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favola

Fingeranno sempre di passare lì per caso

Il governo ha deciso di chiudere le piste da sci sulla base dei dati del Cts sui contagi. Apriti cielo. Da Salvini a Zingaretti si levano voci sdegnate. E a parlare così sono i politici di quegli stessi partiti che hanno ministri nell’esecutivo Draghi. Ecco cosa c’e dietro il “governo dei sogni”

Giornata interessante, quella di ieri. Giornata significativa anche per quelli che da qualche giorno sospirano petali di rosa sognanti per un Draghi taumaturgo che avrebbe il potere di cancellare i partiti, la politica, la mediocrità di certi leader e soprattutto i normali meccanismi democratici di un Parlamento.

Accade che il governo decida di chiudere le piste da sci che invece avrebbero dovuto aprire. Accade che lo faccia all’ultimo momento: l’ultimo momento del resto è il primo momento utile con i nuovi dati che arrivano dal Comitato tecnico scientifico e volendo ben vedere anche il primo giorno utile da un governo che è naufragato per regalarci il governo dei sogni, il governo dei migliori, il governo che avrebbe cambiato tutto. Accade che di fronte i dati dei nuovi contagi (perché la curva non si abbassa più e anzi in modo preoccupante tende a rialzarsi probabilmente a causa delle varianti del virus) si decide di tenere chiuse le piste sciistiche. Apriti cielo: ogni volta che qualcuno tocca un settore qualsiasi ovviamente (e giustamente) si levano voci sdegnate. Ma badate bene, qui non si tratta delle voci dei lavoratori, che si sono ritrovati nella pessima situazione di dover cancellare una riapertura programmata che è costata organizzazione, soldi, fatica e che inevitabilmente costa moltissimo in termini economici e di spirito. No, qui si levano le voci sdegnate dei politici.

«I ministri hanno la nostra fiducia. ma serve cambiare qualche tecnico – ha avvertito Salvini – La comunità scientifica è piena di persone in gamba». Il presidente di Regione Lombardia, il leghista Fontana dice: «Trovo assurdo apprendere dalle agenzie di stampa la decisione del ministro della Salute di non riaprire gli impianti sciistici a poche ore dalla scadenza dei divieti fin qui in essere, sapendo che il Cts aveva a disposizione i dati da martedì, salvo poi riunirsi solo sabato». «Sono allibito da questa decisione che giunge a poche ore dalla riapertura», dice il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio. Piste da sci aperte in Friuli Venezia Giulia dal 19 febbraio anche per gli sciatori amatoriali. Il governatore Massimiliano Fedriga ha firmato l’ordinanza urgente n. 4/2021 con cui apre anche agli sciatori amatoriali, a decorrere dal 19 febbraio e fino al 5 marzo, gli impianti nelle stazioni e nei comprensori sciistici. «Per noi viene prima di tutto la salute dei cittadini ma è raccapricciante e imbarazzante vedere un’ordinanza che proroga la chiusura degli impianti da sci pubblicata 4 ore prima di mezzanotte», dice il presidente veneto Luca Zaia. Ma badate bene, non è mica solo la Lega: «Il danno per l’economia dello #sci e della #montagna è davvero immenso. Il Governo si adoperi subito per indennizzi e ristori a chi è stato colpito. Questa è la priorità assoluta», spara il segretario del Pd Zingaretti. «Non posso non esprimere stupore e sconcerto, anche a nome delle altre Regioni, per la decisione di bloccare la riapertura degli impianti sciistici a poche ore dalla annunciata e condivisa ripartenza», dice il presidente dell’Emilia-Romagna e della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini. Italia Viva (figurarsi) chiede “un cambio di passo”. E via così.

