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Draghi, Lega, ddl Zan: il male non è fare politica al Primo Maggio ma i partiti che controllano la Rai

Le domande giuste e le domande sbagliate, a prima vista, sembrano sempre più o meno la stessa cosa. La differenza è che le domande sbagliate di solito vengono poste per non ottenere risposte, ma per aumentare la polvere e la schiuma e inevitabilmente per ottenere più coinvolgimento. Più dibattito confuso, più viralità, più clic, più introiti pubblicitari e più popolarità.

Le domande sbagliate sono quelle che oggi si attorciglieranno su Fedez, come in una guerra tra galli in cui si chiede di parteggiare per il cantante o per Salvini, con Fedez o con la Rai, e infatti già scivolano le battute sulla Lamborghini, sui soldi, perfino sulla pubblicità visibile del marchio del suo cappellino.


Le domande giuste, invece, sarebbero da porre alla politica tutta, a destra e a sinistra, su un sistema che ottunde, ammortizza, diluisce tutto quello che deve passare in televisione, sulla televisione pubblica italiana, non tanto per censura ma più per una sorta di autocensura che tiene in piedi il carrozzone dell’informazione italiana in cui il primo obiettivo è quello di non incrinare relazioni che valgono molto più delle competenze per la propria carriera in Rai.

Qualcuno fa notare che non c’è stata censura poiché Fedez ha potuto comunque parlare [qui il testo integrale del suo discorso] ma si dimentica di osservare la cappa che sta sulla testa di quelli che, senza i mezzi e senza la potenza di fuoco, invece, non arrivano nemmeno allo scontro e si allineano.

Uscendo dalla diatriba tra Fedez e gli altri, allora, rimangono due punti fondamentali. Primo: che la televisione pubblica e la politica si siano adagiati su questa abitudine vigliacca di credere che i diritti vadano celebrati senza essere esercitati è la fotografia perfetta di un Paese senza coraggio.


Il Primo Maggio è la festa dei diritti ed è doveroso, ognuno secondo le proprie idee, esercitare e reclamare diritti. Altrimenti chiamatelo concerto e non ammantatelo di altri significati.

Secondo: che la politica ogni volta, ciclicamente, faccia finti di stupirsi di quel mostro che è la Rai, che la politica stessa ha creato, è un’ipocrisia intollerabile. Quello che accade a Fedez accade ai conduttori, ai giornalisti, ai collaboratori (ancora di più).

Un’azienda che ha dirigenti il cui merito è sempre quello di essere “diligenti” più che capaci è ovvio che vada a finire così e la responsabilità è tutta politica, è tutta della politica. Questa scena dei piromani che si disperano per l’incendio ce la potreste anche risparmiare, almeno per il gusto della verità e della dignità.

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Strage in mare: 130 naufragi in difficoltà da giorni, ma con le Ong lontane gli Stati hanno fatto finta di niente…

Il fatto è che ormai questi morti non pesano più, sono battute, qualche centinaio di battute che finiscono sulle pagine dei giornali, quando va bene in una notizia che è poco di più una semplice “breve”, oppure farciscono un lancio di agenzia. Perfino quelli che (giustamente) ogni giorno provano a sottolineare i quintali di carne morta per Covid non riescono ad avere la stessa attenzione per i morti nel Canale di Sicilia. Lì abbiamo deciso che “devono” morire, che “possono” morire, come se davvero nel 2021 potesse esistere una parte di mondo che preveda ineluttabile l’annegamento, va così, ci si dà di gomito, ci si intristisce di quel lutto passeggero che si dedica alle notizie di cronaca nera e quelli non esistono più, non erano nemmeno vivi prima di essere morti, quelli che attraversano il Mediterraneo esistono perfino di più quando sono cadaveri che galleggiano nel mare.

130 migranti morti, 3 barconi messi in mare dai trafficanti libici e tre navi commerciali (lì dove ci dovrebbero essere le autorità coordinate dall’Europa) a deviare dalle loro rotte per provare ad evitare il disastro che non è stato evitabile. “Gli Stati si sono opposti e si sono rifiutati di agire per salvare la vita di oltre 100 persone. Hanno supplicato e inviato richieste di soccorso per due giorni prima di annegare nel cimitero del Mediterraneo. È questa l’eredità dell’Europa?”, dice la portavoce dell’iim, l’organizzazione dell’Onu per i migranti, Safa Mshli ma anche le parole dell’Onu ormai pesano niente, sono una litania che si ripete regolarmente e che non scalfisce quest’Europa che riesce a passarla sempre liscia. Anche dal punto di vista giudiziario sorge qualche dubbio, pensateci bene: le Procure che rinviano a giudizio Salvini non si accorgono (o non si vogliono accorgere?) Delle responsabilità dell’Europa?

