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ferruccio de bortoli

Boschi-Ghizzoni? De Bortoli aveva ragione

Non serve nemmeno il commento:

«B. Etruria: Ghizzoni, Boschi mi chiese su possibile intervento ma no pressioni (Il Sole 24 Ore Radiocor Plus) – Roma, 20 dic – In un incontro avuto il 12 dicembre ‘il ministro Boschi mi chiese se era pensabile per Unicredit un intervento su Banca Etruria. Risposi che per acquisizioni non ero grado di dare risposta positiva o negativa ma che avevamo gia’ avuto contatto con la banca e che avremmo dato risposta. Cosa su cui il ministro convenne. Fu un colloquio cordiale e non avvertii pressioni da parte del ministro’. Lo ha detto Federico Ghizzoni, ex amministratore delegato di Unicredit, nel corso dell’audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario.»

Qui quello che aveva detto la Boschi:

Comunicazione di servizio: la Boschi non ha querelato De Bortoli su Banca Etruria

Tanto per ricordarselo, anche in pieno agosto. Ne scrive l’HP:

Maria Elena Boschi ha deposto l’ascia di guerra (giudiziaria) contro Ferruccio De Bortoli. “La misura è colma, se ne occuperanno i miei legali” diceva lo scorso 10 maggio la sottosegretaria alla Presidenza, commentando le rivelazioni contenute nel libro dell’ex direttore del Corriere della Sera sul caso Banca Etruria.

De Bortoli scrive su “Poteri forti (o quasi)” che la Boschi fece pressioni sull’ex numero uno di Unicredit, Federico Ghizzoni, per salvare la Banca Popolare dell’Etruria, di cui il padre della sottosegretaria è stato per alcuni mesi vice presidente. Ghizzoni non ha mai confermato né smentito e attende una convocazione in audizione in Parlamento, la costituzione di una commissione parlamentare sulle banche slitta e difficilmente si farà in tempo a farla nascere prima della fine della legislatura.

Boschi aveva affidato a due avvocati di grido come Vincenzo Zeno Zencovich e Paola Severino la sua tutela legale: è tuttavia scaduto, scrive il Fatto Quotidiano, il termine per la denuncia penale per diffamazione a mezzo stampa. Per chiedere i danni in sede civile, c’è invece ancora tempo.

«Sul cavallo bianco»: il ricordo di Tiziano Terzani. Di Ferruccio De Bortoli.

(il testo che Ferruccio de Bortoli dedicò alla memoria di Tiziano Terzani sul Corriere della Sera del 30 luglio 2004)

«Ho visto che c’ è un bel posto sotto il mio albergo, vagamente orientale, prendiamoci un tè..». Tiziano Terzani non veniva volentieri a Milano. Ma quella volta, due anni fa, doveva presentare Lettere contro la guerra, edito da Longanesi, il libro che raccoglieva i suoi articoli apparsi sul Corriere. Si rifugiava al Manin, con la vista sui Giardini Pubblici. Era una giornata buia con una pioggia sottile e sporca. Telefonò poco prima dell’ appuntamento, la voce un po’ turbata. «Senti, non vediamoci in quel posto, servono dell’ orrendo sushi, c’ è una musica soffusa ma infernale, tanti ragazzi incravattati…».

Terzani amava l’Oriente ma non conosceva i posti orientali alla moda, né il rito dell’ happy hour. Scegliemmo il bar dell’albergo.

Terzani si presentò in un completo bianco di maestosa bellezza, con i capelli raccolti dietro la nuca, la barba curatissima. Un’eleganza persino civettuola. Un vestito di ottimo taglio, lacci al posto dei bottoni, revers arrotondati. L’ abito doveva essere in armonia con il corpo e con l’ ambiente. Un lampo di luce in un interno milanese.

Nel dolore per la morte di un collega e di un amico mi vengono in mente i passi del suo ultimo libro Un altro giro di giostra, in cui racconta la sua lotta contro il cancro. «Mi parve che tutta la mia vita fosse stata una giostra, fin dall’ inizio mi era toccato il cavallo bianco e su quello avevo girato e dondolato a piacimento, senza che mai, mai qualcuno fosse venuto a chiedermi se avevo il biglietto». Terzani non aveva, come tutti, il biglietto. «Bene, ora passava il controllore, pagavo il dovuto e, se mi andava bene, riuscivo a fare un altro giro di giostra».