Tant’è che a un certo punto si diffonde l’opinione che la decisione sia stata presa dal ministro Speranza, da solo rinchiuso nella sua stanzetta e che loro non ne sapessero niente. Peccato che a metà giornata Palazzo Chigi (quindi Draghi) fa sapere all’Agi che la decisione sugli impianti sciistici è stata adottata in base alle informazioni fornite dal Cts e condivisa dal governo e dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Cioè la decisione è stata discussa con tutti i ministri e quindi si presume che i ministri abbiano avvisato i segretari del proprio partito e quindi si presume che sia tutta una posa, una finta sorpresa, un giochetto facile facile: questi fingeranno sempre di essere presi alla sprovvista perché appoggeranno il governo nella comoda posizione di chi comunque si sente un battitore libero. E continueranno a sparare cannonate perché Draghi potrà (forse) riuscire a tenere a bada i ministri e non i partiti, com’è normale che sia.

Ora capite perché la favola del “governo tecnico” è una bufala? Questi continueranno a fingere di passare di lì per caso, in Consiglio dei ministri, rimanendo stupiti tutte le volte, ognuno per proprio tornaconto elettorale. Il “governo dei sogni” è un governo che ha messo sul palcoscenico tutte le mediocrità, nessuna esclusa, e che rende facilissima la vita agli “oppositori interni”, quelli che sfasciano tutto per sentirsi vivi. Un capolavoro, insomma.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Quella sinistra che dice No a Draghi: così l’opposizione non è un’esclusiva di Giorgia Meloni

Da qualsiasi lato la si guardi, è un’ottima notizia che l’Assemblea nazionale di Sinistra Italiana abbia approvato a maggioranza la relazione del suo segretario Nicola Fratoianni per votare contro la fiducia al Governo Draghi, prendendosi la responsabilità di stare all’opposizione e di votare di volta in volta i provvedimenti che verranno valutati singolarmente.

È un’ottima notizia, almeno per chi crede ancora nel valore democratico del dibattito e dell’opposizione in un Parlamento che così largamente appoggia il governo e per chi non si lascia ammorbare dalle sirene di una politica appiattita sull’uomo solo al comando.

E, sia chiaro, è un gran bene anche per lo stesso Draghi, che potrà usufruire di un’opposizione che lo pungoli da entrambe le parti (Meloni a destra e Sinistra Italiana dall’altra parte) con due visioni completamente differenti.

Un governo “tecnico” nel senso di “non politico” non esiste, nonostante in questi giorni questa favola venga raccontata da più fonti e a più riprese. Soprattutto un governo che si ritrova a gestire una montagna di soldi che arrivano dall’Europa e si ritrova a dover decidere come spenderli: non c’è nulla di più politico del decidere le priorità e le fasce di popolazione da salvare.

Fino a ieri eravamo di fronte a un governo con una maggioranza di ministri di centrodestra (piaccia o no) e un’opposizione completamente delegata alla destra di Fratelli d’Italia. Oggi si può dire che il bilanciamento, almeno nell’opposizione, garantisce un equilibrio di voci.

Ieri Fratoianni ha pronunciato parole chiare: “Questo non è il governo dei migliori, è un governo più di destra e che rischia di portare indietro le lancette dell’orologio del Paese. Oggi più che mai dobbiamo proteggere chi è più debole dentro questa crisi”.

C’è qualcuno che contesta il fatto che comunque Sinistra Italiana abbia dichiarato di voler continuare a lavorare alla coalizione di centrosinistra: anche questo è speculare all’atteggiamento di Fratelli d’Italia nel centrodestra.

Poi ci sarebbe da discutere della decisione dei parlamentari (2 su 3) che hanno già comunicato che voteranno il Governo Draghi in contraddizione alle decisioni prese in maggioranza dal partito. Ma qui, ancora una volta, si ritorna alla scissione dell’atomo di una sinistra in cui ognuno sogna di essere una corrente.

Da amanti delle regole democratiche del Paese, comunque, che ci sia un po’ di sinistra all’opposizione, con un po’ di destra, è una buona notizia.