Perché questi non rimangono nemmeno sequestrati, questi muoiono, annegano, galleggiano sul mare e vengono recuperati senza nemmeno uno straccio di qualche fotografia di cronaca. Sopra a quei tre gommoni di gente viva che poi è morta sono perfino transitati perfino velivoli di Frontex eppure non è scappato nemmeno un messaggio di allerta alla cosiddetta Guardia costiera libica che ha pensato bene di non inviare nemmeno una delle motovedette (che le abbiamo regalato noi). Troppa fatica. Quando i morti cominciano a non valere più niente allora ci si può permettere di lasciare morire e forse un giorno ci interrogheremo sulla differenza tra lasciare morire e uccidere, forse un giorno decideremo, avremo il coraggio di riconoscere, che questa strage ha dei precisi mandanti e dei precisi esecutori.

“Quando sarà abbastanza? Povere persone. Quante speranze, quante paure. Destinate a schiantarsi contro tanta indifferenza”, dice Carlotta Sami, portavoce dell’alto commissariato per i rifugiati e il dubbio è che ormai non sarà più abbastanza perché quando si diventa impermeabili ai morti allora quelli aumenteranno, continueranno a morire ancora di più, continueranno a cadere e intorno non se ne accorgerà nessuno. Centotrenta persone annegate. Le autorità dell’Ue e Frontex sapevano della situazione di emergenza, ma hanno negato il soccorso. La Ocean Viking è arrivata sul posto solo per trovare dieci cadaveri: è un’epigrafe che fa spavento ma che non smuove niente.

Sono passate due settimane da quando il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ringraziato la guardia costiera per i “salvataggi” e quando qualcuno si è permesso di ricordare che in Libia e in quel tratto di mare mancano completamente tutti i diritti fondamentali i sostenitori del governo si sono perfino risentiti. E la storia di questo annegamento, badate bene, non è nemmeno un incidente: comincia mercoledì alle ore 14.11 con il primo allarme e si è conclusa il giorno successivo alle 17.08 con una mail di Ocean Viking che comunicava di avere trovato “i resti di un naufragio e diversi corsi, senza alcun segno di sopravvissuti”. Nessuna motovedetta libica all’orizzonte. Lì sono annegati loro ma in fondo continuiamo ad annegare anche noi e la cosa mostruosa è che ci siamo abituati.

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Calabria, tutti attaccano Morra: così, però, non si parla più dell’arresto di Tallini

Possiamo tornare al punto, gentilmente? Perché l’arresto di Mimmo Tallini e il quadro indiziario che emerge dall’ordinanza del gip Giulio De Gregorio (che ha accolto la richiesta della Direzione distruttale antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri) disegna un contesto, al di là di quello che dirà l’eventuale processo, su cui varrebbe la pena riflettere. Perché ora sotto la lente dei Ros ci sono anche le comunali di Catanzaro del 2017, le politiche del 2018 e le elezioni regionali del 2020. Nelle carte di legge del Consorzio Farma Italia e della collegata Farmaeko che sono tenute in pugno dalla cosca Grande Aracri di Cutro, nate e subito fallite, come immagine di una regione in cui la malapianta continua a raccogliere frutti.

“Tutto ciò avverrà – scrive il gip De Gregorio – perché l’enorme profittabilità prospettata inizialmente non era riferita a particolari capacità imprenditoriali dei criminali che la dovevano governare, ma allo sfruttamento dei contatti con politica ed economia, all’accesso a risorse finanziarie illecite senza dover corrispondere interessi, alla sostanziale irregolarità delle condizioni di lavoro, ai metodi truffaldini di approvvigionamento”.

C’è un antennista vicino alla cosca come Domenico Scozzafava, legato a Grande Aracri ma anche a Pierino Mellea, il nuovo boss dei Gaglianesi, che votava e faceva votare Domenico Tallini: uno che andava in giro a piazzare bottiglie incendiarie con un pistola con matricola abrasa ed è diventato uomo vicino al presidente del consiglio regionale Tallini. Sono le solite commistioni che raccontano di funzionari in regione che se non eseguono gli ordini del politico di turno vengono rimossi in favore di qualcuno più accondiscendente. L’abbraccio perverso tra economia, politica e ‘ndrangheta è un tema che, al di là degli esiti giudiziari, esce con forza dal punto di vista etico.

