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forse

Basta assurdi egoismi, rendiamo pubblici i brevetti per produrre i vaccini anti-Covid

Se si volesse “restare alti”, come dicono in questi giorni alcuni esponenti politici (che di solito considerano “basso” rispondere alle domande che vengono loro poste), se si volesse davvero dare una “spinta” importante nella battaglia contro la pandemia, se ci fosse la voglia di combattere sul serio “i poteri forti” (quelli che vengono inutilmente evocati per battaglie immaginarie) e se si volesse dimostrare di tenere davvero alla salute pubblica più di ogni altra cosa in questo momento, allora c’è una battaglia già bell’e pronta da inforcare: superare il nodo dei brevetti dei vaccini e accelerare così la produzione e la distribuzione liberandosi dai lacci delle grandi aziende farmaceutiche.

Attenzione, stiamo parlando di un preciso accordo (Trips: Trade Related Intellectual Property Rights) relativo alla proprietà intellettuale dell’Organizzazione mondiale del commercio, che scrive nero su bianco come i governi possano in situazione di emergenza sanitaria (e non è questa l’emergenza sanitaria del secolo?) permettere anche ad aziende non detentrici del brevetto di produrre versioni generiche equivalenti dei farmaci pagando un’opportuna royalty all’azienda della proprietà intellettuale.

Lo stesso Carlo Cottarelli ieri, ospite da Fabio Fazio, ha chiesto uno “sforzo di guerra” per aumentare la produzione mettendo “più risorse per produrre i vaccini superando gli attuali vincoli di produzione”.

Sarebbe uno sforzo diplomatico, certo, ed economico. Ma forse varrebbe la pena, di fronte alla previsione che l’Italia per la pandemia perderà più o meno 300 miliardi di euro Pil nel biennio 2020-2021 a causa della pandemia.

Già a dicembre Medici Senza Frontiere esortava tutti i Paesi a raggiungere un accordo sulla proposta di India e Sudafrica di sospendere la proprietà intellettuale sui prodotti salvavita in pandemia. Qualche giorno fa il farmacologo Silvio Garattini in un’intervista a Il Mattino ha dichiarato che “se ci sono ragioni importanti di salute pubblica gli Stati possono chiedere o pretendere la licenza del farmaco per produrlo in grosse quantità”.

“L’Italia, l’Europa possono chiederlo. In un momento di grandi difficoltà bisognerebbe avere il coraggio di abolire i brevetti sui farmaci salva-vita come i vaccini”, ha detto Garattini.

Tra l’altro c’è da considerare che la ricerca che ci ha portato ad avere i vaccini in così breve tempo è stata possibile anche grazie alle ingenti risorse pubbliche e ai finanziamenti filantropici.

Nei giorni scorsi in Italia 43 associazioni (tra cui Acli, Arci, Cgil, Cisl, Uil, Emergency, Libera e altri) hanno dato vita al Comitato Italiano per l’Iniziativa Cittadini Europei “Per il diritto alla cura, nessun profitto sulla pandemia”, che chiede una immediata moratoria sui brevetti e la messa a disposizione di tutti dei vaccini quale bene comune.

“C’è ragione di essere in allarme”, scrive il comitato. “Con lo strapotere delle grandi aziende farmaceutiche, padrone dei brevetti per 20 anni, fonte di guadagni miliardari, e con l’attuale sistema di accordi commerciali, c’è il rischio di ‘tagliare fuori’ dalle vaccinazioni, interi Paesi e Continenti ‘poveri e incapienti’, con un rischio gravissimo per la salute mondiale”. La battaglia è qui, pronta. Ora non resta che avere il coraggio di farsene carico.

Leggi anche: 1. Il 14% dei Paesi ricchi avrà il 53% delle dosi di vaccino: la bomba sociale che l’Europa finge di non vedere / 2. I vaccini no-profit di Cuba che salveranno i Paesi in via di sviluppo

L’articolo proviene da TPI.it qui

Matteo risponde (male)

«Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico… è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». Lo ha detto il leader di Italia Viva in una intervista in cui ha parlato del suo viaggio in Arabia Saudita. Dove c’è una costante violazione dei diritti umani

Ieri Matteo Renzi è stato intervistato da Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera. Chiamarla intervista in realtà è una parola grossa visto che l’ex premier, come spesso accade, ha potuto comiziare per iscritto praticamente intervistandosi da solo, come piace a lui. Poiché ormai la notizia del suo viaggio in Arabia Saudita è diventato un fatto non scavalcabile il senatore fiorentino è stato costretto a rispondere sul punto (senza rispondere, ovvio) e ha inanellato una serie di panzane che farebbe impallidire anche il più sfrontato dei bugiardi ma che Renzi invece ha sciorinato come se fosse un dogma.