Quell’ arrivo non fu improvviso, gli era stato anticipato e lui ne aveva scritto in Un indovino mi disse. Uno degli indovini, capaci di leggere il riassunto di una vita su una foglia ingiallita, Raimanickam di Singapore, gli aveva predetto che fra i cinquantanove e i sessantadue anni, avrebbe dovuto superare una «strettoia», forse un’operazione; che insomma qualcuno gli avrebbe chiesto il biglietto.

Quando arriva a New York per farsi curare, pieno di nostalgia per la quiete himalayana, Terzani va da un barbiere e gli chiede di raparlo a zero. Il barbiere si rifiuta. «Ci ripensi, non vorrei che domani tornasse e mi incendiasse il negozio». Tiziano lo convince, ma non a tagliargli i baffi. Troppo belli. Se li taglierà da solo. Aveva deciso di farseli crescere quando aveva perso una scommessa su Nixon: lui pensava che non sarebbe mai stato eletto. A New York lascia le sue bellissime vesti orientali ed entra in un negozio di abbigliamento Duffy’s cheap clothes for millionaires, dove compra due tute da ginnastica e due berretti di lana.

Quando esce incontra un vecchio amico e collega, che non lo riconosce. È l’unica volta in cui, credo, si sarà sentito a suo agio, nei nuovi vestiti. Il viaggio nella malattia è uno splendido viaggio nella vita, «nel bene e nel male del nostro tempo». Uno strano paziente, Terzani. «You wait, you die», gli dice una premurosa dottoressa «Tu aspetti, tu muori».

Lui si chiede perché nella cura del cancro si usi un’inutile terminologia bellica. Il nemico da combattere? Non è meglio considerarlo parte di noi? Un monaco buddista vietnamita gli aveva consigliato anni prima: «Ogni mattina, appena sveglio, dica qualcosa di gentile al suo cuore e al suo stomaco. Dopotutto molto dipende da loro». Il viaggio è lungo. Nelle cure, nelle medicine e nelle culture del mondo. Dalla chemioterapia all’omeopatia, all’ ayurveda, al qi gong, discipline tibetane, cinesi. «Lei che cosa fa nella vita, dottor Terzani?». «Il malato esperto».

Poi, il viaggio finisce con un’ operazione. Un chirurgo che apre e richiude. «Il miglior medico è dentro di noi». Sarà stato il migliore, ma non ce l’ ha fatta.

Il tè a Milano. Tiziano aprì la bustina di Twining’ s con un certo fastidio e forse disgusto. Il male era dentro di lui, ma lui l’ aveva accolto sorridendo. Sorrideva, scherzava. Come se anche in quel posto si fosse sentito in armonia con l’ universo. Come fosse stato seduto sui talloni ad occhi chiusi. In meditazione. Poteva essere lì come nel suo rifugio a tremila metri.

«L’ indirizzo email è sempre lo stesso?». «Sì». Nemo Nessuni. Bellissimo. Pensavo fosse il suo modo originale di nascondersi. La ragione vera l’avrei scoperta leggendo l’ ultimo libro. Quando Terzani si ritira, tra una cura e l’ altra, a studiare un po’ di sanscrito in un ashram decide di chiamarsi Anam, il senza nome. «Un nome appropriatissimo, mi parve per concludere una vita tutta spesa a cercare di farmene uno».

Al momento di lasciarci mi regalò un piccolo fossile. Lo strinse in un pugno e poi me lo passò. «Conservalo, tienilo vicino». Forse quel sasso è come la foglia ingiallita dell’indovino. Peccato non saperlo leggere.

L’aspetto più inquietante che ci svela De Bortoli è un altro

Tra le rivelazioni di De Bortoli nel suo ultimo libro ce n’è una che mi fa sobbalzare ben di più della ministra Boschi che cerca di salvare il padre ed è il racconto che ci fa dell’incontro tra Matteo Renzi (che era Presidente del Consiglio, in quell’occasione) e il giornalista Marco Galluzzo del Corriere della Sera. Se Renzi non fosse stato Renzi, se un Presidente del Consiglio avesse (o avesse millantato) sventolato i servizi segreti come minaccia in faccia a un giornalista sarebbe successo il finimondo. E invece niente.

