. Il dibattito politico ieri era polarizzato sui disperati che sono sbarcati (vedrete, ora si ricomincia) e su una libraia (una!) che ha liberamente scelto di non vendere il libro di Giorgia Meloni (censura! censura! gridano tutti).

E intanto un altro giorno da reality show è passato.

Buon lunedì.

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La vigliaccheria fiscale

Aumento dei ricavi per Amazon Europa che nel 2020 è arrivata a 44 miliardi di euro. Ma zero tasse. Si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”… Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E una questione enorme politica che passa sottovoce

Complice la pandemia che è stata tutt’altro che una livella per sofferenza dei diversi lavoratori e per danni alle diverse aziende la ricchissima Amazon del ricchissimo Bezos è diventata ancora più ricca aumentando di 12 miliardi i ricavi rispetto all’anno precedente in Europa e arrivando a un totale di 44 miliardi di euro.

Poiché i numeri sono importanti vale la pena ricordare che sono 221 miliardi circa tutti i soldi che l’Italia ha a disposizione dall’Europa per risollevarsi. Giusto per fare un po’ di proporzioni. L’ultimo bilancio della divisione europea di Amazon (lo trovate qui) racconta della società con sede legale in quel meraviglioso paradiso per ricchi che è il Lussemburgo gestisce le vendite delle filiali di Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Polonia, Svezia. Ovviamente le tasse si pagano sui profitti, non certo sui ricavi, eppure le acrobazie fiscali di Amazon hanno permesso di risultare in perdita per 1,2 miliardi di euro nonostante un aumento del ricavo del 30%. «I nostri profitti sono rimasti bassi a causa dei massicci investimenti e del fatto che il nostro è un settore altamente competitivo e con margini ridotti», ha spiegato un dirigente di Amazon. Insomma, poveretti, lavorano per perderci. E infatti hanno accumulato 56 milioni di euro di credito d’imposta che potranno usare nei prossimi anni e che portano a 2,7 miliardi di euro il credito totale.

È incredibile che un’azienda che vale in Borsa quanto il prodotto interno lordo dell’Italia non riesca proprio a fare profitto o forse semplicemente i profitti vengono spostati altrove, complice la vigliaccheria fiscale di un’Europa che è sempre forte con i deboli ma è sempre piuttosto debole con i forti, come sempre. Attraverso compravendite fittizie infragruppo tra filiali dei diversi Paesi i guadagni vengono spostati da dove si realizzano a dove più conviene e le contromisure del Lussemburgo contro queste pratiche sono volutamente morbide.

In una nota la commissione Ue commenta: «Abbiamo visto quanto apparso sulla stampa, non entriamo nei dettagli, in linea generale la Commissione ha adottato un’agenda molto ambiziosa in materia di fiscalità e contro le frodi fiscali, nelle prossime settimane pubblicheremo una comunicazione e sul piano globale siamo impegnati con i partner internazionali nella discussione in corso» sull’equa tassazione delle imprese. Si tratta del negoziato per definire un’imposta minima globale per evitare la concorrenza fiscale al ribasso. Quanto agli aspetti di concorrenza, del caso Amazon/Lussemburgo il dossier resta in mano alla Corte di Giustizia Ue: il gruppo Usa e il Granducato hanno contestato la decisione comunitaria che nel 2017 concluse che il Lussemburgo aveva concesso ad Amazon vantaggi fiscali indebiti per circa 250 milioni di euro, un trattamento considerato illegale «ha permesso ad Amazon di versare molte meno imposte di altre imprese». Peccato che contro la decisione europea abbia ricorso Amazon (e questo ci sta) e perfino il Lussemburgo.

Sono numeri spaventosi che raccontano perfettamente come la guerra tra poveri e tra disperati non riesca mai a guardare in alto dove si consumano le ingiustizie peggiori. Vi ricordate quando si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”? Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E invece una questione politica enorme passa sottovoce mentre i nostri leader stanno litigando sul bacio a Biancaneve.

Buon giovedì.