«La accusano di avere fatto da testimonial del regime saudita», dice Maria Teresa Meli e l’ex presidente del Consiglio risponde: «Sono stato a fare una conferenza. Ne faccio tante, ogni anno, in tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, dal Medio Oriente alla Corea del Sud. È un’attività che viene svolta da molti ex primi ministri, almeno da chi è giudicato degno di ascolto e attenzioni in significativi consessi internazionali». Renzi non è andato a fare una semplice conferenza ma siede nel board della fondazione Future investment initiative che fa capo direttamente al principe Bin Salman e per questo è pagato fino a 80mila euro all’anno. Non era lì in veste di conferenziere ma è uno dei testimonial dell’organizzazione di queste iniziative. La differenza è notevole, mi pare. Poi: Renzi dice che molti ex primi ministri svolgono questa stessa attività ma dimentica di essere un senatore attualmente in carica, l’artefice principale di questa crisi di governo, un membro della commissione Difesa nonché lo stesso che chiedeva di avere in mano la delega ai Servizi. Se non vedete qualche problema di conflitti di interessi allora davvero risulta difficile perfino discuterne.

Poi, tanto per leccare un po’ il suo narcisismo e il suo odio personale per Conte Renzi aggiunge: «Sono certo che anche il presidente Conte, quando lascerà Palazzo Chigi, avrà le stesse opportunità di portare il suo contributo di idee». Roba da bisticci tra bambini. E addirittura rilancia: «E grazie a questo pago centinaia di migliaia di euro di tasse in Italia». Capito? Dovremmo ringraziarlo che paga le tasse. Dai, su.

Ma il capolavoro dell’intervista renziana sta in queste due frasi: «Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico» e «Se vogliamo parlare di politica estera diciamolo: è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». E in effetti il senatore di Rignano deve avere dimenticato che 15 su 19 degli attentatori dell’11 settembre fossero sauditi (incluso Osama bin Laden) ma soprattutto che l’Arabia Saudita finanzi l’estremismo con molta indulgenza e pratichi l’estremismo proprio come forma di governo. Come quelli che sono interrogati in storia e non l’hanno studiata Renzi fa la cosa che gli viene più semplice: la riscrive. Infine, tanto per chiudere in bellezza, promette in futuro di rispondere «puntigliosamente in tutte le sedi» ventilando querele. Perfetto. Ovviamente nessuna osservazione da parte della giornalista: in Italia la seconda domanda è un tabù che non si riesce a superare.

Sarebbe anche interessante sapere da Renzi cosa ne pensi del “costo del lavoro” in Arabia Saudita che ha detto di invidiare, se è informato del fatto che il 76% dei lavoratori sono stranieri sottopagati che vivono in baracche malsane e che sono, di fatto, proprietà privata dei loro padroni che fino a qualche tempo fa addirittura tenevano i passaporti dei loro dipendenti come arma di ricatto per rispedirli a casa e che la situazione delle donne è perfino peggiore con “sponsor” che si spingono fino agli abusi psicologici e sessuali sulle loro dipendenti facendosi forza sul Corano che nella teocrazia saudita detta le leggi. E chissà se Renzi ha avuto il tempo almeno di leggersi una paginetta su Wikipedia (senza chiedere troppo) che dice chiaramente: «L’Arabia Saudita è uno di quegli Stati in cui le corti continuano a imporre punizioni corporali, inclusa l’amputazione delle mani e dei piedi per i ladri e la fustigazione per alcuni crimini come la cattiva condotta sessuale (omosessualità) e l’ubriachezza, lo spaccio o il gioco d’azzardo. Il numero di frustate non è chiaramente previsto dalla legge e varia a discrezione del giudice, da alcune dozzine a parecchie migliaia, inflitte generalmente lungo un periodo di settimane o di mesi. L’Arabia Saudita è anche uno dei Paesi in cui si applica la pena di morte, incluse le esecuzioni pubbliche effettuate tramite decapitazione».

Non c’è che dire: è proprio aria di Rinascimento. Davvero. O forse semplicemente Renzi ha detto la verità: lui invidia un mercato del lavoro così, dove il Jobs Act è stato scritto proprio come lo sognano i ricchi padroni.

Buon lunedì.

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L’arabo fenice

Prostrato al regime saudita in Arabia, alla disperata ricerca di visibilità in Italia. Ci sono due Renzi diversi, entrambi inopportuni, che meritano di essere osservati per avere contezza dello stato attuale di crisi

Dunque ieri abbiamo avuto l’occasione di assistere in differita al doppio Matteo Renzi, quello in versione zerbino di fronte al principe saudita Bin Salman e quello che fa la voce grossa nella crisi politica che lui stesso ha provocato in piena pandemia. Sono due Mattei così lontani tra di loro, probabilmente anche molto inopportuni nei tempi, che meritano di essere osservati per avere contezza dello stato attuale di crisi che non è solo politica ma forse e soprattuto di credibilità.