Leggi anche: 1. Donne del PD, ora basta: sfondiamo le porte che altrimenti resteranno chiuse (di Monica Cirinnà) / 2. Anche SuperMario avrà bisogno della signora Pina (di Roberto Bertoni)

L’articolo proviene da TPI.it qui

È che ci vorrebbero felici di essere schiavi

Il “rider felice”: un articolo de La Stampa – che si è basato su una notizia falsa – rivela una narrazione che colpevolizza i disoccupati alimentando pregiudizi

Ieri ha fatto molto discutere un articolo pubblicato da La Stampa, a firma di Antonella Boralevi, che racconta di tale Emiliano Zappalà, un rider felicissimo di essere rider, secondo Boralevi, che pedala per 100 km al giorno e guadagna come un manager dopo avere dovuto chiudere il suo studio da commercialista a causa dell’epidemia. Il sottotesto dell’articolo (in cui si attacca anche il reddito di cittadinanza) è in sostanza questo: se siete poveri è colpa vostra che non avete voglia di fare un cazzo perché il mondo del lavoro è pieno di grandi opportunità. Insomma, il solito articolo da libberisti (con due b) che vedono in giro un mondo perfetto e che tacciano coloro che rivendicano diritti come fastidiosi lagnosi.

“Si chiama Emiliano Zappalà, ha 35 anni. Aveva aperto uno studio di commercialista, il Covid gliel’ha fatto chiudere. E lui, invece di chiedere il reddito di cittadinanza, si è messo a lavorare. Dove? In uno dei settori che il Covid ha reso vincenti: la consegna a domicilio. Business raddoppiato in 10 mesi, come il numero degli addetti”, si legge nel pezzo di Boralevi. E già l’incipit è roba da orticaria. E poi: “Come racconta in un’intervista al Messaggero, da quasi un anno il Dottor Zappalà è un rider di Deliveroo. Cioè fa circa 100 chilometri al giorno in bicicletta, con un borsone giallo sulle spalle e consegna pizze e pranzi e spesa. Guadagna 2000 euro netti al mese e, certi mesi, anche 4000. Uno stipendio da manager. Ed è felice”. Felice, capito?

Il pezzo ovviamente è diventato subito combustibile per infiammare gli stomaci contro gli sfaticati che si lamentano e che non producono. Tutto perfettamente in linea con una certa narrazione che vorrebbe risolvere il problema della povertà e dei diritti del lavoro semplicemente negando. Se è felice Emiliano Zappalà dovremmo essere felici tutti. Ovvio. Ah, il grande sogno americano.

Peccato però che Emiliano Zappalà non esista e che quell’articolo sia completamente falso. E c’è da scommettere che tutti quelli che l’hanno rilanciato siano gli stessi che inorridiscono per le fake news in internet, ci metto la firma.

Emiliano Zappalà si chiama Emanuele (vabbè, ha solo sbagliato il nome, una giornalista, a proposito di meritocrazia e di cura nel proprio lavoro), ha studiato da commercialista ma non lo è mai diventato e quindi non ha mai aperto uno studio che quindi non è mai stato costretto a chiudere per la pandemia. Anzi i chilometri che percorre li macina su un motorino. Quindi si perde anche il culto dell’attività fisica, che peccato. Raggiunto da un giornalista de La fionda racconta di avere avuto mesi positivi, di lavorare molte ore al giorno e di guadagnare in media 1.600 euro al mese. Niente stipendio da manager, insomma. Anzi a voler indagare per bene si vede che proprio un Emiliano Zappalà risulta tra i firmatari del contratto siglato da Assodelivery e Ugl, un contratto che introdusse un “cottimo mascherato” e per questo è stato sconfessato e ritenuto illegittimo dallo stesso ministero del Lavoro. Tra l’altro, denunciano molti rider, “la sottoscrizione del contratto è stata utilizzata dalle aziende per ricattare più o meno velatamente i lavoratori: chi non firma, viene estromesso dalle piattaforme”. Insomma Zappalà è molto aziendalista, senza dubbio. E infatti dal suo profilo Linkedin rilancia con molto entusiasmo le comunicazioni aziendali di Deliveroo.

Quindi per l’ennesima volta la favola che avrebbe dovuto colpevolizzare i disoccupati si rivela semplice fuffa buona solo ad alimentare pregiudizi. Un bell’editoriale che si basa tutto su una notizia falsa e su una pregiudiziale narrazione a favore dello schiavismo felice. Perché loro ci vorrebbero così: mica solo schiavi, addirittura anche felici.

A proposito: “è un fatto o no?” chiedeva Antonella Boralevi in chiusura del suo saccente articolo. No, signora Boralevi. No.