«Al telefono, Galluzzo mi spiegò di essere stato avvicinato dalla scorta del premier che gli aveva intimato di lasciare subito l’ albergo. Questo il suo racconto: “Mi avvicinai al tavolo del ristorante dove cenava, nella terrazza dell’ albergo, con la moglie e i figli. Mi fu possibile solo salutarlo e per un attimo stringergli la mano, poi cominciò a gridare, lasciando di stucco i tavoli degli altri ospiti, gruppi francesi, tedeschi e russi. E anche Agnese, che mi rivolse uno sguardo di comprensione, quasi di vergogna. Gridava talmente forte, inveendo contro il Corriere che invadeva la sua privacy, che la scorta accorse come se lui fosse in pericolo. Venni anche strattonato. Dovetti alzare la voce per dire al caposcorta di non permettersi. Lui reagì minacciandomi. Mi disse che tutta la mia giornata era stata monitorata, dal momento in cui avevo prenotato una camera nello stesso albergo, e che di me sapevano tutto, anche con sgradevoli riferimenti, millantati o meno conta poco, alla mia vita privata”. Insomma, intollerabile. Se Berlusconi avesse fatto una cosa simile saremmo tutti insorti».

Ferruccio de Bortoli, “Poteri forti (o quasi)”

“Una stampa che frequenta troppo i palazzi e poco il popolo”: parla De Bortoli

(intervista di Silvia Truzzi per Il Fatto Quotidiano)

A Milano, la città del Sì, parliamo della vittoria del No con Ferruccio de Bortoli, che alla riforma si era pubblicamente opposto. È il giorno dell’incarico a Gentiloni: “È stato un buon ministro degli Esteri”, spiega l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore. “Dovrà però dimostrare di essere autonomo da Renzi, il leader che lo ‘tolse dal frigorifero’ mandandolo alla Farnesina. Da lui ci si aspetta subito qualche gesto di discontinuità, anche nella composizione del governo, che rafforzi il suo profilo istituzionale, la sua credibilità anche all’estero. Vedremo, per esempio, se Luca Lotti resterà sottosegretario”.

Perché è così importante se resta o no?
Ai renziani preme molto gestire la prossima tornata di nomine delle imprese pubbliche. Accelerarono la caduta di Letta, nel 2014, anche per questa ragione. Due piani paralleli di governo, con quello ombra gestito dal segretario del Pd, sarebbero dannosi per il Paese. Avremmo il cerchio magico con il suo potere intatto e il governo ridotto a un cerchio inutile. Ma penso che Gentiloni ci stupirà in positivo. E Mattarella gli darà sicuramente una mano preziosa.

Veniamo al referendum. Come legge l’esito del voto?
Dalle urne esce un solo perdente. E nessun vincitore. Il centrodestra ha ricevuto un balsamo che gli consentirà di lenire i propri mali e che coprirà per un certo periodo l’assoluta inconcludenza di idee e programmi. Il vero perdente è Renzi che ha voluto caricare questa consultazione di significati impropri, trasformando il referendum in un voto politico. L’alta affluenza ci dice che questo Paese tiene molto alla partecipazione democratica: è stata una grande lezione civica. Il 40% non appartiene a Renzi come il 60 non appartiene all’opposizione”.

Così non sembra pensare il segretario del Pd.
Questo dimostra che il referendum, nel suo modo di pensare, aveva valenze che andavano al di là del merito. Era uno strumento per affermare il proprio potere, ottenere un viatico popolare, fare un bottino pieno e poi andare a incassare il premio alle elezioni. Renzi ha sbagliato la campagna elettorale, piegando la legge di bilancio a una serie di consensi da comprare per categorie. Chi votava No era contro la stabilità perché avrebbe esposto il Paese a conseguenze sui mercati che non ci sono state. Chi votava No era per l’immobilismo e rifiutava le riforme: possiamo dire che il 60 per cento di coloro che hanno votato – 33 milioni di italiani – rifiuta le riforme? No, possiamo dire che vuole riforme diverse da questa. Perché, bisogna dirlo, era scritta e pensata male. La grande partecipazione è anche il grido di un’Italia che vuole scegliere i propri rappresentanti e crede nella democrazia.