Il Renzi prostrato ai sauditi (per la modica cifra di 80mila euro l’anno) è quello che da senatore della Repubblica, da membro della commissione Difesa, quello stesso che da mesi vorrebbe avere in mano la delega ai Servizi segreti, riesce a fare la velina per il principe Bin Salman con il suo inglese alla Alberto Sordi celebrando l’Arabia Saudita (terra di principesca violenza e di diritti negati) come “terra di un nuovo Rinascimento” insozzando un po’ della sua Firenze di cui si sente padrone, è lo stesso Renzi che riesce a dirgli «non mi parli del costo del lavoro a Ryad, come italiano io sono geloso» dimenticando che da quelle parti siano vietati i sindacati (e quindi i diritti) e le manifestazioni (chissà cosa ne pensa l’ex ministra Bellanova), quello che si fa chiamare ripetutamente “Primo ministro” per celebrare e per autocelebrarsi. Una scena imbarazzante nei modi e nei contenuti da cui i renziani si difendono nel modo più bambinesco e cretino ripetendo all’infinito “e allora gli altri?” come avviene tra bambini dell’asilo.

Il Renzi italiano invece è quello che dopo il colloquio con Mattarella si ferma per un’ora davanti ai giornalisti scambiando come al solito una conferenza stampa per un comizio e raccontando ancora una volta un’impressionante serie di balle infilate una dopo l’altra, riducendo ancora tutta la crisi di governo alla difesa del suo partitino politico (indignato perché c’è qualcuno che non vuole più trattare con lui) e spiegando ai giornalisti di non avere posto veti su Conte al Presidente della Repubblica per poi smentirsi pochi minuti dopo con un suo stesso comunicato che invece chiede che l’incarico venga dato a un’altra personalità. «Oggi non si tratta di allargare la maggioranza ma di verificare se c’è una maggioranza: se vi fosse stata una maggioranza, non saremmo stati qui ma al Senato per votare la fiducia a Bonafede», ha detto ieri Renzi nel tentativo di fermare il tempo in questa fase che gli regala un po’ di visibilità e temendo tremendamente lo spettro delle elezioni che lo farebbero scomparire. Poi, sempre in nome della sua coerenza, è riuscito a stigmatizzare la nascita di un nuovo gruppo in Parlamento dimenticandosi che la sua stessa Italia viva sia frutto dello stesso trucco parlamentare. Ma si sa: per Renzi le stesse identiche azioni hanno dignità differente se è lui a compierle o se sono gli altri.

E così tra liti e tentativi di riconciliazioni si trascina una crisi politica che diventa ogni giorno di più una barzelletta, sfiancante per i toni e la bassezza dei protagonisti, sfiancante perché avviene in un momento di piena pandemia.

E viene voglia di dirsi che finisca tutto presto, il prima possibile.

Buon venerdì.

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Primule e Arcuri

Nel bando per la realizzazione dei padiglioni a forma di primula pensati per la campagna di vaccinazione ci sono alcuni punti che sollevano critiche. Siamo sicuri di avere preso una decisione che abbia un senso e che risulti vantaggiosa?

Ve li ricordate i padiglioni a forma di primula che il prode turbocommissario Arcuri ha pensato per la campagna vaccinale contro la pandemia? Bene, ci siamo. Martedì 20 gennaio è stato pubblicato il bando per la realizzazione e ci sono alcuni punti interessanti da analizzare. Perché forse sarebbe il caso di essere curiosi prima per poi non pagare lo scotto dopo.

Una delle critiche più argomentate e che vale la pena riprendere è quella di Carlo Quintelli, docente di Ingegneria e architettura all’università degli studi di Parma, che in un post su Facebook ha analizzato tutti i dettagli del bando. Ripassiamoli. Scrive Quintelli:

«Il padiglione misura 315 mq e per realizzarne, trasportarne, allestirne 21 chiavi in mano arredi compresi in diverse parti d’Italia si danno 30 gg di tempo! E dove si richiede la riparazione degli impianti con intervento entro 30 minuti dalla chiamata! (da sottoporre all’attenzione della ricerca in logistica del Pentagono o di Amazon!). Delle due l’una verrebbe da pensare: o chi ha redatto il bando è totalmente ingenuo ed estraneo al settore o qualcuno ha già pronto tutto da inizio dicembre. Oppure succede come con i banchi per le scuole che sono andati quasi tutti fuori tempo di consegna contrattuale (e le penali?)». E in effetti verrebbe da chiedersi perché insistere pubblicando bandi che si sa che non possono essere rispettati per poi slittare il tutto. Almeno che non ci sia, anche dalle parti di un ruolo tecnico come è quello di Arcuri, troppa attenzione alla propaganda.