Quindi, al di là del caso Morra e della sua infelice uscita, cosa hanno da dire su questo i leader del centrodestra? Oltre alle parole del grillino hanno qualcosa da dirci su un politico già segnalato dalla commissione antimafia diventato così facilmente presidente del consiglio regionale? Salvini che ora lo scarica sa che sono i suoi alleati con cui governa la Calabria? Giorgia Meloni, tutta ordine e disciplina, che ne pensa della fotografia che emerge? Perché tra poco in Calabria si vota e dalle parti del centrodestra qualcuno ha il coraggio di pensare al sindaco di Catanzaro Sergio Abramo come candidato, un uomo vicinissimo proprio a Mimmo Tallini.

Leggi anche: ‘Ndrangheta, arrestato presidente del Consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini

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“Quello che mi resta di mamma morta di Covid? Un sacchetto con le sue cose infette”, la terribile storia di Moira

Una foto che gronda solitudine, un sacchetto rosso appoggiato per terra con gli indumenti e gli effetti personali della madre morta di Covid all’Irccs Policlinico San Donato. Moira Perruso, che di mestiere è una giornalista ma si occupa anche di fotografia, ha condiviso quel momento sul suo profilo Facebook: «Ai miei piedi ciò che mi restituiscono di mia madre… Non posso nemmeno buttarmi a capofitto su quegli abiti per sentire ancora una volta il suo odore, sono infetti… Per chi nega, per chi specula, per chi non ha protetto: che possiate sentire anche voi il rumore del cuore in frantumi». In poco tempo sul suo post si sono accavallate centinaia di testimonianze di persone che hanno vissuto lo stesso dolore.

«Il post è nato – mi racconta Moira – perché ho chiamato l’ospedale, volevo indietro le cose di mia madre, la sua fede nuziale, una collanina che indossava sempre e che le avevamo regalato noi. “Posso riavere gli oggetti di mia mamma?”, ho chiesto. Quando sono arrivata al Policlinico, al settimo piano del reparto Covid un infermiere mi ha adagiato il sacchetto, con anche i suoi vestiti, e mi ha chiesto una firma. Quel momento mi si è fissato negli occhi e ho voluto fotografarlo perché era un fatto emotivo personale ma anche un fatto pubblico, qualcosa che sta accadendo a migliaia di persone. Solo oggi ho ricevuto centinaia di mail di figli che hanno ritirato così le cose di un genitore. Mia madre stava bene, cresceva i nipoti, tutta una vita messa ai miei piedi. In quel momento mi sono detta: come si fa a negare questa evidenza? Come si fa a dire: “Non muori per Covid ma muori con il Covid”».

Già, questo gioco di frugare tra le parole per sminuire. Mia madre è morta di Covid, mia madre stava bene e ora è un mucchio di vestiti infetti. Capisco anche i medici, non hanno il tempo fisico per trattare il dolore, non possono anche curare “l’umano”, ma io ho avuto il cuore in frantumi. Mi è stata negata anche la “liturgia” della morte, non ha potuto indossare quel maglione rosso che amava, nessuno che la teneva per mano. Era una donna riservata e dignitosa. Ora quando mi addormento la penso sigillata dentro un sacco. Ma come si fa a non avere la responsabilità di proteggere il prossimo? Non possiamo pensare di dare colpa alla politica se non siamo responsabili come individui. La giustizia non è una delle virtù cardinali? Moira ce l’ha con i negazionisti.

Non si può negare, non è più tempo, non si può dire che i Pronto Soccorso sono vuoti, non si può avere il coraggio di dire che le ambulanze girano vuote. Il negazionista cos’ha? Paura della morte? Da che cosa è afflitto? Becera ignoranza? Il mio dolore non è un complotto. Mi è stato negato il diritto di seppellire mia madre e non so nemmeno dove sia in questo momento. Mi è stata negata anche la morte, di mia madre. Sono arrivate tantissime testimonianze. Forse c’è bisogno di parlare del dolore, se ne parla ancora troppo poco. Sì, si sta parlando troppo poco del dolore, nella narrazione si trascurano le persone. I protocolli tra ospedali cambiano: mio padre (anche lui malato di Covid) è all’Humanitas e mi chiamano tutti i giorni per aggiornarmi sulle sue condizioni di salute mentre per mia madre ho dovuto implorare dopo otto giorni di sapere qualcosa, poi mi hanno detto che l’avrebbero svezzata e che andava tutto bene, poi le hanno messo il casco poi la morfina, poi è morta.

