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Papa Francesco in Iraq ha fatto politica. Quella che non sanno fare i potenti

Forse ci metteremo anni a capire l’importanza storica della visita di Papa Francesco in Iraq e chissà che non si possa imparare in fretta come la diplomazia, parola sgraziata e scarnificata in questi anni di commercio con una spolverata di finti diritti, è un esercizio serissimo che richiede il coraggio di andare controvento.

Papa Francesco è atterrato in Iraq e in pochi giorni ha infilato il dito nelle ingiustizie di quella parte di mondo che pochi si prendono la briga di raccontare, in mezzo alle macerie che stanno lì ma che sono partorite da tutto l’Occidente. Gli avevano sconsigliato di andare, i venditori di morte occidentali, fingendosi consiglieri apprensivi ma non riuscendo a non apparire ipocriti.

È entrato a pregare in Mosul, l’ex capitale delle milizie del Califfato da cui il Daesh ha sparso morte e ha ripetuto a voce alta che non esiste nessuna possibile guerra in nome di nessun Dio, che non è consentito “odiare i fratelli” e che non bisogna cedere ai “nostri interessi egoistici, personali o di gruppo”.

Al di là del credo di ognuno quelle parole sono un atto politico potentissimo. Così come rimarrà nella storia l’incontro con Ali al Sistani, la massima autorità religiosa sciita del paese, in una stanza spoglia che profuma di sala d’attesa, e in cui si è stretto l’impegno di una collaborazione tra comunità religiose che troppo spesso la politica gioca a brandire l’una contro l’altra.

Sono due uomini che si battono contro le divisioni e che riportano il discorso finalmente a un livello più alto, abbandonando i bassifondi di un razzismo religioso che anche dalle nostre parti si è acuito sempre di più. È il viaggio in cui Papa Francesco ha ascoltato le parole del padre di Alan Kurdi, naufragato su una spiaggia turca nel settembre del 2015 mentre con la madre e con il fratello tentava di raggiungere l’Europa.

Una foto che ha fatto il giro del mondo ma di cui ancora nessuno ha chiesto scusa, nemmeno tra i responsabili politici di una tragedia che ancora oggi continua a rinnovarsi. Le cronache raccontano di un Papa che “ha ascoltato, più che parlare”: quella è una storia che va ascoltata e raccontata, ascoltata e raccontata.

Papa Francesco, comunque la si pensi, si è preso una responsabilità politica enorme gettando luce là dove molti vorrebbero convenientemente mantenere il buio esercitando la diplomazia nel suo senso più alto, guardando negli occhi e quindi legittimando le vittime. Mentre tutti sono concentrati sul proselitismo ascoltare diventa perfino un atto rivoluzionario.

Leggi anche: 1. La prima volta di un Papa in Iraq: Francesco va nei luoghi che furono dell’Isis per costruire la pace

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Tecnici dappertutto, perfino da asporto

Per capire quale sia la china che ha preso spedito il governo Draghi conviene mettere in fila un paio di cose… Come la scelta di affidare un incarico alla società di consulenza McKinsey per il Recovery Plan

Poiché sono in molti a fingere di non vedere e di non capire quale sia la china che ha preso spedito il governo Draghi allora conviene mettere in fila un paio di cose, impegnarsi ostinatamente nel controbattere ai minimizzatori o auto finti distratti che in queste ore sono tutti impegnati nel convincerci che tutto vada bene e che tutto sia normale perché basta annusare l’aria che c’è fuori per farsi un’idea sul progetto che c’è dietro.

Mario Draghi continua a rimanere sotto vuoto silenzioso nel suo caveau, mentre qui fuori si accavallano le predizioni sulla terza ondata in cui sembra di essere già finiti dentro. Che i Dpcm fossero uno strumento simbolo di “dittatura sanitaria” e che di Dpcm siamo ancora qui a dilagare ne abbiamo già scritto qualche giorno fa ma che qui tutte le regioni (se non addirittura taluni comuni) stiano andando per conto loro sembra sotto gli occhi di tutti. I vaccini continuano a mancare e anche le vaccinazioni faticano. Insomma: ci siamo liberati delle inutili primule, abbiamo tutte le mattine una bella adunata con tromba militare ma la “guerra” alla pandemia continua a sciogliersi nei rivoli di esperti dappertutto, è cambiato solo il mesto silenzio del governo.