Poi, scrive Quintelli: «Il costo massimo è pari ad euro 1.300/mq + Iva ergo se Arcuri si limita ai 21 padiglioni (dimostrativi? sperimentali? promozionali? di fatto inutili ai fini della campagna vaccinale) staremo tra gli 8 e i 9 milioni di euro, ma se in un delirio di onnipotenza ne ordina 1.200 ci portiamo attorno al mezzo miliardo di euro (di soldi nostri)». Per avere un’idea dei costi, osserva Quintelli: «Ognuno di questi padiglioni potrà avere un costo massimo di euro 400.000 (+/- 20%) e a questa modica cifra è in grado di effettuare 6 vaccinazioni alla volta per la durata, compresa anamnesi, di 10/15 minuti a seconda dei soggetti. Ma diciamo pure 12 minuti per 6 postazioni = 30 vaccinazioni/ora per 10 ore = 300 x 90 gg (tre mesi), senza mancare un turno e con efficienza tayloristica, si vaccinano 27.000 persone, un piccolo centro da 30.000 abitanti, spendendo “solo” 10 volte tanto rispetto a un punto vaccini di analoga portata nella sala civica, in quella parrocchiale, nella palestra, sotto la tenda degli alpini e via dicendo…Per un centro da 100.000 abitanti il padiglione da quasi mezzo milione di euro li vaccina tutti ma gli ci vuole un anno (slow vaccination). La soluzione? Se ne acquistano tre, posizionati in tre diverse piazze e risolviamo spendendo la modica cifra di un milione e mezzo di euro. Ora capite perché il Commissario si riserva di ordinarne 1.200 se si pensa che abbiamo 103 città con più di 60.000 abitanti e diverse da oltre 200.000 più Roma e Milano. Che dire…capisco sempre di più le perplessità di certi paesi nel concederci il credito europeo».

E gli spazi? Ecco qua. Lo spiega Quintelli: «In ogni caso l’architettura è un’arte (tecne) dove la ratio è messa alla prova e allora non si spiegano quelle 16 persone in un’area di attesa di circa 40mq che funge anche da ingresso/uscita (non separate!), punto reception, disimpegno ai corridoi, dove tutti incrociano tutti ecc. ecc. Uno spazio oltretutto alto solo 2.70 (di tipo domestico) con volumi d’aria limitati e che andrà fortemente depressurizzato (con quali effetti?). Speriamo bene che non faccia da area di contaminazione….è stato certificata da qualcuno? Il resto degli ambienti è da sommergibile, 2,60 mt di profondità degli spazi per anamnesi e vaccinazione (idonei si dice a 4 persone tra operatori e pazienti/accompagnatori), corridoi da 1,40 mt, “sala attrezzata per reazioni avverse” da circa 9 mq (speriamo di non averne bisogno…) e dulcis in fundo, con una media di 50 persone sempre presenti nella primula, due soli bagni per i pazienti ed uno (evidentemente unisex) per gli operatori (confidiamo nei bar dei dintorni, se in zona gialla)».

Ora la domanda è una sola: siamo sicuri di avere preso una decisione che abbia un senso e che risulti vantaggiosa? Abbiamo il diritto di sapere? O come sempre aspettiamo la prossima conferenza stampa per sentire Arcuri non rispondere sul punto? Anche perché le vaccinazioni impattano sulla nostra vita molto di più delle beghe su cui si stanno sprecando tutti gli editoriali.

Buon giovedì.

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Avanzi di Gallera

La Lombardia in zona rossa sulla base di dati sbagliati inviati all’Istituto superiore di sanità dalla Regione stessa. Fontana e Moratti scaricano le colpe sul governo. Dopo l’addio dell’ex assessore al Welfare, bisogna fare i conti con ciò che ha lasciato: il suo presidente, la sua sostituta e un Ente ormai completamente allo sbando

In Lombardia non bisogna mai correre il rischio di pensare che peggio di così non potrebbe andare perché ci si imbatte sempre in una delusione cocente, in quella terribile sensazione per cui gli uomini al governo della Lombardia (quelli che Salvini e compagnia cantante ci porgono tutti i giorni come alti esempi di ottima amministrazione) riescono sempre a toccare il fondo, poi scavare, poi scavare e poi scavare ancora.