Buon martedì.

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Ricchi che vorrebbero insegnare la povertà

Si è aperto il can can sulla patrimoniale. Da noi succede sempre così, quando si parla di uguaglianza e di ridistribuzione si fotografano tutti con la mano sul cuore e gli occhi stretti e dolci poi appena capiscono che ridistribuire significa tassare i ricchi si accende uno strano meccanismo: i ricchi convincono anche quelli che non sono ricchi di essere lì lì a un passo di diventarlo, i ricchi giocano a dipingere il loro mondo fatto solo di ricchi e così si alza una levata di scudi che fa spavento.

Si oppone la destra. Diciamocelo, ci sta. La destra difende la conservazione dei privilegi acquisiti negli anni ed è da sempre dalla parte dei ricchi, anzi la destra in Italia è stata per decenni un ricco evasore che incarna il sogno americano in versione panata milanese. Si oppone la presunta sinistra o meglio centrocentrocentrocentrosinistra. Ci sta anche questo: sono di destra sotto mentite spoglie da parecchio tempo ed è normale che la pensino così. Si oppongono quelli che non sono “né di destra né di sinistra” (che scientificamente sono sempre di destra): loro vogliono combattere la povertà senza disturbare nessuno, non hanno ancora capito che non è fattibile e che i diritti in economia sono un punto di equilibrio.

La favola che usano gli oppositori è che in fondo ognuno di noi, frugandosi nelle tasche e guardando bene nei cassetti, abbia un patrimonio di 500mila euro senza nemmeno saperlo. Fortissima la barzelletta delle case: “chi di voi non ha una casa o non ne ha ereditato una che vale almeno 500mila euro”? Peccato che qui si stia parlando di valore catastale dell’immobile e non di valore commerciale. Questo lo omettono. E bisogna dirlo a tutti, per bene, spiegarlo con attenzione. Badate: se qualcuno ha immobili per 500mila euro di valore catastale ha sicuramente lo 0,2% (1000 euro, eh, stiamo parlando di 1000 euro) per superare le disuguaglianze del Paese in cui vive. A proposito: il patrimonio è personale, ricordarselo bene.

Il fatto è che a furia di parlare molto confusamente di “tasse” (che sono il mezzo per ridistribuire la ricchezza) anche certa sinistra si è persa il vocabolario ed è finita a parlare come quegli altri. Notate bene: quelli che si oppongono alla patrimoniale sono gli stessi che tasserebbero di più i dipendenti pubblici, che tasserebbero di più lo smart working perché lo definiscono fin troppo comodo, sono gli stessi che dicono che non vanno tassati i ricchi.

Chi guadagna di più deve pagare di più? La domanda semplice semplice è questa. A ognuno la sua risposta. Ma che i ricchi ci insegnino la povertà è qualcosa di ferocemente patetico. Un po’ come quelli di destra che dicono alla sinistra come deve fare la sinistra. Una cosa così.

Buon martedì.

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Altro che trionfo di Biden. Ancora una volta sondaggi e opinionisti hanno toppato alla grande

È ancora una volta la sconfitta della bolla. Le elezioni Usa non hanno ancora un risultato finale, ci vorrà tempo per contare tutti i voti per posta, ma l’onda blu che per mesi molti media si sono prodigati a descrivere non è sicuramente arrivata, chiunque risulti vincitore. Ed è l’ennesima lezione di un certo modo di vedere la politica, soprattutto quella degli altri, con gli occhi e con gli algoritmi di chi ci sta intorno, come se tutte le bizzarre uscite di Trump, quelle che anche molti giornali qui da noi hanno riportato con tanto clamore, fossero davvero delle irresponsabili fanfare e invece non avessero una solida base elettorale a cui parlare, da convincere, da sostenere e da cui essere sostenuti.

Accade nella politica ma accade così un po’ dappertutto: forse anche per il funzionamento stesso dei social siamo portati a convincerci che ciò che riteniamo assolutamente ragionevole sia un senso comune accettato e condiviso, ci convinciamo che la gravità che noi osserviamo in certi ragionamenti e in certi atteggiamenti sia un pensiero popolare e consideriamo gli avversari politici semplicemente una minoranza che verrà smentita dai numeri e dagli eventi.