In questi giorni si discute parecchio della scelta da parte di Draghi (l’ha scelto lui? Chi l’ha scelto? Come? Perché?) di affidare un incarico alla società di consulenza McKinsey, per aiutare il ministero dell’Economia nella fase di stesura del Recovery Plan. Destrorsi e turboliberisti ci sgridano perché ritengono questa polemica una cosa “da cialtroni”. Curioso che siano gli stessi che criticarono Conte per la sua intenzione di affidare i 209 miliardi del Recovery Plan a un gruppo di manager pescati dalle società controllate dal Tesoro. Curioso anche ricordare che un senatore toscano disse che c’era da fare cadere un governo che voleva decidere con gli esperti e ora rimane zitto zitto. Volendo vedere è anche piuttosto curioso che il governo dei competenti e dei super tecnici abbia bisogno di altri tecnici da asporto.

Pensare che il ministero delle Finanze ha anche un eccellente centro studi (a proposito di meritocrazia) e volendo ben vedere di competenze è anche pieno il centro studi di Banca d’Italia. Ma niente. Ieri Fabrizio Barca ha ricordato la sua esperienza personale: «Quando entrai nel ’98 al Tesoro – ha dichiarato in un’intervista al Fatto – insieme a tante persone di valore, provammo a liberarci di questa sudditanza strategica a consulenze di terzi, rafforzando l’amministrazione pubblica con contributi esterni, e quando necessario selezionando con cura consulenze specialistiche».

Quelli si difendono dicendo che si tratta di una consulenza praticamente gratis, solo 25mila euro e che questo dovrebbe bastare per tenerci tranquilli: peccato che il tema vero sia a quali informazioni avrà accesso la società di consulenza. Dicono: state tranquilli, è quasi gratis ma quando un servizio è gratis il prodotto sei tu, ormai l’abbiamo imparato tutti. L’ha scritto benissimo Stefano Feltri: «Nel fare consulenza a un governo, McKinsey può influenzare il contesto di regole che rendono possibile o vietano quel nuovo business, e quindi creare o meno le opportunità che poi potrà aiutare clienti aziendali a sfruttare». Non dovrebbe essere difficile per tutti questi grandi esperti di mercato, no?

A proposito di aria che si annusa: c’è un comunicato di Confindustria a proposito dello sciopero dei portuali di Genova che in un Paese normale avrebbe provocato dei brividi. «Si ricordino che una giornata di lavoro oggi costituisce un privilegio», ha scritto l’associazione degli imprenditori. Un comunicato stampa che sembra una testa di maiale lasciata appesa alla porta di casa. Il partito che avrebbe potuto alzare la voce per ora è senza dirigenza però ha dei ragazzini in tenda che si fanno fare delle foto bellissime per i loro profili social.

Tutto bene?

Buon lunedì.

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Basta assurdi egoismi, rendiamo pubblici i brevetti per produrre i vaccini anti-Covid

Se si volesse “restare alti”, come dicono in questi giorni alcuni esponenti politici (che di solito considerano “basso” rispondere alle domande che vengono loro poste), se si volesse davvero dare una “spinta” importante nella battaglia contro la pandemia, se ci fosse la voglia di combattere sul serio “i poteri forti” (quelli che vengono inutilmente evocati per battaglie immaginarie) e se si volesse dimostrare di tenere davvero alla salute pubblica più di ogni altra cosa in questo momento, allora c’è una battaglia già bell’e pronta da inforcare: superare il nodo dei brevetti dei vaccini e accelerare così la produzione e la distribuzione liberandosi dai lacci delle grandi aziende farmaceutiche.