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La sparizione del salario minimo

Solo lo scorso 16 marzo la Commissione Lavoro del Senato approvava la direttiva Ue volta a garantire l’adozione del salario minimo legale ai lavoratori degli Stati membri. Il testo impone l’individuazione di soglie minime di salario che possono essere introdotte per legge (salario minimo legale) o attraverso la contrattazione collettiva prevalente, come sottolineato anche dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Andrea Orlando.

Il salario minimo (su cui Partito democratico e Movimento 5 Stelle hanno depositato diversi disegni di legge negli ultimi anni) è proprio scomparso nella versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza inviata alla Commissione europea nonostante fosse presente nel testo entrato in Consiglio dei ministri.

Nella bozza che circolava pochi giorni fa si parlava di una «rete universale di protezione dei lavoratori» e del «salario minimo legale», oltre alla garanzia di una retribuzione «proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto» per tutti i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale. Perfetto: è sparito tutto il paragrafo. Non si tratta di correzioni, di aggiustamenti, no, è sparito tutto.

La cancellazione difficilmente può arrivare dall’Europa vista la direttiva che è stata approvata solo un mese fa in Commissione Lavoro e viste le parole durante il proprio discorso allo Stato dell’Unione 2020, che von der Leyen aveva a riguardo, dicendo che «il dumping salariale danneggia i lavoratori e gli imprenditori onesti, mette a repentaglio la concorrenza sul mercato del lavoro – aveva aggiunto – per questo faremo una proposta per un salario minimo in tutti gli Stati dell’Unione. Tutti devono avere accesso ai salari minimi o attraverso la contrattazione collettiva o con salari mini statutari, è arrivato il momento che il lavoro venga pagato nel modo equo».

Qualcuno prova a teorizzare che la cancellazione in extremis potrebbe essere il risultato degli incontri con le parti sociali nella fase finali della stesura, ipotizzando che un eventuale salario minimo possa indebolire le trattative sindacali poiché alcune aziende potrebbero così semplicemente accontentarsi di essere a norma di legge. Peccato che sia da tempo sotto gli occhi di tutti la moltiplicazione di accordi sottoscritti da soggetti non del tutto rappresentativi che hanno contribuito alla corsa al ribasso per certe categorie. Del resto il problema dei contratti pirata (soprattutto nelle zone più depresse del Paese) è sempre poco dibattuto nonostante abbiano affiancato spesso il lavoro nero.

L’ex ministra del lavoro Catalfo disse: «Il salario minimo è da sempre un obiettivo mio e di tutto il Movimento 5 Stelle. Una risposta essenziale per contrastare il cosiddetto dumping salariale, riequilibrare il sistema di concorrenza interna fra le imprese e ridare dignità e futuro ai “working poor” (i lavoratori poveri) e alle loro famiglie. Una risposta che la crisi innescata dalla pandemia ha reso ancora più urgente e necessaria e sulla quale, come Italia, dobbiamo investire con determinazione nel nostro progetto di rilancio».

E quindi? E ora? Il Pd e il M5s che dicono?

Buon giovedì.

(nella foto il ministro del Lavoro Andrea Orlando)

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Conte massacrato perché “non si discuteva del Recovery”. Ma il piano di Draghi nessuno l’ha visto

Eravamo in ritardo già due mesi fa, quasi tre. Lo dicevano a gran voce tutti, lo ribattevano i giornali, lo dicevano quasi tutti i partiti e i renziani ci avevano detto che la mancata discussione del Pnrr “con un dibattito aperto e franco in Parlamento” era uno dei principali motivi della crisi di governo.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è il programma di investimenti che l’Italia deve presentare alla Commissione europea nell’ambito del Next Generation EU, lo strumento per rispondere alla crisi pandemica provocata dal Covid-19: il piano va presentato il prossimo 30 aprile, tra pochi giorni, ma non l’ha ancora visto nessuno.

I sindacati che hanno incontrato ieri Draghi hanno raccontato di non avere visto nulla di scritto, nonostante si siano presentati pieni di speranze. “Noi riconosciamo solo a Omero la possibilità di una descrizione orale” ha detto ieri Pierpaolo Bombardieri, segretario della Uil, ma qui tocca fidarsi delle buone intenzioni, visto che anche gli stessi partiti non hanno ancora visto nulla.