Non l’ho più sentita. Ma questa cosa me l’hanno raccontata un migliaio di persone, che è anche una responsabilità, per me. Ho l’immagine di mia mamma terrorizzata che si sarà chiesta che fine avrà fatto la sua famiglia. Lei mi ha accudito per 50 anni e io non sono stata capace di accompagnarla nella morte. Lo so, è una roba scontata, ma dov’è lo straordinario nel dolore? È un momento in cui siamo di fronte a un fatto che sta cambiando il mondo e il nostro modo di affrontare il dolore. E forse chi nega semplicemente ha una paura fottuta.

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Poveri veri poveri finti

Per alcuni piccoli imprenditori, artigiani, commercianti o ristoratori le nuove misure anti Covid rischiano di essere un colpo ferale alle proprie finanze. C’è anche da dire, però, che quando in Italia si tratta di rivendicare dei mancati incassi i numeri sballano

Sarà una mannaia. Sarà pesantissima. Chiunque di noi conosce qualcuno che subirà il probabile prossimo lockdown come colpo ferale alla proprie finanze. Non si tratta di ricchi imprenditori o persone che si possono permettere di perdere un giro: sono piccoli imprenditori o artigiani o commercianti o ristoratori che hanno galleggiato per anni e che ogni mese riuscivano a fatica a rimanere sopra la linea di galleggiamento.

Per alcuni piccoli imprenditori, artigiani, commercianti o ristoratori le nuove misure anti Covid rischiano di essere un colpo ferale alle proprie finanze. C’è anche da dire, però, che quando in Italia si tratta di rivendicare dei mancati incassi i numeri sballano anche se in pochi hanno voglia di parlarne. Perché come scriveva qualche giorno fa Alberto Brambilla sul Corriere della Sera: «Quasi la metà degli italiani, 29,204 milioni pari al 48,38%, non ha redditi e vive quindi a carico di qualcuno. Verrebbe da dire una percentuale atipica, degna di un Paese povero e non certo membro del G7, se non fosse che le stime su consumi, spese e possesso di determinati beni (telefonia, alcol, tabacco, gioco d’azzardo, etc.) vadano invece a smentire questa tesi e a puntare piuttosto il dito su un’elusione fiscale mai efficacemente contrastata in Italia, anzi, anche molto incentivata da una miriade di bonus e sconti assegnati a chi dichiara redditi bassi».

Il 13% dei contribuenti con redditi da 35 mila euro in su versa circa il 58,9% di tutta l’Irpef. La fotografia corrisponde al reale? È una bella domanda. Come sarebbe da chiedersi che ce ne facciamo, proprio in periodo di crisi, di vistose attività che aprono con nessuna ragionevolezza dal punto di vista dell’investimento e riempiono le nostre città. Case che vengono costruite in un periodo in cui nessuno ha soldi per comprare case. Bar che stanno nel paesello e sembrano degni di New York e non hanno bisogno di clienti. Ipermercati costruiti talmente attaccati da non avere senso. E così via. Cose che sono solo soldi che hanno bisogno di non avere la forma e il colore e l’odore dei soldi.

Ora c’è il Covid, vero. Ma sarebbe il caso di parlarne, prima o poi.

Buon mercoledì.

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La nemesi di Salvini: quello che mangia in diretta tv contestato anche dai ristoratori

 

 

L’errore sta nel ritenerlo un politico, che ragiona da politico, che agisce da politico, mentre Matteo Salvini è solo un influencer, che infila delle serie ragguardevoli di stecche, che annusa il vento e che immagina la sua posizione semplicemente all’opposto rispetto alle decisioni del governo. Come se fare opposizione sia sbattere i piedi, dire no no no e ripetere che il pallone è suo e che alla fine non si gioca, se non si gioca come dice lui.