E invece non solo non è così ma negli Usa, basta dare un’occhiata ai social, già ci sono quelli che raccontano di tentativi da parte dei democratici di manipolare le elezioni, Trump (dopo avere negato che l’avrebbe fatto) si è già dichiarato vincitore paventando già possibili brogli, l’enorme vantaggio che certi sondaggi davano a Biden è una favola che si è schiantata con questi primi risultati. Ed è una lezione politica ma è anche una lezione di giornalismo e di atteggiamento sociale: la sicumera non porta mai bene in politica, è un terreno scivoloso in cui si sono incagliati grandi firme e quello che non piace a noi (così come quello che ci piace moltissimo) non è per forza la linea di pensiero generale. Queste elezioni Usa ce lo dicono ancora una volta, comunque finirà.

E se è vero che i candidati hanno tra i propri doveri di propaganda quello di apparire certi del proprio risultato, non si capisce perché i media debbano stare al loro gioco. Ora si contano i voti, uno dopo l’altro, quelli decisivi, ma la storia che arriva dalle elezioni presidenziali americane è già molto diversa rispetto alla narrazione che avevamo ascoltato fin qui. Chissà se qualcuno, una volta tanto, confesserà di essersi fatto prendere un po’ troppo la mano.

Leggi anche: 1. Elezioni Usa. La diretta con i risultati / 2. Usa 2020 on the road: viaggio nell’America al voto

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Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

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I ladri di spranghe e biscotti

Caro piccolo Mario,

questa sera la favola al telefono te la racconto di un paese lontano.

E siccome c’è un cielo che piove malinconia te la racconto all’incontrario.

Di quelle storie che non sai mai se la stai ascoltando  di diritto o di rovescio;

quelle storie che per capirle bisogna prenderle per i piedi e guardarle a testa in giù.

Dentro, come una favola che si rispetti,

c’è la squadra dei buoni e dei cattivi,

come nelle favole quelle semplici semplici, rassicuranti, banali, semplicistiche e politicizzabili.

La favola esiste da tantissimi anni,

da quando in casa alla sera si accendeva la candela

e per strada ad andar veloce si pedalava in bicicletta.

Questa storia da tre soldi , caro Mario,

ha tanti di quegli anni

che nessuna si ricorda chi per primo la inventò;

Se furono i nonni dei tuoi nonni

o qualche tizio roccoccò;

questa storia è così vecchia

che a fare il giro in tutto il mondo

non si trova nessun bimbo, babbo o nonno

che non l’abbia mai sentita,

neanche in Cina, in Argentina,

perfino in Africa o Indonesia.

È una favola leggera, senza morale

da ingarbuglio intestinale

che ad ascoltarla a tarda sera

scaccia via la paura nera.

È una favola banale,

di quelle buone per il giornale,

che partono partono in sottofondo,

ma poi fan sparlare a tuttotondo.

Ma è una storia che funziona,

di quelle che resiston come suole

perché ognuno ci ritrova

giusto quello che ci vuole.

Te la dico in tre parole,

prima che si abbassi il sole,

prima che il mio bambino

si prepari al pisolino:

“c’è un cattivo nero nero,

che ruba vero e di nascosto

il cestino al buono vero.

  • Io ti ho visto! – grida il buono

E da cattivo va  a rincorrere

Il mariuolo che soccombe.

  • Era Piero! – urlan questi,
  • No è Mario! Il cugino del fornaio! –  urlan quelli.

E la gente sulla piazza,

via si spinge e poi si accalca,

su quell’uomo moribondo

cattivo in cima e cattivo in fondo,

mentre l’altro che da buono,

pian pianino è diventato

un cattivo che era buono,

sotto sotto non ricorda

perché comincia quella ronda.”

(Una favola scritta nel 2001 o giù di lì. Mi è uscita stamattina da un cassetto.)

E perché il bello dei paesaggi, delle persone, delle storie, delle favole, sono i dettagli. Non le definizioni.