Facciamo un salto indietro: il 17 gennaio la Lombardia è una delle poche regioni che viene indicata come “zona rossa”, ovvero una regione ad alto rischio di contagio dove devono essere prese misure molto stringenti che impattano enormemente sulla vita dei suoi cittadini e delle sue attività economiche. Badate bene: la decisione del governo viene presa sulla base dei dati che Fontana, Letizia Moratti e i tecnici regionali mandano regolarmente al ministero. I dati dalla regione sono stati consegnati il 13 gennaio e infatti non è un caso che se sfogliate i giornali di quei giorni potrete incrociare un Fontana contritissimo che avvisa tutti che si finirà in zona rossa e che bisogna stare attenti. Poi, per il solito gioco della propaganda e del rimpiattino con il governo, accade che Fontana si dica costernato e stupito della decisione del governo. In sostanza si è stupito di quello che egli stesso pensava fino a poche ore prima. E già fin qui la vicenda rasenta una tragica irresponsabilità. Fontana fa ricorso al Tar. Letizia Moratti si lancia a dire: «La Lombardia non merita la zona rossa. Indubbiamente il rischio per la regione è di fermarsi, di fermare il lavoro, le attività e la vita sociale. Per questo con il presidente Fontana abbiamo ritenuto di voler presentare un ricorso, per uscire dalla zona rossa».

Attenzione al capolavoro. Il 20 gennaio la Regione Lombardia invia nuovi dati e sono molto diversi rispetto ai dati precedenti. In sostanza si smentiscono. E si scopre che la Lombardia sulla base dei nuovi numeri avrebbe dovuto essere zona arancione. Il ministero della Salute spiega molto chiaramente che a falsare il calcolo dell’Rt sono stati numeri parziali inviati dalla Regione. In base all’aggiornamento del 20 gennaio, i casi sintomatici che hanno sviluppato dei sintomi – cioè un dato fondamentale per calcolare l’Rt – fra il 15 e  il 30 dicembre non erano più 14.180 come segnalato il 13 gennaio, bensì 4.918, quasi tre volte di meno. In Lombardia, dopo avere fatto la figura di quelli che non sanno nemmeno fare da conto, si scatenano. Fontana dice: «A Roma devono smetterla di calunniare la Lombardia per coprire le proprie mancanze», Moratti rincalza dicendo: «Nessuna rettifica, a seguito di un approfondimento relativo all’algoritmo dell’Iss, abbiamo inviato la rivalorizzazione dei dati». Rivalorizzare un numero significa averlo sbagliato, l’elegante Moratti però lo dice con una perifrasi che vorrebbe nascondere l’errore.

All’Istituto Superiore della Sanità rispondono chiaramente: «L’algoritmo è corretto, da aprile non è mai cambiato ed è uguale per tutte le Regioni che lo hanno utilizzato finora senza alcun problema – scrive l’Iss -. Questo algoritmo e le modalità di calcolo dell’Rt sono state spiegate in dettaglio a tutti i referenti regionali perché lo potessero calcolare e potessero verificare da soli le stime che noi produciamo, ed è perciò accessibile a tutti». In sostanza: siete voi che non sapete fare i calcoli. È anzi l’Iss a sottolineare come l’anomalia sia stata fatta notare più volte a Regione Lombardia.

Salvini chiede le dimissioni dei responsabili. In sostanza sta chiedendo le dimissioni del suo presidente Fontana, quindi. Roba da teatro dell’assurdo. Secondo alcune stime il danno per i circa 10mila negozianti costretti a chiudere domenica 17 gennaio sono stati di circa 485 milioni di euro solo a Milano tra abbigliamento e pubblici esercizi secondo Confcommercio. Immaginate i totali di tutta la regione. E in più ci sono le scuole, le persone. Roba gravissima.

Ecco, se pensavate che l’addio di Gallera fosse una buona notizia non avete fatto i conti con gli avanzi che Gallera ha lasciato: il suo presidente, la sua sostituta e una Regione ormai completamente allo sbando. In sostanza questi hanno ricorso al Tar contro se stessi. E ora fanno i pesci in barile scaricando le colpe sul governo. Ah, a proposito: come ultima dichiarazione ieri Fontana ha detto che «forse non è colpa di nessuno».

Bravi, bene, bis.

Buon lunedì.

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«Escort». E tutti giù a ridere

Su Rai Uno l’offesa pesante a una donna viene considerata goliardia?

Dunque Alan Friedman ospite della trasmissione Uno mattina mercoledì 20 gennaio per commentare l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, ha voluto regalarci una perla di maschilismo travestito da analisi politica dicendo: «Donald Trump si mette in aereo con la sua escort e vanno in Florida». Poi si è corretto, come si correggono i pessimi comici che non fanno ridere e ha detto «moglie».