Renzi ha fatto, da premier, una campagna tutta incentrata sull’antipolitica: una clamorosa contraddizione.
Non si è reso conto che dopo quasi tre anni di governo era lui il potere: non doveva usare i toni anticasta di Beppe Grillo. Così come ora non si può mettere nella stessa posizione del Movimento Cinque stelle e dire “si vada al voto subito”. È una dimostrazione di scarsa responsabilità istituzionale. Ha pagato l’abbraccio soffocante dell’establishment che trasmetteva agli altri – in particolare agli esclusi – l’idea che questa fosse l’ultima spiaggia e che con la vittoria del No saremmo scivolati nel Medioevo. Si è sottovalutato il fatto che la democrazia è cara agli italiani e la riforma, con l’Italicum, indeboliva la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Sono favorevole a una democrazia decidente, ma i contrappesi nella riforma erano soltanto promessi. È stato un errore non approvare prima la riforma dell’articolo 49 della Costituzione. Il messaggio sarebbe stato: il partito che chiede agli elettori di cambiare le regole che li riguardano prima cambia le proprie, diventando più democratico e trasparente.

Nel 2006 abbiamo votato una riforma costituzionale che in comune con questa aveva molti tratti ed è stata sonoramente bocciata. Perché a distanza di dieci anni si è voluto ignorare quel risultato? Smetteranno di usare la Carta come grimaldello?
Bisogna sempre parlare della qualità delle riforme, chiedersi se rispondono a un progetto coerente ed equilibrato. Quel che non si può fare è piegare le regole comuni e le dinamiche istituzionali agli interessi di parte. C’è stata un’eccessiva confusione tra governo e Parlamento. La nostra storia politica dimostra – penso all’atteggiamento dei democristiani durante la Prima Repubblica – che quando si trattava di regole condivise il governo, saggiamente, faceva un passo indietro. Renzi si è impossessato totalmente della proposta di revisione costituzionale: agli occhi degli italiani la riforma è diventata la sua proposta. Perché la maggioranza ha chiesto il referendum, raccogliendo anche le firme? Poteva non farlo. Sarebbe utile che adesso arrivasse un’autocritica su tutti i comportamenti che abbiamo elencato. Invece no: assistiamo ad atteggiamenti indispettiti, “Fatele voi del 60 per cento le riforme”. Ma attenzione: in quel 60 per cento ci sono anche elettori del Pd e certamente elettori di una sinistra più larga. Renzi nella sua bulimia, in quella visione tolemaica del potere per cui tutto ruota attorno a lui, ha preso in ostaggio la riforma che avrebbe dovuto consacrarlo e quindi le istituzioni che doveva servire. E’ stata inferta una ferita inutile al Paese che però si è dimostrato più saggio della propria classe dirigente. Criminalizzare il No come fosse una posizione irresponsabile si è rivelato un autogol. Abbiamo perso tempo, ma non è stato a causa del no.

La logica sembra essere: avete vinto voi, ora sono fatti vostri.
È troppo comodo così… Andiamo con ordine: questa sconfitta può fare bene a Renzi, cui si devono riconoscere delle qualità. È un grande comunicatore, un politico di razza, un innovatore. Gli vanno riconosciuti anche successi: l’attenzione ai diritti civili, il Jobs act, con un dubbio legittimo sui costi, la per ora solo annunciata riforma del terzo settore, le politiche per la povertà. Per Renzi questa è l’occasione di guardarsi allo specchio, riconoscere i propri errori, essere sincero. Può dimostrare di essere – se lo è – uno statista. Può farlo stando in seconda fila, anche favorendo la nascita di un governo che per forza deve avere un mandato pieno e una fiducia non a scadenza. Senza la tentazione di dirigerlo nei fatti, con una playstation dal Nazareno. Nel ’95, dopo l’abbandono di Bossi, Berlusconi favorì il governo tecnico di Lamberto Dini, che era stato il suo ministro del Tesoro, mostrando senso di responsabilità istituzionale. Lo ebbe Berlusconi, perché non dovrebbe averlo Renzi? Deve capire che ora non è al centro della scena: ha guidato un’auto – quella italiana che magari ha le gomme sgonfie, ma non il motore inceppato – ed è uscito di strada. Ora non può dire “me ne vado, è colpa vostra”. La colpa è sua, lui ha fatto sbandare l’auto. Ora si deve dar da fare per rimettere a posto le cose, anche perché è il segretario del Pd. Il nuovo governo dovrà essere sostenuto dal partito, che dovrà essere leale al contrario di ciò che fu fatto ai tempi dell’esecutivo Letta a causa di un disegno completamente personale.