E insomma, amore mio, tutto questo preambolo solo per spiegarti perché in queste sere, verso la fine delle favole, mi senti un po’ tentennante. E perché quando ti racconto Cappuccetto Rosso invento sempre una fine diversa: una volta il Lupo si pente e va a comprare il vino per pranzare con la bimba e la nonna, l’altra volta scappa spaventato dal cacciatore e va al Club dei Lupi Pentiti, un’altra ancora corre dalla mamma di Cappuccetto per prendere lezioni di cucina perché i dolcetti gli sono piaciuti tanto. 
 
Perché il primo modo per non perdere la speranza è credere che le persone possano sempre cambiare.
 
Perché pensando in bianco e nero vivi male e ti perdi tutte le sfumature. 
 
Perché quando ti capiterà di metterti nei panni degli altri ti renderai conto di quante cose inaspettate riuscirai a vedere. E probabilmente ti divertirai.
 
Perché sicuramente incontrerai tanti Cappuccetti Rossi e tanti Lupi, ma altrettanto sicuramente non saranno tutti perfettamente buoni o perfettamente cattivi. E spesso sarà bello cercare in loro la crepa nella quale sta spuntando l’erba.
 
E perché il bello dei paesaggi, delle persone, delle storie, delle favole, sono i dettagli. Non le definizioni.
Una favola della buona notte dal blog ‘bellezza rara’ che vale tanto anche in pieno giorno. Sotto questo sole verticale e caldo. E che è un programma politico (del partito della bellezza) mentre tutti urlano le definizioni e si perdono i dettagli.

Una favola equa e solidale: Tetiteatro e un chicco di caffè

In una settimana non facile una favola per smaltire la domenica con dolcezza. E’ di qualche anno fa. Scritta per alcune associazioni di commercio equosolidale aveva in scena un chicco di caffè sul palcoscenico di un teatro di pochi centimetri. E questo audio in sottofondo.

TETITEATRO E UN CHICCO DI CAFFE’

Diario di Iuta. 31 Dicembre.

 

Piove.

Piove e fa un freddo cane,

e per il freddo ci si incolla tutti e tra noi e al sacco che sembra che il cuore sia stato inscatolato in una confezione di pochicentimetritroppostretta.

Fa un freddo cane mamma qui sul camion, e l’umidità mi fa perdere il colore e l’allegria.

Ma rido.

Porcapannocchia come rido.

Perchè aveva ragione il nonno che fuori dal campo il mondo è sbilenco, e aveva ragione a dire che staccarsi dalla pianta è poi come entrare in un gran casinò perchè di tipi strani è pieno il mondo.

Il trattamento è ottimo, ci si è fatti tutti un po’ di viaggi in giro per il mondo, non si capisce perchè qui quasi ogni giorno il tour operator ci cambia guida e tutte che si urlano in faccia quandi ci lasciano dalla vecchia alla nuova.

Ma qui mamma gli uomini mi dicono che sono fatti così.

Parlano sempre più veloci di quanto pensino e stanno zitti solo a mangiare, bere o quando si inebetisticono.

Ma non preoccuparti il viaggio è proprio come c’era scritto sul depliant e io mi sto divertendo e poi almeno a noi non provano sul camion a venderci le pentole.

E poi ho conosciuto tanti chicchi ed è come essere una grande famiglia : spazio troppo stretto, piena condivisione delle buche sulla strada, delle nevrosi e degli odori.

Proprio come una grande famiglia.

E poi il camion su cui viaggiamo deve essere proprio un’invenzione genialiode di uno di questi uomini ; perchè anchese da fuori sembrauna casseruola da cotechino con le ruote arrugginita da una marea secolare…

beh….

ti devo dire che davvero l’apparenza inganna,

perchè anche se non ne hai la sensazione

(e qui nella iuta di sensazioni haiquelle dei piedi tuoi sulla testa di qualcun’altro e della polvere che si attacca all’umore e sulle pareti interne delle vene),

beh a parte l’aspetto

(ma deve essere un trucco perchè questi uomini truccanomicamale, che proprio ieri quello che ci ha preso ha convinto chiciha dato che eravamo bassoprodottodalavorazionisecondarie e poi ci ha dato ad un altro dicendogli di aromisaporigustodiprima, e io ti giuro che ho controllato (io personalmente con i piedi al buio di spago della iuta) eravamo sempre solo noi sempre gli stessi chicchi di caffè….

urlandosi a dueedue in faccia,

Come sempre che deve essere la loro buoneducazione.