La escort in questo caso era Melania Trump, moglie dell’ex presidente degli Usa. Si è levato giustamente un coro di indignazione ma poco, meno di come avrebbe dovuto essere. Perché? Perché in fondo offendere la compagna del proprio nemico politico è considerato meno grave per chi usa la difesa delle donne semplicemente come roncola, come l’ennesima arma da portarsi nell’agone politico.

Eppure offendere la moglie di un avversario per colpire lui è proprio un comportamento maschilista fatto e finito. Forse sarebbe il caso di difendere i principi e i valori indipendentemente dal fatto che ci tornino utili per attaccare quelli che non ci stanno a genio. Sì, è vero che fa ridere ascoltare Salvini che si indigna, proprio lui che ha portato sul palco una bambola gonfiabile paragonandola a Laura Boldrini. Ma questo non è il punto, ora. Il punto è difendere la dignità di Melania Trump, in quanto donna oggetto di attacchi maschilisti. Questo ci interessa.

Anche perché Friedman si è giustificato dicendo che non era una parola “voluta” e che stesse traducendo dall’inglese. «La parola che volevo dire era ‘accompagnatrice’», dice Friedman. Beh, caro Friedman, una moglie non è l’accompagnatrice del proprio uomo, non esiste solo in quanto portatrice dell’identità del suo marito o compagno. E poi sorge una domanda spontanea: Friedman è corrispondete dall’Italia dal 1983, davvero è ancora così indietro con la sua capacità di linguaggio? Dai, non scherziamo, su. Chiamare “gaffe” una frase sessista non si può sentire, no.

Ma andiamo avanti: la conduttrice rimprovera a Friedman la sua pessima uscita e lui dice che «Melania non è una vittima ma è razzista come Trump». Quindi il buon Friedman siccome voleva attaccare Melania Trump non le ha dato della razzista ma le ha dato della escort. Peggio di prima. Passano alcune ore e ieri Friedman scrive «ho fatto una battuta infelice, chiedo scusa». E niente, non riescono proprio a dire “ho fatto una battuta sessista e me ne scuso”. È più forte di loro.

Immaginate se quella stessa frase fosse stata rivolta alla moglie di Biden o peggio alla moglie di Obama: sarebbe scattato l’inferno. Dai, facciamo i seri e difendiamo i principi che vanno difesi senza farsi inquinare dal tifo. L’onestà intellettuale è una forma di rispetto per se stessi e in questo caso anche delle donne.

Buon venerdì.

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Non gli resta che intralciare

La mossa del cavallo non gli è riuscita, nemmeno stavolta. Ne sta sbagliando parecchie ultimamente Matteo Renzi ma la crisi di governo che alla fine non è andata a buon fine rimane una delle sue imprese più deprimenti per modalità, per l’accrocchio di motivazioni e per l’esito finale. Ma esattamente cosa ha ottenuto Renzi? Voleva ancora una volta essere lo spiffero che apriva una crepa per potersi intestare un eventuale nuovo governo e rivendicare un ruolo d’azionista, continuando a galleggiare con un peso politico dopato che esiste solo in Parlamento (perché bisognerebbe ricordare che il numero di parlamentari che Italia Viva ha ora sono solo il frutto di meccanismi di palazzo che non hanno nessuna corrispondenza nelle proporzioni nel mondo reale) e invece si ritrova ad essere all’opposizione con Meloni e con Salvini sempre più solo, circondato perfino dal malumore dei suoi uomini che ora gli presentano il conto del risultato rancido.

Renzi avrà avuto forse la soddisfazione di avere indebolito Conte e il governo (ma può essere un obiettivo politico destabilizzare un governo senza nemmeno la forza di farlo cadere?) ma sostanzialmente cosa ha ottenuto? Niente, zero, nisba. E infatti non è un caso che già ieri qualcuno dei suoi abbia cominciato a proporre aperture al governo e abbia cominciato a parlare dell’esigenza “di ricostruire”.

E ora che faranno Renzi e i renziani? Faranno gli intralciatori, ovvio, per farsi notare, per non sparire mentre fanno ciao ciao con la manina e nella giornata politica di ieri si è già avuto un assaggio significativo: durante il voto sulle misure contro la pandemia (misure discusse e decise quando Italia Viva era ancora in maggioranza) la capogruppo in Senato Laura Garavini ha annunciato il voto di astensione (per la discussione della pregiudiziale di costituzionalità ndr) con parole che sarebbero degne di una Meloni o di un Salvini qualsiasi: “stiamo assistendo ad una inedita modalità di produzione normativa. Un modo di procedere che non solo crea confusione tra i cittadini, a causa della sovrapposizione tra i diversi testi. Ma che viola le regole democratiche dei rapporti tra le fonti normative”, ha detto Garavini. Peccato che solo tre giorni fa il renziano Rosato dicesse: “la nostra è una rottura responsabile. Voteremo il decreto ristori, mercoledì in Aula voteremo lo scostamento di bilancio, giovedì e venerdì anche il decreto sul Covid, così come continueremo a sostenere tutte le misure che aiuteranno il nostro Paese nella lotta al coronavirus“. Niente, promessa mancata.

