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giovanni brusca

Milano e quelle brutte scritte: la memoria di via Palestro sia ancora più forte

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Chissà se l’esercito milanese di detersivo e spugnette è pronto per scendere in piazza contro un’offesa ben più grave alla città e alle sue memorie più drammatiche. Intanto vale la pena leggere l’articolo di Aaron Pettinari:

“No 41 bis”, “41 bis= Tortura”. Eccole, alla vigilia delle commemorazioni per la strage di via Palestro, apparire sui muri delle vie di Milano (piazza Leonardo Da Vinci, piazzale Maciachini, uno dei viadotti in zona Mac Mahon, viale Monza all’altezza di Precotto, Villa San Giovanni, viale Monteceneri, alcuni dei luoghi dove sono state rinvenute, ndr) le scritte contro il regime del carcere duro che viene applicato ai condannati soprattutto per mafia e terrorismo ma anche a sequestro di persona e sfruttamento della prostituzione minorile.
Chi ha scritto quel terribile messaggio alla vigilia di una delle stragi del 1993? Certo è che appare impossibile pensare ad una coincidenza se si considera che proprio gli attentati di quell’anno a Firenze (provocando l’uccisione di 5 persone), in via dei Georgofili nella notte fra il 26 e il 27 maggio, Milano (in via Palestro causando altre 5 morti) e Roma, con danneggiamenti alle chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, erano ritenute un chiaro messaggio di Cosa nostra proprio contro il regime del 41 bis introdotto dalla Legge Gozzini nel 1992.

Lo scriveva chiaramente la Dia, in una nota firmata da Gianni De Gennaro inviata al Ministro dell’Interno Mancino il 10 agosto 1993, analizzando l’excursus di stragi avvenute prima in Sicilia (Capaci e via d’Amelio) e poi in continente.
“La strage di Capaci e l’omicidio di Salvo Lima sono da interpretare come due momenti significativi di una strategia a difesa di Cosa Nostra – si legge nella relazione – dopo la strage di via d’Amelio, Cosa Nostra è divenuta compartecipe di un progetto designato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato”. Quindi viene fatto un chiaro riferimento alle bombe piazzate a Roma, Firenze e Milano. “La scelta dei tempi di esecuzione (delle stragi di Roma, Firenze e Milano) appare legata ad una concreta possibilità per i mass media, e in particola per le reti televisive, di intervenire con assoluta tempestività amplificando e drammatizzando gli effetti delle esplosioni con le riprese in diretta”. Una strategia per “insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche moto più accettabili per Cosa Nostra. La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”.
E’ in questo documento che il termine trattativa compare per la prima volta. Che il 41 bis fosse al centro del dibattito lo ha persino dichiarato nella sua deposizione al processo trattativa Stato-mafia l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (Le stragi mafiose del ’93 si susseguirono secondo una logica unica e incalzante per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut aut, perché potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure di custodia in carcere dei mafiosi”), segno che in ambito istituzionale si aveva questa percezione. Un dato poi confermato proprio dalle note della Dia e dello Sco a firma di Manganelli. “Verosimilmente – continua la nota di De Gennaro – la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo. È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”.
Un consiglio, quest’ultimo, che evidentemente non venne considerato dal Ministro della Giustizia Giovanni Conso che nel novembre dello stesso anno lascerà scadere il regime di 41 bis per 373 detenuti mafiosi dando luogo proprio a quel primo segnale di cedimento.