Ieri c’è stato l’ultimo incontro con le forze politiche, la delegazione di Leu, e anche in quel caso nulla di scritto. Perfino Carlo Bonomi, presidente di Confindustria sempre piuttosto tenero con Draghi, ha dovuto specificare che si riserva una valutazione “perché non è stato visto alcun documento”.

Ultima versione del piano? Quella del 12 gennaio, ritenuta “insufficiente” dagli stessi partiti che ora si sono meravigliosamente ammansiti. 34 associazioni tra cui Libera, Transparency International Italia, Lipu, Cittadinanzattiva, Cittadini reattivi, Re-Act, Fondazione Etica hanno scritto una lettera ai Ministri Franco, Giovannini, Colao, Cingolani e al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Garofoli per chiedere di pubblicare con urgenza le bozze del piano: “A pochi giorni dalla data che sancisce l’obbligo di consegna di Piano definitivo a Bruxelles e in previsione di una spesa pari a 220 miliardi di euro di risorse comunitarie e nazionali, ci è ancora impossibile pronunciarci sui contenuti del PNRR perché l’ultima bozza non è stata resa disponibile”, scrivono.

In Parlamento probabilmente verranno fatte delle “comunicazioni”, sottoposte al voto, che saranno molto generiche. E pensare che fino a qualche giorno fa si pensava semplicemente a delle “informative”. “Sarebbe utile leggere il piano” dicono tutti composti in Parlamento quelli che prima si strappavano i capelli e intanto sperano che non si colga l’incoerenza. Un altro punto nella lista delle urgenze che si sono spente.

Leggi anche: E anche Beppe Grillo scoprì cos’è il giustizialismo (di Giulio Cavalli)

L’articolo proviene da TPI.it qui

Perché von der Leyen ha incontrato Erdoğan, esecutore materiale della folle politica europea

Fa ancora discutere la sedia non concessa alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen mentre il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel invece si godeva il suo posto d’onore con il sultano turco Recep Tayyip Erdoğan. Quello sgarbo è stata anche l’occasione di ricordare al mondo come il leader turco stia progressivamente fiaccando i diritti delle donne nel suo Paese, partendo da quel 2016 in cui disse che le donne fossero “da considerarsi prima di tutto delle madri”, relegandole al loro medievale scopo riproduttivo e poi fino ai giorni scorsi in cui il suo governo ha annunciato tronfio il ritiro dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

In Turchia tra l’altro si contano in media circa due femminicidi al giorno e le donne, complice anche la pandemia, hanno sempre minor accesso al mondo del lavoro e alla politica. Insomma, quello sgarbo ha radici profonde e ben venga quella sedia che è mancata per ricordarcelo. Nella discussione generale però sembra scomparso il motivo per cui l’Ue ha scelto di incontrare Erdoğan e il fatto non è secondario perché il sultano turco evidentemente può permettersi certi atteggiamenti, forte del suo ruolo internazionale. Allora bisognerebbe avere il coraggio di dirlo, di scriverlo che Erdoğan altro non è che l’esecutore materiale della folle politica europea che ha delegato alla Turchia l’esternalizzazione delle frontiere europee per controllare il flusso migratorio in modi anche poco leciti.

Nel 2016, in piena crisi migratoria, Bruxelles, su spinta soprattutto della Germania, ha firmato un accordo che garantiva 6 miliardi di euro alla Turchia per trattenere i migranti nei propri confini (si stima che siano almeno 4 milioni di persone) e grazie a quell’accordo tutti i migranti irregolari che arrivavano sulle isole greche attraverso il confine turco sono stati riportati in Turchia. Quei soldi hanno lo stesso odore di quelli che arrivano alla cosiddetta Guardia costiera libica (sì, proprio quella che Draghi ha blandito pochi giorni fa) per fare da tappo in Africa. Soldi che rendono ancora più forti governi che non hanno nulla di democratico e che non hanno nulla da spartire con i valori europei eppure tornano utili per essere i sicari dell’Unione europea. C’è qualcosa di più di quella sedia che manca. Giusto un anno fa, a marzo del 2020, Erdoğan ha ricattato l’Europa sulla gestione dei flussi per alcune partite geopolitiche come quella siriana e per reclamare altri soldi.