Ha perso anche il Presidente emerito Napolitano?
Napolitano creduto alla promessa fatta da Renzi al momento dell’incarico. Aveva accettato il secondo mandato chiedendo a gran voce che il progetto di riforma procedesse. Negli ultimi tempi credo fosse indispettito dall’atteggiamento di Renzi, soprattutto dalla polemica sterile e costosa nei confronti dell’Europa, quello sventolare veti poche settimane dopo Ventotene. Una sceneggiata estiva.

Perché sterile?
Sui migranti il premier aveva ragione. L’Europa si è dimostrata miope ed egoista. Ma sulla finanza pubblica io credo che invece abbia sbagliato. La flessibilità è stata usata male, guardando al consenso più che alla crescita. Sono scese solo le spese per gli interessi, le altre sono aumentate. La regola del debito è stata dimenticata. Ne parlano gli stranieri, noi la ignoriamo. Lodevoli le scelte sul super ammortamento, su industria 4.0, la riduzione al 24 per cento delle tassazione delle imprese. Ma abbiamo messo in pericolo i conti pubblici per una crescita che, al netto degli aiuti della Bce, è modesta: questa è una verità che bisogna affermare con chiarezza. C’è stato un dibattito opaco e insufficiente sulla funzionalità delle misure economiche prese. Solo nell’ultima legge di bilancio c’è stata attenzione agli investimenti che hanno toccato il minimo storico rispetto al Pil. Il guaio è che gli investimenti, a differenza dei bonus, non danno risultati immediati in termini di consenso perché dispiegano il loro effetto in tempi lunghi.

Renzi ha 42 anni: non è paradossale la sua assenza di prospettiva? Dovrebbe avere uno sguardo lungo e costruttivo proprio in virtù della sua giovinezza.
Qui rileva la visione del potere: quella di Renzi è esclusiva ed escludente, come ha sostenuto Prodi. Di cui vorrei dire, per inciso: il suo Sì è stato il più forte No a Renzi. Giustificato in tal modo da mettere a nudo i limiti di una gestione vecchia del potere. Penso al cerchio magico, ai fedelissimi, a quella che chiamerò “consorteria toscana”, per citare Ernesto Galli Della Loggia. Al premier ho sempre contestato non le idee, ma il modo di gestire il potere a tratti perfino gretto. La vicenda delle banche è emblematica. Prendiamo Mps: arriviamo ora a un intervento di salvataggio dello Stato, che poteva essere fatto mesi fa, escluso solo per ragioni di calcolo politico. La saggezza e il senso delle istituzioni avrebbero dovuto suggerire di agire ben prima. Ora se le banche vengono salvate, giustamente, con soldi pubblici, possiamo chiedere la lista dei loro principali debitori, per esempio del Monte Paschi?

La frattura è anche dentro il Pd: tira un’aria da redde rationem.
L’Italia ha pagato negli anni, non solo in quest’ultima era renziana, un prezzo altissimo prima alla composizione del Pd e poi alle sue numerose fratture. Il Pd è un grande partito di massa, guida il Paese ma deve riscoprire quella responsabilità che i partiti classici avevano. Il partito è stato considerato una struttura ancillare del governo: ora deve recuperare autonomia. C’è un problema di disciplina della minoranza rispetto alla maggioranza, ma c’è anche un problema di rispetto della maggioranza verso la minoranza.