E ti dicevo che beh, sto camion da zampone viaggia così veloce che va più veloce della clessidra delle stagioni.

In questi giorni ho visto ESTATEAUTUNNOINVERNOPRIMAVERAEPOIANCORAESTATE tutto di seguito di fila, come fossero una collana.

E’ geniale sta casseruola rotante…..

Anche perchè qui volano tutti via di testa per qusta cosa della velocità…

ed è sempre tutto con l’affanno di fare prima,

e si scontrano, si intercanoschiantano e sudano, sbaglianoritornano  s’intristiscono e si schiantano : ma sono felici lo stesso perchè l’hanno fatto veloce.

l’hanno fatto prima.

di cosa e chi non si capisce.non lo sanno neanche loro e non è importante.

Ma basta poco agli uomini per essere felici.

Di fianco a me c’è  uno che ne conosce di gente che ha fatto di questi viaggi : è parente della Rubiaccia quellla che sta sulla pianta dell’angolo sinistro, e che tu mi dici sempre che sono gente da giramondo.

Lui dice che dei suoi cugini gli hanno raccontato che  tra poco ci si mette tutti a prendere il sole proprio come dei gran pascià….e si entra in una specie di ottovolante.

E poi si riparte via…. belli abbronzati.

L’unica pecca è che mi sa che ci verrà una sete assassina, ma non si può mica pretendere tutto dalla vita………..

Non si seguono mica le stagioni come da noi qui fuori…

Immagina il mondo come  un prato steso su una palla da biliardo pieno di girasoli in tilt e con le gambe, come se gli proiettassero sulla cartadaforno del cielo soli all’impazzata, e d’inverno impermeabilizzano le bucce, d’estate  costeggiano le acque tutti in file da vitigni, d’autunno aprono  fiori finti incatramati, ma non le sentono mica per nient’altro le stagioni, mica come noi……e perchè porcapannocchia loro devono arrivarci prima delle stagioni (per quel loro strano virus…).

E così devono aver costruito cunicoli con magazzini glaciali, e d’estate mangiano pere e d’inverno le pesche .

E sono felici…..

Contenti loro, mamma….

Quacluno nel sacco dice che faremo una brutta fine, i più pessimisti raccontano di fratelli finti nelle moke smacchiatenonpefettamente dei bar di paese con la puzza di ms apiccicata ai muri, un arabico dell’altro sacco ha raccontato che i più sfortunati è capitato di finire invece nelle rosticcerie lussuose con i sorrisi di bigiotteria in centro e che vengono venduti a signore con capelli come impalcature e cotonati come campi di subbuteo.

Ma io mamma continuo a credere che questi siano accompagnatori di parola.

Anche perchè tra noi e loro ce l’hanno solo loro……la parola…porcapannocchia.

Pensa che addirittura un pazzo, un chicco che deve aver preso troppa ombra scrive lettere di carta di riso ad un compagno che racconta di essere diventato macchia e che abita sulla camicetta di una vecchina di gesso in inghilterra : e racconta dei campi verdi, di un clima ottimo, tranne qualche saponetta all’anice e smacchiatore al latte dimandorla e oliodifagiolo.

Porcapannocchia come rido….mamma.

E poi le mani, tu mi hai sempre detto di annusare come ti si mette la vita dalle mani : quando ci hanno staccato dal campo, già ti avevo scritto che quelle mani, sembrava di essere imbevuti in un abbraccio di cartavetrata, e poi le manciate, che arrivano sempre all’improvviso, quando nessuno nella iuta se lo aspetta, mentre tra noi si improvvisa almeno un tresette o un reteforbicesasso quelle mani, sono sempre più sudaticce, e grassoccie, perchè ho scoperto, che qui che è tutto prima, non si è mica tutti nello stesso campo, qualcuno ce l’ha nuovo appena scartato e agghindato come fosse un asciugamano da spiaggia trilocale più balcone, e alcuni altri ci nascono senza campo, e devono andarsi a ritirare, o strappare come ladri gli avanzi dei campi degli altri, ed è per quello che che diceva il nonno, tutto sembra fatto e cucito male, come un arlecchino che ha stracci morti e stracci di platino.