La Grecia aveva denunciato la Turchia di “spingere” verso la sua frontiera i migranti e alla fine l’Ue per garantire la propria “fortezza” ha deciso di continuare a foraggiare la Turchia: la presidente garantisce «la continuità dei fondi. E se la Turchia rispetta gli impegni, previene le partenze, prevede i rientri dalla Grecia, i fondi Ue garantiranno ancor più opportunità», dice la nota ufficiale. Del resto già a settembre Bruxelles aveva inserito un passaggio significativo nella sua proposta su asilo e immigrazione scrivendo nero su bianco che lo stanziamento di fondi alla Turchia «continua a rispondere a bisogni essenziali. Essenziale sarà perciò che l’Ue dia alla Turchia un sostegno finanziario continuativo». Su quella stessa linea si è assestato anche Mario Draghi che fin dal suo primo discorso pubblico a febbraio disse che gli accordi per esternalizzare le frontiere (che tradotto significa pagare anche Erdoğan) erano fondamentali per controllare l’immigrazione.

Da tempo diverse organizzazioni umanitarie, tra cui anche Amnesty International, giudicano la politica europea sulle frontiere disumana oltre che totalmente fallimentare eppure nessuno è mai riuscito a mettere in discussione questo modello che si annuncia valido anche per il futuro. Ad Ankara l’Ue ha manifestato anzi la volontà di rafforzare i legami economici con la Turchia, ha concesso la revisione del sistema di visti in ingresso nell’Ue e un’unione doganale per favorire il passaggio delle merci. Quando a von der Leyen è stato chiesto dei diritti calpestati in Turchia la presidente ha risposto: «I diritti umani non sono negoziabili. Vorremmo che la Turchia rivedesse la decisione di uscire dalla convenzione di Istanbul e che rispettasse i diritti umani». Insomma, siamo alle raccomandazioni per quanto riguarda il rispetto dei diritti e ai soldi fumanti invece per contenere i disperati. Forse se Erdoğan fa il bullo non è solo colpa sua.

L’articolo Perché von der Leyen ha incontrato Erdoğan, esecutore materiale della folle politica europea proviene da Il Riformista.

Fonte

Lo stolto guarda il dito

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha incontrato il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel e la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen decidendo di fare apparecchiare una sedia accanto alla sua per il presidente del Consiglio Europeo e lasciando di lato la presidente della Commissione. Di lato, con tutto il significato simbolico che ha quell’immagine in cui i due maschi se la cantano e se la suonano in posizione padronale mentre Von der Leyen appare lì solo di passaggio. Erdoğan, come molti dei sovranisti di questa epoca triste, sa benissimo che un’immagine può essere utilissima per solleticare gli sfinteri dei suoi elettori senza nemmeno prendersi la briga di dovere aggiungere altro. Del resto chi è povero di contenuti ha sempre bisogno di simboli per non apparire vuoto.

Von der Leyen ha capito al volo e non ha gradito se è vero che il suo portavoce Eric Mamer in conferenza stampa ha raccontato come sia rimasta “sorpresa” e dopo la «sorpresa, Von der Leyen ha deciso di andare avanti, dando priorità alla sostanza dell’incontro più che al protocollo». Anche sul fatto che la scelta del premier turco sia stata presa contro le donne non sembra lasciare molti dubbi (e lo scriviamo prima che qualche fallocrate venga a spiegarci che si tratta delle solite fisime da femministe) se è vero che Mamer ha dichiarato apertamente che «indipendentemente dal fatto che von der Leyen sia una donna, la presidente doveva essere accomodata come le altre istituzioni europee».

C’è da dire che anche l’atteggiamento del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel è riuscito a brillare per mediocrità: se è vero che da Erdoğan non ci sia molto di diverso da aspettarsi il collega di Von der Leyen avrebbe potuto fare un gesto, almeno un cenno, anche perché dalle informazioni a disposizione sembra che sia stato proprio il suo staff a eseguire il sopralluogo prima dell’incontro. Ma vuoi mettere la soddisfazione di fare il maschio tra maschi con una donna di lato? Deve essere stato irresistibile.