Ma si può invocare la disciplina di partito sulla Costituzione?
Il Pd non può essere un luogo di ostracismi ed esclusione. Sennò andiamo verso una balcanizzazione della società. Continuando a dividere il Paese, come ha fatto Renzi, dopo un po’ si diventa antipatici, specie quando si occupa la televisione in questo modo militare e ossessivo. Una cosa così non si era mai vista, nemmeno con Berlusconi che pure le televisioni le possedeva. Se il Pd si dovesse spaccare sarebbe un danno per l’intero Paese: il Pd ritrovi la virtù di un confronto democratico aperto. Soprattutto il Pd deve essere in grado di trovare un’indipendenza rispetto alla vita dell’esecutivo: Renzi quando conquistò il partito democratico lo fece vivere di una vita propria rispetto al governo Letta, che poi affossò. Si riparta da lì.

L’informazione è rimasta spiazzata dal risultato.
Interroghiamoci sul perché tutti, negli ultimi giorni prima del voto, eravamo convinti che il Sì stesse recuperando posizioni. Forse questo segnala un’eccessiva vicinanza dei media al potere che spaccia – non in modiche quantità – informazioni avariate, spiffera retroscena ad arte, come l’idea che Renzi volesse prendersi un sabbatico e lasciare la politica. Forse non abbiamo più i ricettori giusti, forse chi fa informazione non sa raccontare il Paese perché frequenta troppo i palazzi e poco il popolo. E’ un’autocritica che dobbiamo fare, che devo fare anch’io. Siamo nell’era della post verità, ma sono state abbonate troppe vaghe promesse e troppe bufale. Bisogna riconoscere ciò che di giusto c’è nell’eredità renziana. Ed essere un po’ indulgenti: Renzi ha perso, ma ci si deve augurare che il perdente non ricatti le istituzioni scaricando la propria rabbia e frustrazione su altri. La responsabilità di ricucire il Paese è anche delle forze politiche che hanno votato No. Siamo reduci da una violenta campagna elettorale, è il momento della distensione. Questo Paese si mostra più solido e pacato di molte persone che lo governano. O tentano di governarlo.

L’idiozia di temere il dibattito

dibattito

«Si sottovaluta la necessità di avere nel Paese un dibattito con posizioni diverse, autentiche, anche dure. Che aiutano tutti, soprattutto chi governa. Discutere con sincerità dei problemi rende l’opinione pubblica – il vero architrave di un sistema democratico – più avvertita, responsabile e libera. È un antidoto naturale al populismo: la gente è indotta ad approfondire. […] Il cittadino non è un suddito. Renzi non dovrebbe temere un dibattito vero sollevato da un giornalismo libero e autonomo dal potere: una discussione aperta facilita il raggiungimento delle soluzioni migliori. Le buone politiche risaltano di più e gli errori vengono corretti in tempo. Se il dibattito è reticente, opaco copre gli errori e le collusioni, favorendo i pochi che sanno ai danni dei tanti che non sanno.»

Le parole di Ferruccio De Bortoli nella sua intervista a Il Fatto Quotidiano fino a vent’anni fa sarebbero state un elogio della banalità e invece oggi risuonano come le intuizioni di un vate. Eppure non c’è un momento netto, nitido e individuabile in cui in questo Paese sia diventato un “vezzo” fastidioso il non essere d’accordo: è un muscolo che si è stinto piano piano, una disabitudine al dibattito che si è normalizzata. E alla fine siamo scaduti nel tifo in cui parteggiare pregiudizialmente è normale. E la classe dirigente si forma sul televoto. E anche De Bortoli risuona come un rivoluzionario. Pensa te.

Renzi secondo Ferruccio De Bortoli

de-bortoliIl direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli ha rassegnato le dimissioni. Si sa che l’editoriale d’addio di solito è anche il vaso di sassolini nelle scarpe e De Bortoli non le manda a dire:

“Del giovane caudillo Renzi, che dire? Un maleducato di talento. Il Corriere ha appoggiato le sue riforme economiche, utili al Paese, ma ha diffidato fortemente del suo modo di interpretare il potere. Disprezza le istituzioni e mal sopporta le critiche. Personalmente mi auguro che Mattarella non firmi l’Italicum . Una legge sbagliata”.

(fonte)