Così accade che, se lo spazio vuoto diventa quello dei No Mask o dei negazionisti, lui ci si butta subito dentro, analizzando i logaritmi dei social e proponendosi come padre adottivo di temi che infiammano la rete. Non è nemmeno un influencer, a pensarci bene, nemmeno quello: un influencer piazza un prodotto e invece Salvini non ha nemmeno il prodotto. Semplicemente cavalca qualcosa che già c’è sotto traccia e ci si siede sopra per covarlo con l’ambizione di rappresentarlo.

Così si ritrova, confidando nella memoria breve dei suoi elettori, a dire nel giro di qualche ora che non ci sarà nessuna seconda ondata e, quando l’ondata del virus arriva, cambia rotta accusando gli altri di essere irresponsabili, quella stessa irresponsabilità che ha vomitato per mesi. Un marchettaro dalle mille facce che, non avendo idea, deve per forza fotografarsi con i prodotti e con le idee degli altri fingendo che siano sue, come un avvoltoio sempre pronto a fiutare qualche nuovo malcontento per cavalcarlo senza nessun senso di responsabilità.

E le sue figuracce si moltiplicano, a dismisura. Negli ultimi giorni qualcuno sperava che almeno si nascondesse, che chiedesse scusa, che guardasse i numeri della “sua” Lombardia e che ci spiegasse per bene cosa stia avvenendo. E invece eccolo qui, ancora, che prova a dare lezioni mentre sta accadendo per l’ennesima volta l’esatto contrario di quello che aveva previsto.

Ma la parabola di Salvini si potrebbe spiegare con il suo rapporto con il cibo, quello è un manifesto perfetto: ha cominciato fotografando cibo tutti i giorni, si è fatto immortalare mentre sbaffava cibi italiani in nome del  patriottismo culinario e ieri, nel Paese dei cuochi, è riuscito perfino a farsi cacciare dai ristoratori.

Immaginate una Ferragni che viene rincorsa mentre le lanciano dietro le sue scarpe: potrebbe accadere? No, a un influencer no, ma a Salvini sì. E non se ne vergogna nemmeno un po’. Ma, in fondo, i cuochi che cacciano l’aspirante food blogger è l’ennesima fotografia di quello che Salvini vale.

Leggi anche: 1. Salvini contestato in piazza dai ristoratori: “Buffone, vai via!” | VIDEO / 2. Divorare ciliegie mentre si parla di bambini morti: non c’è da ridere, c’è da avere paura (di G. Cavalli) / 3. Mentre a Catania la terra torna a tremare Matteo Salvini pubblica un selfie in cui mangia pane e Nutella

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I rider di Uber Eats erano schiavizzati: la compagnia commissariata per caporalato

L’inchiesta su Uber Italy che vede coinvolte 10 persone per caporalato tra cui la manager di Uber Gloria Bresciani è la perfetta fotografia di un momento storico, al di là poi della rilevanza giudiziaria: sistematizzare le disperazioni per poterle spolpare fino all’ultimo centesimo appoggiandosi sulle povertà e nascondendosi dietro l’algoritmo di una piattaforma è il comandamento degli sfruttatori del 2020, gli schiavi non sono più solo nei campi con le schiene spezzate ma macinano chilometri sotto il sole o sotto la pioggia per la miseria di una lavoro sottopagato a cottimo come nelle peggiori storie di secoli fa.

È uno schiavismo scintillante, quello del delivery che ci porta comodamente i cibi a domicilio, che una certa narrazione è riuscito addirittura a rivenderci come una conquista. Solo che nel vocabolario impolverato dei diritti ormai sembra essersi smarrito il senso che una “conquista” lo è se porta vantaggi a tutti e invece qui ci troviamo di fronte a lavoratori, ancora una volta, stretti nella morsa di azienda e clienti.

Tra gli indagati anche Danilo Donnini e Giuseppe e Leonardo Moltini, amministratori della Flash Road City Srl e della Frc Sr, che andavano a cercare carne da macello da fare salire in bicicletta nelle sacche più in difficoltà delle storture politiche: i “pericolosi” immigrati in attesa di protezione umanitaria, quegli stessi che vengono già mangiati da certa propaganda politica, tornavano utilissimi per diventare manovalanza. Sono perfetti, se ci pensate, per un certo tipo di capitalismo: si ritrovano in una posizione di debolezza per reclamare diritti e hanno troppa fame per rinunciare a un lavoro.