Ora continueranno così, pronti a essere l’elemento disturbante per potersi fare notare, pronti a fare pesare il loro (debole) peso per intralciare ogni cosa, almeno per certificare la propria esistenza. IV: intralciatori vivi. Segnatevelo ogni volta che sentirete Renzi parlare di “responsabilità”.

Buon mercoledì.

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Ma quanto è brutta Itsart, la Netflix di Franceschini

Alla fine è comparso il sito. Non aspettatevi niente, per carità, ma se volete toccare con mano la stucchevole idea della “Netflix della cultura” che il ministro Franceschini sventola da un po’ come brillante ispirazione (con quello mania tutta italiana di inventare brutte e poco funzionali copie delle idee degli altri) allora potete farvi un giro sul sito www.itsart.tv, il portale che nella mente del ministro dovrebbe rilanciare lo spettacolo dal vivo.

Aperto il sito vi capiterà per ora di vivere una sensazione irreale di distonia internettiana: il logo .ITSART è di una bruttezza che fa spavento, completamente disallineato dai canoni attuali della grafica, una macchietta che sembra provenire direttamente dagli anni ’90 come se in mezzo non ci fosse stata tutta l’evoluzione del web a cui abbiamo assistito. Campeggia in alto una scritta che suona come una minaccia, “stiamo arrivando” è scritto tutto in maiuscolo, in un font “Segment Black” che costa 17,99 euro sui siti specializzati. Appena sotto la formidabile idea: «ITSART è il nuovo palcoscenico virtuale per teatro, musica, cinema, danza e ogni forma d’arte, live e on-demand, con contenuti disponibili in Italia e all’estero: una piattaforma che attraversa città d’arte e borghi, quinte e musei per celebrare e raccontare il patrimonio culturale italiano in tutte le sue forme e offrirlo al pubblico di tutto il mondo». Infine la mail dove inviare le proposte di contenuti, eventi e manifestazione culturali, come allo sportello di una pro loco di provincia che raccoglie idee per il proprio volantino. Se è vero che il mondo dello spettacolo da sempre è la fabbrica delle emozioni e dello stupore c’è da dire che la sua mastodontica casa pensata dal ministero per navigare nella rete appare una premessa piuttosto sgonfiata.

Ma il punto sostanziale è un altro: il progetto per la creazione della prima piattaforma digitale della cultura prende il via, su iniziativa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo insieme alla Cassa Deposito e Prestiti e dovrebbe “sostenere il settore delle arti dello spettacolo particolarmente colpito nel corso della pandemia”, sostiene il comunicato stampa. Per la gestione della piattaforma è stata costituita una nuova società (ovviamente) controllata al 51% da CDP e per il 49% dalla società privata CHILI Spa. Si sa ancora poco sui costi ma verrebbe subito da chiedersi perché lo Stato non abbia preso già in considerazione di avere un’enorme (e dispendiosa) “piattaforma per la cultura” che si chiama Rai e che ha la valorizzazione delle arti e dello spettacolo nel suo contratto di servizio. La Rai, tra l’altro, possiede anche una sua piattaforma web, Rai Play, che era stata pensata proprio per questo. Ma niente. Poi ci sarebbe da chiedere come possano risollevarsi le compagnie teatrali, di musica e di danza in un momento in cui sono state completamente dimenticate dalla politica. Ma forse, davvero, basta mandare la mail. E .ITSART li renderà tutti ricchi. C’è da scommetterci.

L’articolo Ma quanto è brutta Itsart, la Netflix di Franceschini proviene da Il Riformista.

Fonte

Buon anno buono

Forse abbiamo imparato che quello che accade agli altri conta anche per noi. E forse abbiamo imparato che le nostre azioni e i nostri comportamenti a volte infliggono. L’abbiamo imparato con il virus ma vale per tutto, per le cose buone e per le cose cattive, vale per i nostri gesti, per i nostri comportamenti. Spostandosi, lavorando insieme, incrociandoci ci passiamo aliti che potrebbero anche non portare virus ma che potrebbero costruire relazione, lasciare afflati positivi, cambiare le prospettive se diventano virali. Chissà se il 2021 non sia l’anno in cui ci si scambia germi buoni, si smette di strofinarsi addosso come isole. Nessun uomo è un’isola, ci ha detto il 2020.