Poi, volendo, ci sarebbe il punto politico: Erdoğan già si è distinto per pessimi commenti discriminatori e offensivi nei confronti delle donne, nel 2016 disse che erano da considerarsi «prima di tutto delle madri». Poi il suo governo ha annunciato il ritiro dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. In Turchia tra l’altro si viaggia alla media di due femminicidi al giorno e la pandemia ha escluso ulteriormente le donne dalla partecipazione al mondo del lavoro e alla politica.

Infine c’è la domanda delle domande e c’è anche la risposta: l’Europa si tiene stretto Erdoğan (con i nostri 6 miliardi regalati) per le sue ingerenze militari e per assolvere il lavoro sporco che l’Europa gli ha appaltato. I signori della guerra sono i sicari dell’Europa per fingere di dimenticarsi dei diritti umani. In cambio basta blandirli un po’ (come ha fatto nei giorni scorsi Draghi) oppure ingoiare qualche sgarbo nel cerimoniale. E chissà che i bifolchi non siano solo quelli che vengono colti in fallo, chissà che non si stia guardando il dito.

Buon giovedì.

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Nell’uovo, le armi

Quatti quatti, zitti zitti, i signori delle armi entrano nella proposta di Pnrr che il governo Draghi si prepara a stilare per la consegna del Recovery Plan alla Commissione europea. Il comparto militare, settore precedentemente ignorato dal governo precedente, sorride sotto i baffi intravedendo la luce.

Il governo Conte aveva presentato le linee guida del Piano nazionale di ripresa e di resilienza il 15 settembre del 2020, poi formalizzato con la proposta del 31 gennaio 2021. Il testo aveva tre assi di intervento, già condivisi in ambito europeo: digitalizzazione, transizione ecologica e inclusione sociale. Già durante la crisi di governo il Parlamento ha continuato a lavorarci con audizioni di operatori economici. Ebbene: il 9 febbraio si tiene alla Camera, davanti alle Commissioni riunite di Bilancio e Attività produttive, l’audizione informale della Leonardo S.p.A., azienda partecipata che si occupa di difesa, aerospazio e sicurezza. Subito l’insediamento del governo Draghi, poi, il 23 febbraio, la Commissione Difesa del Senato ascolta una rappresentanza di Anpam, Associazione Nazionale di Produttori di Armi e Munizioni, la settimana successiva è il turno dell’Aiad (Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza), il cui presidente è il fedelissimo di Giorgia Meloni, Guido Crosetto.

Ecco la novità: le Commissioni Difesa di Camera e Senato propongono l’utilizzo di fondi «per promuovere una visione organica del settore della Difesa, in grado di dialogare con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca» e per «valorizzare il contributo a favore della Difesa sviluppando le applicazioni dell’intelligenza artificiale e rafforzando la capacità della difesa cibernetica e incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare».

Le osservazioni delle Commissioni Difesa vengono recepite nel parere della Commissione Bilancio ma anche il governo sembra essere d’accordo: nel resoconto della seduta del 17 marzo della Commissione Difesa del Senato, infatti, si legge che il sottosegretario Mulè «ringrazia il relatore per il lavoro svolto ed esprime apprezzamento per la bozza di parere della Commissione, che, nei contenuti e perfino nella scelta dei vocaboli, corrisponde alla visione organica che del Piano nazionale di ripresa e resilienza ha il Governo».

Dove siano innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale in tutto questo potrebbe spiegarcelo Draghi, magari ricordandosi che sono stanziati per i prossimi quindici anni ben 36,7 miliardi di euro in spese militari, più del 25% dei fondi pluriennali per l’investimento e lo sviluppo infrastrutturale dell’Italia.

Buon lunedì.

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A pochi metri dalla solita manfrina

Che Matteo Salvini sia terribilmente scomodo in questo governo allargato è un’evidenza negata solo da quelli che per convenienza hanno voluto rivenderci la svolta del leader leghista, tanto per magnificare preventivamente le doti di Draghi nel mondare salvificamente una politica che invece (purtroppo) rimane sempre uguale a se stessa. Che la base di Salvini sia in subbuglio, soprattutto quella più estrema ai limiti del negazionismo che ha accarezzato di sponda in tutti i mesi di questa pandemia è un fatto che basta verificare scorrendo i commenti ai suoi post su uno qualsiasi dei social che il segretario leghista utilizza con veemente frequenza. Anche i molti imprenditori che confidavano in lui per un fulmineo ritorno alle aperture e a una presunta normalità (perfino sfidando i ragionevoli rischi del virus) sono parecchio incazzati.