Si legge nelle carte del pm di Milano Paolo Storari che gli indagati “approfittavano dello stato di bisogno dei lavoratori, migranti richiedenti asilo dimoranti nei centri di accoglienza straordinaria, pertanto in condizione di estrema vulnerabilità e isolamento sociale” e li destinavano al lavoro per il gruppo Uber “in condizioni di sfruttamento”. Pagamenti a cottimo per 3 euro a consegna, indipendentemente dalle distanze da percorrere e dalla fascia oraria, mance dei clienti che venivano sottratte, punizioni arbitrarie: “Abbiamo creato un sistema per disperati, ma i panni sporchi si lavano in casa”, diceva intercettata al telefono la manager di Uber. Consapevoli di essere degli schiavisti e sicuri di poter ambire all’impunità. Forse sarebbe il caso di imparare presto i nuovi riferimenti per riconoscere le nuove schiavitù. In fretta.

Leggi anche: Rider sfruttati, Uber Italia commissariata dal tribunale

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Il caso Suarez ci dice che in Italia gli immigrati ricchi si accolgono e quelli poveri si odiano

È la fotografia della distorsione di un paese e, per questo, la vicenda del calciatore del Barcellona Luis Suarez va raccontata per bene e va tenuta a memoria. Non tanto per le dimensione di un’indagine, quella della Procura di Perugia, che forse ha scovato i soliti furbi fare i furbi per mettersi a disposizione del luccicante mondo dei ricchi, ma perché le disuguaglianze sono talmente evidenti che basta mettere in fila i fatti per comprendere come in Italia ci siano diverse velocità (e forse anche regolarità) di procedura per ottenere un diritto.

E cosa c’è di più schifoso di un diritto che dovrebbe universale e invece è accessibile solo a chi può permetterselo? Un calciatore del Barcellona nato in Uruguay briga per ottenere la cittadinanza italiana (ha sposato un’italiana) in poche settimane. È la stessa cittadinanza che, lo dicono le statistiche, tanti attendono in media in quattro anni. Anni contro settimane, tanto per rendere l’idea.

Suarez doveva ottenere la cittadinanza per firmare per venire a giocare in Italia e sostiene, come tutti, un esame di italiano. Secondo le intercettazioni Suarez “non coniuga i verbi”, “parla all’infinito” e quindi concordano l’esame “perché con 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare”, dicono gli esaminatori e quindi il calciatore “sta memorizzando le varie parti d’esame” e addirittura il voto finale è stato comunicato in anticipo al candidato. Prima di un esame che è durato una manciata di minuti quando di solito dura circa due ore e mezza.

Così ora la Procura di Perugia indaga, tra gli altri, il Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, Giuliana Grego Bolli, e il direttore Generale dell’università, Simone Olivieri. Ma in fondo, se ci pensate bene, Suarez ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare un italiano, un italiano di quelli che sono convinti che questo Paese appartenga ai furbi, ai ricchi, agli amici degli amici, alle raccomandazioni, al servilismo di certi funzionari, al seguire gli interessi prima ancora delle regole e alla prepotenza di chi può permettersi di comprare risultati che andrebbero conseguiti per merito.

In questa sua predisposizione Suarez ha dimostrato di essere perfetto per diventare un italiano di quelli. Resta solo da spiegare ai tanti che sono italiani di fatto, ma che lottano per anni per vedersi riconosciuti, che gli immigrati qui pesano in base al loro reddito. Si accolgono i ricchi e si odiano i poveri, semplice semplice. E così quella che era già una farsa ora diventa ancora più vergognosa.

Leggi anche: Suarez, cittadinanza italiana ottenuta con truffa: il punteggio attribuito prima della prova

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Le ossa rotte di Salvini in Toscana e Veneto: il declino del leader leghista

Bacioni, Salvini. Il leader leghista continua il suo filotto di sconfitte che rivende come vittorie e esce con le ossa rotte dalle elezioni regionali. Torniamo indietro di qualche ora: Matteo Salvini non riesce a non smargiassare e per mesi continua a urlacciare dappertutto che queste elezioni sarebbero state quelle che avrebbero “mandato a casa Conte e il suo governo” e che avrebbero dimostrato che la gente non ne poteva più del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle. Rendere delle elezioni regionali come cartina di tornasole del quadro nazionale è sempre un rischio ma il leader leghista ha questa grande, invidiabile caratteristica: le sbaglia tutte.