Come sono sbilenchi qui fuori mamma,e io perdo il colore e rido, e i ricchi sono sempre più maturi, sudaticci e urlano sempre più forti, non hanno il senso della misura, e chi ha fame non ha nemmeno da bere, nè il sole e nè un pizzico di allegria : anche i poveri qui fuori non hanno il senso della misura.

E porca pannocchia come rido.

Ma preparatevi, perchè quando torno lì da noi non sarà più niente come prima, perchè ho imparato cose, a girare questo mondo sguincio, e niente nel nostro campo sarà più come prima : ho imparato come attaccarsi di sforo al gambo e le radici dei vicini senza dover più pagare la bolletta all’acqua, ho imparato come sedersi all’ombra degli altri quando il sole gli brucia anche i sentimenti, e ho imparato ìa montare impalcature di sforo in gran velocità per andarcelo a prendere il sole, intrecciando gli altri come cestini di vimini, in quelle notti in cui l’umidità e la notte ti bollono a freddo il cuore, e ho imparato che nel campo piuttosto che tutti meglio pochi e grassocci : e l’importante è capirlo prima, e appena torno ci arriveremo prima.

E vedrai come staremo bene allora, e come sarà dal volare via dal ridere urlarci in faccia.

Domani è l’anno prossimo, e qui sono tutti a preparare tavoli apparecchiati con  piatti che hanno dentro cibi che di notte sembrano fluorescenti che nemmeno nei film di superman e apparecchiati così unti e lunghi di vino, cioccolato e tristezza che ho già l’acquolina in bocca….

E il mondo si è fermato con il dito sul tappo di spumante che puzza di porti arrugginiti, perchè chi arriva veloce e prima a capodanno è un po’ prima tutto l’anno, e loro sai sono felici con poco.

Pensa che i più furbi sono già sei sette mesi che sono lì in posizione di sparo capodannifero bollicinoso, e mi raccontano che villaggi interi stanno lì immobili, e le macchine in mezzo immobili alla strada, e le donne ferme con mezzo lenzuolo e una molletta, e bambini così, con il pallone sul piede che sarà sicuramente per il prossimo anno sicuramentegoal, il primo dell’anno, e i musicisti con il la maggiore già pronto : per sei sette mesi, così si arriva prima all’anno nuovo e la tristezza di quest’ultimo cade in prescrizione ed è come non averlo mai vissuto…

E porcapannocchia che ridere mamma….

E intanto continuamo a camionare…

e mentre ti scrivo

ci sono buche qui sotto,

che di rimbalzo ti ritrovi sotto la lingua il cuore.

E qui dentro al sacco,

c’è un odore che sembra di essere nei bagni pubblici

di caffè.

Se per caso domani che è l’anno prossimo dovessi arrivare dopo,

mamma,

raccomanda agli altri di gustarsi il più possibile il sole,

che qui fuori puzza di ammorbidente e plastica bruciata,

di guardarsi bene in faccia,

perchè qui c’è tanto di quel fuomo o nebbia che in pochi giorni si ciolgono

e diventano facce da carri di carnevale

e la voce un lamento elettronico.

Divertirsi con gli spaghi che vi accarezzano la sera,

perchè quelli di qui perdono ferro marcio e hanno il morso in bocca,

e raccomanda di ascoltare e ascoltarsi,

qui la voce la zittiscono i tonfi

di sacchi che

dentro alla fine ci diventiamo tutti sassi,

raccomandati di mettersi in tasca prima di partire

una bottiglietta della vostra aria,

qui quella che c’è esce dai tombini e puzza di

monete di resto al mercato nero.

Ma non preoccuparti mamma,

se fuori è così,

io non voglio essere moderno

potendo scegliere preferirei essere eterno.

E chiedi scusa alle pannocchie.