A questo aggiungeteci che all’interno del partito Salvini comincia a perdere appoggi importanti e a soffrire figure come quella di Giorgetti che viene considerato molto più affidabile dai ceti produttivi del nord, senza dimenticare Zaia che da tempo aspetta solo il momento giusto per provare a tirare la sua zampata e prendersi il partito. Se non bastasse là fuori c’è anche Giorgia Meloni che nella più comoda posizione di oppositrice al governo ha le mani libere per sparare a palle incatenate contro le decisioni di Draghi e dei ministri senza doversi prendere la responsabilità di proporre per forza delle alternative.

E che farà Salvini? Tornerà a essere il solito Salvini. Anzi, ha già cominciato. Nella distrazione generale ha cominciato a spargere un po’ di messaggi di odio e di razzismo: l’8 marzo ha commentato la notizia del referendum in Svizzera sul burqa mischiando un po’ le carte e parlando di «una decisione dei cittadini a difesa dei valori della civiltà occidentale ed europea, contro ogni violenza, discriminazione e sopraffazione»; lo stesso giorno ha scritto che «serve più rigore nel controllo degli sbarchi, anche alla luce del recente allarme dei Servizi di intelligence sui rischi di infiltrazione terroristica: i confini dell’Italia sono confini europei»; il 9 marzo è tornato ai fasti di un tempo annunciando l’intenzione di «confrontarmi al più presto con il Presidente Draghi e il ministro Lamorgese per trovare soluzioni. L’Italia soprattutto in pandemia – e con molti cittadini costretti a casa – non può permettersi sbarchi a raffica, clandestini a spasso e illegalità»; ieri è partito con le solite menzogne sbraitando «che il traffico di esseri umani sia un business per la malavita organizzata e che alcune Ong siano complici era una mia convinzione ed ora lo è anche di diverse procure» e dicendo chiaramente «continuo a pensare che, anche in un momento di pandemia, tornare a difendere i confini sia una necessità».

Come al solito, quando si trova in difficoltà, estrae dal cilindro migranti e confini che gli hanno fruttato tanta fortuna. Solo che il difficile momento nazionale (e la conformazione di questo governo) renderanno ancora più difficile la sua propaganda e allora urlerà ancora più forte, ancora più feroce, ancora più violento. E tornerà il solito Salvini, la sua conversione si dimostrerà una semplice posa e si ricomincia tutto da capo.

Segnatevelo.

Buon venerdì.

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L’intergruppo “Smutandati da Draghi”

I leghisti che plaudono alla cessione di sovranità all’Europa. I renziani entusiasti di un esecutivo che non parla di Mes. Il voto di fiducia al governo Draghi è stato il teatro di giravolte e capriole della politica

C’è talmente tanta ansia di comunicazione che alla fine tutti si esercitano nel solito esercizio: immaginare un programma di governo dalle parole di un discorso di insediamento vale più o meno come cavare il sangue da una rapa, soprattutto se il discorso al Parlamento è un elenco sartoriale (come l’oratore) di buoni propositi che possono voler dire tutto e il suo contrario.