Così nonostante i suoi soliti messaggi che solleticano i soliti stomaci (riuscire a parlare solo di migranti in occasione di elezioni locali è una banalità da fuoriclasse) Salvini riesce a uscirne male in Toscana (dove la candidata Ceccardi era una “sua” creatura) e riesce a farsi sconfiggere perfino dal legista Zaia che in Veneto con la sua lista personale prende il triplo dei voti della lista ufficiale della Lega.

Dalle parti della Lega minimizzano ma proprio in Veneto Salvini pretese che tutti gli assessori uscenti fossero capilista della lista del partito e proprio in Veneto Salvini scrisse ai 400 segretari locali del Carroccio per invitarli a votare la lista ufficiale del partito e non quella di Zaia: missione fallita, evidentemente, lo dicono i numeri. “La lista del presidente intercetta il consenso che non va al partito”, ha detto ieri Zaia in conferenza stampa: chi ha orecchie per intendere intenda. I numeri, si sa, non mentono e i numeri dicono che i consensi della Lega sono in calo in tutti i territori e solo l’enorme ascesa di Giorgia Meloni è riuscita a tamponare una sconfitta di proporzioni maggiori.

Matteo Salvini politicamente negli ultimi 13 mesi, dal famoso pomeriggio del Papeete, è riuscito a sbagliarle tutte e se serve una fotografia di queste sue elezioni basta andare a Lesina, provincia di Foggia dove l’unico candidato sindaco era proprio un leghista: “Un sindaco pugliese lo abbiamo già eletto ancor prima del confronto elettorale”, disse Salvini il 23 agosto. Sbagliata anche questa: il candidato sindaco è riuscito nella mirabile impresa di non raggiungere nemmeno il quorum. Niente da fare.

Se, come diceva Salvini, queste elezioni sarebbero state la spallata definitiva del governo Conte e il primo passo per il suo ritorno al governo…Beh, Conte può dormire sonni tranquilli. Bacioni, Salvini.

TUTTO SULLE ELEZIONI REGIONALI 2020

TAGLIO DEI PARLAMENTARI: TUTTO SUL REFERENDUM COSTITUZIONALE

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La disperazione è un fiume

Fiume Adda, nei pressi di Sondrio. C’è questa storia che è un romanzo da tenere sullo scaffale per tutto quello che ci racconta, una storia che sfugge ai giornali ma che è una fotografia, densissima, di come si fa piccolo l’uomo di fronte al dolore e di come manchino perfino le parole per raccontarlo.

Il primo settembre scorso sul quel tratto di fiume è annegata Hafsa, una ragazzina di quindici anni che stava attraversando il fiume per raggiungere una spiaggetta a nuoto insieme a alcuni amici. Le ricerche delle forze dell’ordine e dei vigili del fuoco si sono concluse da giorni, niente di fatto, nessun corpo è stato trovato. Chissà dov’è finito, con questa prepotenza del fiume, raccontano quelli che qui ci abitano da generazioni e che conoscono bene i pericoli di quell’acqua così infida. Hanno perfino svuotato il bacino di Ardenno ma della ragazza non c’è alcuna traccia.

Il padre di Hafsa quel maledetto primo settembre era in Marocco e da quando è tornato è tutti giorni lì, in riva al fiume. Arriva con la sua auto, parcheggia e cammina per ore, sul bordo e nell’acqua. L’immagine di lui che cammina controcorrente con l’acqua che gli arriva alla vita è la fotografia della disperanza che cerca sollievo anche solo decidendo di non arrendersi, perfino di fronte all’ineluttabile. È la sindone di un genitore che torna tutti i giorni a fare i conti con il suo dolore.

“Ho contattato i carabinieri per dire loro che io continuo a cercarla” ha detto il papà a La Provincia di Sondrio. “Devo ringraziare i ricercatori, che sicuramente hanno fatto un buon lavoro, ma non sono riusciti a trovare mia figlia. E io non posso smettere di cercarla. Mi sto dando da fare per trovarla e spero che ci sia qualcuno che con buona volontà voglia mettersi a disposizione per aiutarmi. Io mi avvicino al fiume, a volte ci entro anche, rimanendo vicino alla riva. So nuotare bene e non voglio correre rischi, ma spero di trovare Hafsa, che magari è incagliata da qualche parte. O spero di essere lì quando il fiume la restituirà. Non posso rimanere a casa ad aspettare”.

Si tuffa ogni giorno, nel suo dolore.

Buon lunedì.

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