Striscione contro il 41 bis
Quella contro il 41 bis è una battaglia storica dei parenti dei detenuti che vi sono sottoposti. E’ uno dei punti del famigerato papello di Riina (il documento con le richieste di Cosa nostra, tra cui anche la “dissociazione” consegnato lnel 2009 da Massimo Ciancimino ai pm di Palermo) di cui parlò il pentito Giovanni Brusca e secondo l’accusa dei pm del processo trattativa è stato uno dei cardini di quel dialogo tra Stato e mafia che veniva condotto a colpi di bombe. Non solo. Fece scalpore nel 2002 la comparsa allo stadio di Palermo di uno striscione contro il 41 bis durante la partita Palermo-Ascoli del 22 dicembre. Ed è chiaro che oggi, con questi nuovi murales che hanno invaso la città di Milano, si vive una sorta di flash back. “Stanno comparendo diverse scritte in tutta Milano contro il 41 bis”, ha lanciato l’allarme nei giorni scorsi David Gentili, presidente della commissione antimafia del comune di Milano. “Scritte particolari – ha spiegato – bianche, a caratteri grandi, grafia incerta, ma ben studiate. L’assessore Rozza ha già dato indicazione per cancellarne tre. Segnalazioni sono giunte per Piazza Sire Raul, Piazza Maciachini e una, non specificata in zona San Siro”. Poi, l’invito ai cittadini a non far finta di non vedere. “Se ne individuate qualcuna – ha scritto Gentili – inviate a me o al Presidente di Zona, oppure all’assessore le indicazioni. Le faremo cancellare immediatamente. Per la commemorazione della Strage di Palestro, ci piacerebbe coinvolgere i cittadini stessi nel censurare con nettezza una campagna aggressiva, anonima, di sostegno ai mafiosi, che ci preoccupa. Vi prego di condividere il messaggio”.
Per la strage che causò la morte dei Vigili del Fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’Agente di Polizia Municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina vennero condannati Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali.
Nel 2002, in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l’arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso (“uomini d’onore” di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell’esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente la strage. Nel 2003 la Corte d’Assise di Milano condannò i fratelli Formoso all’ergastolo e tale condanna venne confermata nei due successivi gradi di giudizio.
A riaprire lo scenario della strage è stato poi il pentimento dell’ex boss di Brancaccio Gaspare Spatuzza. In particolare, Spatuzza riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Vittorio e Marcello Tutino (mafiosi di Brancaccio) parteciparono ad una riunione in cui vennero decisi i gruppi che dovevano operare su Roma o Milano per compiere gli attentati. Secondo Spatuzza, Formoso e i fratelli Tutino operarono su Milano e in un primo momento lui, Lo Nigro e Giuliano li raggiunsero per aiutarli nello scarico dell’esplosivo e nel furto della Fiat Uno utilizzata nell’attentato, per poi tornare a Roma al fine di compiere gli attentati alle chiese. Spatuzza scagionò Tommaso Formoso, dichiarando che all’attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l’esplosivo ma questo non fu sufficiente per la Corte d’Assise di Brescia che rigettò la richiesta di revisione del processo allo stesso Formoso.
Lo scorso 27 giugno si è poi concluso il processo nei confronti di Marcello Tutino, che era stato accusato di essere il “basista” della strage. La Corte d’Assise ha decretato l’assoluzione “per non aver commesso il fatto” ai sensi del secondo comma dell’art.530 del codice di procedura penale (ovvero la vecchia insufficienza di prove, pre riforma).

Arrestato il boss (latitante) Mazzei

Santo Mazzei
Santo Mazzei

Il boss latitante ‘Nuccio’ Mazzei, figlio dello storico capomafia Santo, detto ‘U carcagnusu’, detenuto al 41bis, ‘uomo d’onore’ collegato a Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, è stato arrestato dalla polizia di Stato di Catania in collaborazione il Servizio centrale operativo di Roma. Ritenuto alla guida dall’omonimo clan mafioso, era irreperibile dall’aprile dello scorso. Agenti della squadra mobile lo hanno catturato a Ragalna, paese etneo dove si nascondeva con la moglie. ‘Nuccio’ Mazzei non era armato. ‘Nuccio’ Mazzei era latitante dall’aprile del 2014 quando sfuggì al blitz ‘Scarface’ della guardia di finanza di Catania. Secondo l’accusa, il boss e i suoi più stretti collaboratori gestivano direttamente degli affari dei ‘Carcagnusi’, e in particolare il “reinvestimento dei proventi derivanti dalle attività illecite – e non soltanto estorsioni, ma anche bancarotte aggravate dal metodo mafioso – nel circuito legale, attraverso l’acquisto di attività economiche, tutte fittiziamente intestate a prestanome”. Sebastiano Mazzei era ancora irreperibile l’8 luglio 2014 quando Dia di Catania e Carabinieri di Randazzo eseguirono l’operazione antimafia ‘Ippocampo’. Il boss era accusato di associazione mafiosa e traffico di droga in collegamento con organizzazioni criminali calabresi della Piana di Gioia Tauro. Secondo l’accusa, il clan esercitava una posizione di predominio criminale nel rione San Cristoforo di Catania e, secondo quanto riferito da più pentiti alla Dda della Procura, avrebbero avuto un ruolo nel progetto di guerra di mafia tra i ‘Carateddi’ e la ‘famiglia’ Santapaola scongiurata dagli arresti delle forze dell’ordine.

Il capo della polizia, prefetto Alessandro Pansa, secondo quanto si è appreso, ha telefonato al questore di Catania, Marcello Cardona, per “congratularsi con lui e i suoi uomini per il brillante lavoro che ha portato alla cattura del boss Sebastiano Mazzei”, figlio dello storico capomafia Santo, detenuto in regime di 41bis e fatto uomo d’onore nel 1992 da Leoluca Bagarella.

(clic)

In un Paese normale

Ci sarebbero tutte le orecchie appoggiate alla porta dell’Aula dove si svolgono le udienze del processo sulla “trattativa” Stato-mafia almeno per produrre un rumore tale da non costringere gli interessati politici (diretti e indiretti) a prendere una posizione o che ne so, abbozzare una smentita.

