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Giuseppina pesce

Siamo alle bombe

'Ndrangheta:attentato con bomba mano a cognato pentita PesceUna bomba, una granata: Giuseppina Pesce, la trentaquattrenne collaboratrice di giustizia che sta svelando i meccanismi della cosca Pesce a Rosarno, spaventa la ‘ndrangheta che risponde con una bomba che avrebbe dovuto uccidere il fratello del suo nuovo compagno. La credibilità di uno Stato si misura anche dalla protezione che è in grado di dare, questo è ovvio, e dalla forza con cui reagisce alle recrudescenze più violente. Per questo Giuseppina Pesce (che ha parlato, fatto nomi, portato ad arresti) è un capitale antimafioso che va protetto anche dalla società civile tutta. Perché se siamo alle bombe significa che funziona e che bisogna disinnescare le vendette, in tutti i sensi possibili. Parlandone, parlandone, parlandone.

Domenico Leotta arrestato.

20130202_leotta-arrestoDomenico Leotta è accusato della strage di Pegli dalla pentita Giuseppina Pesce, nipote del boss Giuseppe Pesce. La donna si è pentita per «amore dei figli» dopo essere stata arrestata nell’operazione All Inside, nell’aprile 2010. Sei mesi dopo Giuseppina Pesce ha deciso di collaborare con i magistrati della dda di Reggio Calabria, raccontando la storia e le attività criminali del suo clan. Tra i ricordi della Pesce anche il triplice omicidio di Maria Teresa Gallucci, 37 anni, di sua madre Nicolina Celano, 72 e della cugina Marilena Bracalia, 22. La pentita ha fornito agli inquirenti tutti i retroscena di quel massacro e ha indicato proprio in Domenico Leotta il killer che, partito da Rosarno, raggiunse Pegli per compiere la missione di morte. Il motivo della strage sarebbe stato il riequilibrio mafioso nella zona, ma ci sarebbero stati anche motivi legati all’onore per presunti legami extraconiugali di una delle donne. Subito dopo la strage fu arrestato in Calabria Francesco Alviano, un ragazzo di 20 anni, figlio di Maria Teresa Gallucci. Il giovane fu accusato da un pentito di ‘ndrangheta, Francesco Facchinetti. I magistrati contestarono ad Alviano i tre omicidi commessi per lavare col sangue la relazione di sua madre Maria Teresa Gallucci, vedova da quindici anni, con Francesco Arcuri, proprietario di una boutique nel centro di Rosarno. A novembre del 1993, un anno prima della strage di Pegli, l’uomo fu ucciso all’interno del suo negozio con nove colpi al basso ventre. Maria Teresa si aspettava forse che lo stesso killer raggiungesse anche lei e quindi scappò da Rosarno per rifugiarsi a Pegli dalla madre. Dopo tre notti d’isolamento Francesco Alviano fu scagionato. Di quel triplice delitto non si seppe più nulla sino a quando Giuseppina Pesce non aprì la mente ai ricordi indicando in Domenico Leotta l’autore della strage. Con lui – secondo le dichiarazioni della pentita – avrebbe agito Francesco Di Marte, altro esponente del clan di Rosarno.

Oggi Domenico Leotta è stato arrestato concludendo così la sua fastidiosa latitanza. Fastidiosa non solo per la giustizia ma per il pudore. E’ una buona notizia, una mezza buona notizia, di quelle buone notizie che sarebbe meglio che non fossero state possibili eliminandone le cause piuttosto che gli effetti. Ma è una dolce sera per la memoria e l’impegno.

E i latitanti, in Italia, si arrestano anche con il Governo vacante, per dire.

Il manuale antimafia di Giuseppina Pesce

Le parole sono importanti. E forse ci perdiamo sui convegni e le analisi mentre qualcuno serve elementi che semplificano la visione, devastanti nella loro semplicità, mentre ci dicono cosa sta succedendo e quali sono i lati della storia che non riusciamo o non vogliamo vedere. E che comunque sono sempre difficili da raccontare. Giuseppina Pesce ha deposto durante un’udienza del processo “All Inside” che ha portato alla sbarra la cosca Pesce proprio grazie alle sue dichiarazioni. Le frasi sono lame affilate. Lo racconta un articolo di net1news:

«I contatti con Carnevale – ha detto la pentita – avvenivano tramite mio suocero, Gaetano Palaia, che era suo amico».  Il giudice Carnevale, il quale in alcune intercettazioni proferiva insulti contro il defunto giudice Giovanni Falcone,  veniva definito “l’ammazzasentenze”: era stato il pentito Gaspare Mutolo a dichiarare che Carnevale era “avvicinabile”. Dopo di lui altri 11 pentiti hanno fatto il nome del magistrato. Nel 2002, però, la Cassazione lo ha assolto con formula piena perché “il fatto non sussiste”, constatando prove insufficienti a sostenere tali accuse e respingendo anche le deposizioni dei colleghi di Carnevale, magistrati di cassazione, che denunciavano le sue pressioni per influire sui processi: secondo i giudici le loro dichiarazioni erano inutilizzabili in giudizio. Successivamente la deposizione di Pina Pesce ha avuto come oggetto la descrizione degli affari della cosca Pesce. Questa, secondo quanto ha affermato la pentita rispondendo alle domande del pm, Alessandra Cerreti, trae enormi guadagni dal controllo degli appalti per l’ammodernamento dell’A3 nel tratto che attraversa la Piana di Gioia Tauro per quanto riguarda, in particolare, i lavori di movimento terra. In più, ha riferito ancora la pentita, ci sono le estorsioni:  « Non c’è un negozio o un’impresa di Rosarno – ha detto Giuseppina Pesce – che non paga il pizzo. A meno che non sia di proprietà di nostri parenti».   La pentita ha riferito delle disposizioni che vengono dettate dai capi della cosca detenuti attraverso colloqui con parenti che si spacciano come loro familiari grazie a falsi certificati di parentela che sono stati rilasciati dal 2006 e fino al 2011 dal Comune di Rosarno. Giuseppina Pesce ha parlato anche di come la cosca riuscisse a nascondere i cadaveri delle persone uccise e fatte sparire nel cimitero di Rosarno minacciando i dipendenti. «I corpi di mio nonno Angelo e di mia zia Annunziata – ha detto la pentita -, uccisi entrambi per punizione perchè avevano relazioni extraconiugali, in realtà non sono stati portati lontano da Rosarno. Si sono sempre trovati nel cimitero del paese in loculi senza nome dove venivano tumulati di notte».   Un ultimo riferimento la pentita l’ha fatto al giro di carte di credito clonate gestito dalla cosca. «Carte – ha detto – intestate a clienti statunitensi che le hanno utilizzate in alberghi e ristoranti della Lombardia. Ne ho avuto una anch’io e l’ho usata un paio di volte prima che il titolare la revocasse dopo avere notato spese che non aveva effettuato».

Ecco, per chi voleva una lezione di mafia (e antimafia) qui gli elementi ci sono tutti.

‘Ndrangheta: il coraggio di Giuseppina Pesce

All’improvviso però Giuseppina, era il 2 aprile dell’anno scorso, decide di interrompere la collaborazione. Non vuole più essere una pentita. In una lettera la giudice dichiara di essere stata “indotta” a fare le dichiarazioni eppure il giorno 4 aprile, interrogata dal pm che ancora non è informato della novità, risponde. Solo l’11 aprile si avvale della facoltà di non rispondere e ammette di essere in contatto con la sua famiglia e con quella del marito; tutti le avevano offerto sostegno economico per le spese legali e tutto ciò di cui, rinunciando alla protezione dello Stato, avrebbe avuto bisogno per sé ed i figli. Poi l’arresto a giugno per evasione dagli arresti domiciliari. Dopo qualche giorno spiega le sue ragioni. Per esempio la non condivisione da parte dei figli, pur giovanissimi, della sua collaborazione e in particolare della figlia maggiore adolescente. E poi anche un’altra verità forse quella più sentita; il timore che qualcosa di male potesse accadere ai suoi cuccioli. Giuseppina era assolutamente consapevole che se quel giorno, l’11 aprile, avesse regolarmente risposto alle domande, non avrebbe più rivisto i figli. Che ora stanno con lei. Sotto protezione. Come questa mamma che respirava la ‘Ndrangheta sognava e scriveva alla sua Angela in una poesia.

Giuseppina Pesce, figlia, sorella e nipote di boss di una delle cosche più potenti della Calabria, raccontata in un bel pezzo di Giovanna Trinchella.

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Un 8 marzo di cambiamento

Dedicare l’8 marzo Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola e Lea Garofalo, come propone il Quotidiano la Calabria e riprende Vera Lamonica oggi su L’Unità, è un pensiero di lotta e di cambiamento. Perché la Storia ci ha insegnato che pretendere la normalità di una vita da madre e moglie diventa insostenibile in un sistema criminale che prevede l’assoggettamento e l’umiliazione delle donne come metodo di controllo delle relazioni. Dedicare una giornata nazionale a loro significa che il Paese chiarisce di essere intollerante al welfare mafioso. Non è una rivoluzione, ma ricordarlo non fa male. (E sui balconi ricordatevi lo striscione per Rossella Urru. Chiedetelo ai vostri sindaci)