Certo ieri Draghi ha fissato dei paletti e degli obiettivi dal profilo alto e di natura ambiziosa ma cosa ci possa essere dietro è ancora tutto da vedere. C’è dentro molta Europa (poi ci torniamo) com’era inevitabile che fosse ma bisogna capire se l’idea «di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio comune» indica una comunità di fatturati o di persone, c’è dentro la scuola ma si insiste sui «giorni di lezione persi» ed è un’affermazione falsa e piuttosto di pancia, c’è dentro finalmente la questione femminile collegata all’occupazione (ha detto Draghi: «aumento dell’occupazione, in primis, femminile, è obiettivo imprescindibile: benessere, autodeterminazione, legalità, sicurezza sono strettamente legati all’aumento dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno») ma bisognerà vedere ovviamente come risolverla, c’è dentro molto ambiente (del resto lo chiede l’Europa, davvero), c’è dentro la cura per il patrimonio culturale anche se nella solita perversa visione della sua messa a reddito «per il turismo», c’è dentro la riforma strutturale del fisco che non può essere il mettere o togliere questo o quel balzello ma che ha bisogno di un pensiero totale che ne tocchi tutto l’impianto (ma bisogna vedere a favore di chi), ci sono dentro i giovani (quelli non mancano mai nei discorsi politici), c’è dentro il lavoro con una responsabilità politica enorme (scegliere quali aziende sostenere è una delle scelte più politiche che spetta a un governo, altro che tecnici), c’è dentro la promessa di politiche attive per i lavoratori (ma anche su questo non resta che aspettare i concreti provvedimenti). Volendo vedere ci sono anche parole che speriamo di avere interpretato male sull’immigrazione visto che è stata proposta come questione europea e l’esternalizzazione delle frontiere messa in atto dall’Europa è roba vergognosa che andrebbe rivista: nessuna parola su cittadinanza e integrazione, ad esempio. Parlando di ambiente è riuscito a buttarci dentro anche un ipotetico dialogo con il Signore, eh vabbè. Vedremo, osserveremo, vigileremo.

Però la giornata di ieri è stata anche e soprattutto la giornata dello smutandamento di politici ingarbugliati in capriole che sono stati smascherati da un governo che tra i suoi pregi ha sicuramente quello di svelare la bassa natura di alcuni protagonisti.

Per chi aspettava ad esempio con curiosità le parole dei renziani di Italia viva sul Mes che per Renzi era dirimente per l’eventuale fiducia al governo Conte (il 17 gennaio scorso disse «non voterò mai un governo che si ritiene il migliore del mondo e di fronte a 80mila morti non prende il Mes») c’è la fenomenale dichiarazione di Faraone: «Ci chiedono strumentalmente perché non chiediamo più il Mes. Non lo facciamo perché il nostro Mes è lei, presidente Draghi, e questo governo». Ecco, credo che non servano altri commenti.

Per chi ci diceva che il Recovery plan del precedente governo fosse “uno schifo” arrivano le parole di Draghi che confermano invece la «grande mole di lavoro» del governo precedente e l’intenzione di continuare in quella direzione. Così, per capire quanta ipocrisia ci siamo sorbiti nei giorni scorsi.

Draghi ha parlato di un rafforzamento della sanità territoriale e di fianco aveva Giorgetti, quello che diceva: «Mancheranno 45 mila medici di base, ma tanto nessuno va più da loro. È un mondo finito». Una scena epica.

Ma il campione delle giravolte è ovviamente Matteo Salvini che ieri è diventato turbo europeista lanciandosi a dire: «Vogliamo l’Europa 7 giorni su 7». Draghi ha parlato dell’irreversibilità dell’euro e lui si è inzerbinato, Draghi ha parlato di cessione della sovranità e il sovranista ha fatto sì sì con la testina. Un massacro. Se avete voglia di divertirvi andatevi a leggere i commenti dei suoi elettori sotto i suoi profili social: un’arena contro il capitano. Giorgia Meloni se la ride.

Lo slurp del giorno, manco a dirlo, lo vince Raffaella Paita di Italia viva: «Tra gli aspetti che mi hanno colpito del discorso di #Draghi c’è un dettaglio che probabilmente non tutti hanno notato. Quando veniva interrotto da applausi ricominciava il periodo dall’inizio per rispettare il rigore del ragionamento. #questionedistile #senato», ha scritto ieri. Evviva.

Buon giovedì.

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Facce toste

Tra i politici, in questi giorni, è tutto uno smentirsi senza nemmeno avere qualche remora. Senza nemmeno sentirsi in dovere di spiegare. E non è un bel vedere

Sono giorni frizzanti questi perché, mentre il presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi continua il suo giro di consultazioni, abbiamo l’occasione di toccare con mano lo spessore politico dei partiti in Parlamento, quei partiti che da anni vorrebbero perfino essere portatori di etica e che si combattono dando lezioni di moralità uno contro l’altro mentre poi nel loro piccolo cortile riescono a dare il peggio di sé.