Le parole di Brusca, ad esempio:

“All’inizio degli anni ’90 –  spiega il pentito – è venuto meno il riferimento di Andreotti, l’intento di Pino Lipari era di dare vita a un movimento politico di imprenditori, un progetto che condividevo completamente. L’obiettivo era acquisire il potere politico, prima in Sicilia e poi a livello nazionale”. Di fatto si trattava di un progetto che avrebbe dovuto alzare il livello politico di Cosa Nostra, anche attraverso l’aggressione violenta nei confronti degli esponenti degli altri partiti. “A questo fine avevamo progettato di indebolire la sinistra e avevamo individuato in Carlo De Benedetti il sostenitore della sinistra. Parlando con Riina, c’era il progetto, mai concretizzato, di eliminare questo ostacolo per indebolire quella parte politica e concretizzare il progetto politico”. “Nel 1991 – specifica Brusca – c’era l’interesse a contattare Dell’Utri e Berlusconi per poter arrivare a Bettino Craxi, che ancora non era stato colpito da Mani Pulite, perché intervenisse sulla Cassazione per la sentenza del maxiprocesso”.

La sinistra sapeva
“La sinistra, a cominciare da Mancino, ma tutto il governo, in quel momento storico, sapeva quello che era avvenuto in Sicilia: gli attentati del ’93, il contatto con Riina. Sapevano tutto. Che la sinistra sapeva lo dissi a Vittorio Mangano quando lo incontrai. Gli dissi anche: ‘i servizi segreti sanno tutto ma non c’entrano niente’. Mangano comprese e con questo bagaglio di conoscenze andò da Dell’Utri”. Non è la prima volta che lo stesso Brusca nomina “la sinistra che sapeva”. Al termine della requisitoria del pm Nino Di Matteo all’udienza preliminare del processo sulla trattativa (tenutasi lo scorso 9 gennaio davanti al gup Piergiorgio Morosini,ndr) l’ex boss aveva reso dichiarazioni spontanee ben precise. “Non sono stato io il primo a dire che la Sinistra sapeva della trattativa – aveva sottolineato Brusca –, l’aveva detto già Riina in un processo e in quella sede aveva incluso nella Sinistra i comunisti”.

Quell’incontro di Natale
Nel suo racconto Brusca ricorda l’incontro di Natale del ‘92 insieme a Totò Riina e ad altri boss di primaria grandezza. In quella occasione Salvatore Biondino aveva preso una cartellina di plastica che conteneva un verbale di interrogatorio del pentito Gaspare Mutolo per poi commentare con sarcasmo le sue dichiarazioni: “Ma guarda un po’, quando un bugiardo dice la verità non gli credono”. Di fatto Mutolo aveva parlato di Nicola Mancino, con particolare riferimento all’incontro di quest’ultimo con Paolo Borsellino, successivamente sempre negato dallo stesso Mancino. In quella stessa riunione di Natale Totò Riina aveva definito Mancino il “terminale” del papello.

Stato Mancino

Giovanni Brusca in aula accusa l’ex ministro Nicola Mancino: “Era lui il destinatario finale del papello”, il documento con le richieste di Cosa Nostra allo Stato per fermare le stragi. L’ex pentito ha deposto nell’aula bunker romana di Rebibbia davanti al gup di Palermo Piergiorgio Morosini, nell’ambito dell’udienza preliminare per la trattativa Stato-mafia, in cui è tra gli imputati. Il “papello”, che conteneva le condizioni del boss corleonese Totò Riina, sarebbe stato affidato dai vertici di Cosa nostra all’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, nell’estate del 1992 in contatto con due ufficiali del Ros, il generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. Dice Brusca: “Fra le stragi Falcone e Borsellino, Riina mi disse che le nostre condizioni non erano state accettate, e che era necessario dare un altro colpetto. In questo contesto, Riina fece il nome di Mancino”. Da Repubblica

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Giuseppe Di Matteo, per non perdere il senso del cuore

Consapevoli che l’ostaggio sarebbe stato ucciso, insieme a numerosi mafiosi agrigentini e del nisseno hanno gestito il sequestro di Giuseppe, appena dodicenne, prelevato il pomeriggio del 23 novembre 1993 da un maneggio di Villabate da un commando di mafiosi camuffati da agenti della Dia che lo convinsero a salire in auto raccontandogli che avrebbero dovuto portarlo dal padre. ‘’Papà, amore mio’’, esclamò il ragazzino, e quelle parole segnarono l’inizio di un incubo concluso la sera dell’11 gennaio 1996 quando Giovanni Brusca apprese dalla tv che era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo reagì ordinando l’omicidio del piccolo Giuseppe, tenuto attaccato ad una catena e ridotto ormai ad una larva umana. A strangolarlo furono Enzo Chiodo ed Enzo Brusca, fratello di Giovanni, e il corpo fu poi disciolto nell’acido. Ora sono arrivate le condanne.