Forse abbiamo imparato che le cose semplici non sono banali. Forse abbiamo imparato che ci capita, eccome se ci capita, di intendere come acquisiti i benefici di una compagnia, di un vezzo che ci concediamo, di un diritto a cui non facciamo caso, di un’abitudine o di un’azione. Chissà se il 2021 non sia l’anno in cui affiliamo il gusto di sentire tutto quello che ci passa con i pori tutti aperti, di dare valore al nostro tempo e al nostro spazio. E chissà che non si pretenda che ne abbiamo cura del nostro tempo e del nostro spazio.

Forse abbiamo imparato che il futuro non firma contratti, che tutto è molto caduco e che il diritto di attraversare le intemperie è qualcosa che interessa anche a persone che non pensavano di averne mai bisogno. Essere garantiti non significa essere dei privilegiati ma significa avere uno scafo abbastanza sicuro per superare anche le onde più alte e impreviste. Chissà che il 2021 non sia l’anno in cui finalmente si decida di fissare degli standard minimi, come dicono i dirigenti, quelli che in italiano si chiamano dignità, che è una parola faticosa ma liberatoria, la dignità.

Ci auguro un anno in cui si rimettano in moto quegli ingranaggi azzurri della speranza, quella voglia di attraversare i giorni per lasciare impronte dappertutto, in cui si assapora il gusto di essere comunità, una comunità larghissima, con la voglia di essere una comunità onnicomprensiva. Noi qui a Left abbiamo provato a fare seriamente la nostra parte, abbiamo tornito le parole proprio in quest’anno in cui le parole sono diventate pesantissime perché ci è mancato molto del resto. E nel nostro piccolo ci siamo fatti comunità.

Buon 2021, che sia un anno buono.

L’illustrazione in alto di Fabio Magnasciutti è una delle opere che compongono il calendario 2021 di Left. Lo trovate in edicola fino al 7 gennaio in allegato al numero 52

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il protagonismo di De Luca, che non aspetta il suo turno, fa male alla campagna sui vaccini 

La comunicazione sui vaccini è una cosa terribilmente seria, da strutturare con cura, da gestire con intelligenza e soprattutto da offrire con elementi solidi, con dati scientifici e con le reali proporzioni dell’importanza a livello nazionale. Se davvero la politica ha intenzione di limare le contestazione dei no vax deve riuscire a farlo porgendo un affilato e comprensibile illuminismo che racconti chiaramente come attraverso il vaccino passi inevitabilmente il rialzarsi dalla pandemia e una qualsiasi ripartenza.

L’inizio della campagna vaccinale in Italia, tra primule progettate e stereotipi emozionali svenduti dappertutto, punta inevitabilmente a costruire un clima di fiducia e di speranza che serva a ricompattare un Paese. Sarà facile? No. Serve intelligenza? Sì. E non è una gran mossa intelligente quella del presidente De Luca che ieri si è autoproclamato testimonial inscenando il proprio vaccino a favore di telecamere e con un gran strombazzo di fotografi e interviste.

Non è questione di essere a favore o contro la figura di De Luca come politico ma è qualcosa di più sottile su cui forse varrebbe la pena riflettere: se è vero che un presidente di Stato come Biden che si sottopone al vaccino incarna il senso di comunità di una nazione, è anche vero che sulla distribuzione dei vaccini si giocherà ancora una volta la credibilità del Paese nel soccorrere prima i più esposti, i più fragili e i più bisognosi.

Qualcuno dice “vacciniamo i dirigenti politici per dare il buon esempio”. Va bene. È una decisione presa? Allora avvenga per tutti. Ma che un politico scalzi tutti gli altri inventandosi regole proprie (come avviene con pessimi risultati dall’inizio della pandemia) per illuminare il proprio regno è qualcosa che ha poco senso e che è poco omogeneo con una comunicazione strutturate.

Badate bene: De Luca è quello che ieri diceva che la comunicazione sui vaccini “è stata anche anche troppo sovraccaricata dal punto di vista mediatico, sembrava lo sbarco in Normandia”. È il tempo della responsabilità? Benissimo, De Luca impari la responsabilità di attendere il proprio turno in una graduatoria di priorità che è il fondamento di una società civile, etica e responsabile.

Avrebbe avuto l’occasione di essere un ottimo testimonial di competenza e serietà standosene per una buona volta in silenzio e in disparte senza cercare un palcoscenico, avrebbe comunicato la generosità e l’altruismo dell’aspettare il proprio turno, avrebbe contribuito alla credibilità di un vaccino che no, non è un pranzo di gala. E invece niente.

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