Ieri l’europarlamentare Antonio Rinaldi, il fondatore e uomo di punta della corrente “no euro” della Lega di Salvini, è riuscito a rilasciare un’intervista alla giornalista Annalisa Chirico in cui candidamente afferma di non avere «mai detto di voler uscire dall’euro». Una roba immonda che racconta perfettamente come sotto il paravento di una “responsabilità” fasulla (che poi consiste nell’occasione di ambire a mettere le mani sui miliardi che arriveranno dall’Europa) i partiti siano disposti addirittura a rinnegare se stessi. Dice Rinaldi che le sue panzanate contro l’euro erano «solo una speculazione accademica», che «dall’euro non si esce» e parlando della Lega afferma: «Non siamo noi a esserci avvicinati all’Europa. È l’Europa che si è avvicinata a noi».

Pensare che in questo video (uno tra i tanti) dichiarava che dalla moneta unica europea si dovesse uscire subito e che per farlo sarebbe bastato un decreto. A proposito: quel video è sulla pagina del Movimento 5 stelle Europa, sì, quando anche loro insistevano tutti belli felici sull’antieuropeismo per riuscire a racimolare qualche voto degli arrabbiati. Vi basta fare un giro in rete per ritrovare centinaia di eventi (di Lega e di M5s) contro l’euro. Ora vi stanno dicendo che era tutto falso, niente di niente. Chissà che ne pensano gli elettori, sempre a proposito della “crisi di fiducia verso la politica”.

Badate che contro l’euro, nonostante in questi giorni siano pochi a ricordarlo, si scagliava simpaticamente anche Silvio Berlusconi: nel gennaio del 2018 in un’intervista al Corriere dell’Umbria l’ex Cavaliere disse (sempre per solleticare gli sfinteri degli elettori): «Rispetto a 24 anni fa, l’Italia è peggiorata per colpa dell’euro. L’introduzione della moneta unica con quelle modalità e a quei valori, improvvidamente accettati da Romano Prodi, ha dimezzato i redditi e i risparmi degli italiani». E questo concetto l’abbiamo sentito ripetere migliaia di volte in questi anni tanto che è arrivato intonso fino a noi.

Notevole anche la dichiarazione di Carlo Sibilia, ex sottosegretario per il M5s, il partito che avrebbe dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e non allearsi con nessuno, che dice candidamente: «Abbiamo digerito Lega e Pd, possiamo digerire anche Berlusconi in maggioranza con noi». La scatoletta di tonno ormai se la sono mangiata e non hanno nemmeno avuto bisogno della citrosodina per sistemarsi lo stomaco.

E così via: è tutto uno smentirsi senza nemmeno avere qualche remora. Meno di un mese fa, ospite da Gruber alla trasmissione Otto e mezzo, il democratico Andrea Orlando (attenzione, meno di un mese fa), rispondendo a una domanda del direttore di Domani Stefano Feltri che gli chiedeva se il Pd fosse disposto a governare con Salvini nell’ipotesi di un governo Draghi, il parlamentare Pd rispose sornione e bello convinto: «Nemmeno se venisse Superman». Chissà cosa ne pensano gli elettori.

Ora, vedete, il problema non è cambiare opinione (come succede nella vita e nella politica quando cambiano le situazioni e i contesti). Ciò che lascia basiti è che non assistiamo a un’onesta narrazione di se stessi in cui i politici dicono di dover prendere una decisione inattesa per questo o quel motivo: questi addirittura si rinnegano senza nemmeno sentirsi in dovere di spiegare. E non è un bel vedere.

Infine: ieri Giorgia Meloni si è lanciata nella sempre ridicola proposta di una “flat tax progressiva” che è un ossimoro indecente. Ha ragione Civati quando scrive che ora le manca solo “una patrimoniale per i senza tetto” e poi siamo al punto massimo della ridicolaggine. Ma c’è un aspetto che conviene sottolineare: allo stato attuale a Fratelli d’Italia, che risulta essere l’unico partito all’opposizione, spetterebbero i presidenti delle commissioni Vigilanza Rai, Copasir, e vigilanza su Cdp. Qualcuno ci ha pensato?

Buon mercoledì.

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