Attenzione, stiamo parlando di un preciso accordo (Trips: Trade Related Intellectual Property Rights) relativo alla proprietà intellettuale dell’Organizzazione mondiale del commercio, che scrive nero su bianco come i governi possano in situazione di emergenza sanitaria (e non è questa l’emergenza sanitaria del secolo?) permettere anche ad aziende non detentrici del brevetto di produrre versioni generiche equivalenti dei farmaci pagando un’opportuna royalty all’azienda della proprietà intellettuale.

Lo stesso Carlo Cottarelli ieri, ospite da Fabio Fazio, ha chiesto uno “sforzo di guerra” per aumentare la produzione mettendo “più risorse per produrre i vaccini superando gli attuali vincoli di produzione”.

Sarebbe uno sforzo diplomatico, certo, ed economico. Ma forse varrebbe la pena, di fronte alla previsione che l’Italia per la pandemia perderà più o meno 300 miliardi di euro Pil nel biennio 2020-2021 a causa della pandemia.

Già a dicembre Medici Senza Frontiere esortava tutti i Paesi a raggiungere un accordo sulla proposta di India e Sudafrica di sospendere la proprietà intellettuale sui prodotti salvavita in pandemia. Qualche giorno fa il farmacologo Silvio Garattini in un’intervista a Il Mattino ha dichiarato che “se ci sono ragioni importanti di salute pubblica gli Stati possono chiedere o pretendere la licenza del farmaco per produrlo in grosse quantità”.

“L’Italia, l’Europa possono chiederlo. In un momento di grandi difficoltà bisognerebbe avere il coraggio di abolire i brevetti sui farmaci salva-vita come i vaccini”, ha detto Garattini.

Tra l’altro c’è da considerare che la ricerca che ci ha portato ad avere i vaccini in così breve tempo è stata possibile anche grazie alle ingenti risorse pubbliche e ai finanziamenti filantropici.

Nei giorni scorsi in Italia 43 associazioni (tra cui Acli, Arci, Cgil, Cisl, Uil, Emergency, Libera e altri) hanno dato vita al Comitato Italiano per l’Iniziativa Cittadini Europei “Per il diritto alla cura, nessun profitto sulla pandemia”, che chiede una immediata moratoria sui brevetti e la messa a disposizione di tutti dei vaccini quale bene comune.

“C’è ragione di essere in allarme”, scrive il comitato. “Con lo strapotere delle grandi aziende farmaceutiche, padrone dei brevetti per 20 anni, fonte di guadagni miliardari, e con l’attuale sistema di accordi commerciali, c’è il rischio di ‘tagliare fuori’ dalle vaccinazioni, interi Paesi e Continenti ‘poveri e incapienti’, con un rischio gravissimo per la salute mondiale”. La battaglia è qui, pronta. Ora non resta che avere il coraggio di farsene carico.

Leggi anche: 1. Il 14% dei Paesi ricchi avrà il 53% delle dosi di vaccino: la bomba sociale che l’Europa finge di non vedere / 2. I vaccini no-profit di Cuba che salveranno i Paesi in via di sviluppo

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Sara Cunial fa propaganda No Vax alla Camera per attaccare Conte. E la Lega la applaude

“Oggi siete qui, con la vostra faccia da vaccino, rei di aver fatto fallire il nostro Paese, aver imbavagliato l’onestà intellettuale, schiavizzato un popolo, riducendo l’Italia a campo di sperimentazione delle vostre terapie geniche”. Ha iniziato così ieri il suo intervento alla Camera dei Deputati Sara Cunial, fuoriuscita dal Movimento 5 Stelle (che non ringrazieremo mai abbastanza per avere infarcito il Parlamento di elementi del genere) e che oggi guida la truppa dei vari negazionisti (No mask, No vax, No 5G e tutto quello che vi può venire in mente) per ritagliarsi un po’ di popolarità.

E la discussione è interessante perché questi sono gli stessi che poi parlano di censura, badate bene, mentre abbaiano liberi in Parlamento. Ha detto Cunial: “Per distogliere l’attenzione sui brogli elettorali internazionali pilotati dal centro di comando della partecipata di Profumo, continuate a comprarvi tutti, riesumando spettri politici coerenti con la scelta di far gestire l’emergenza dal nipote putativo di Gelli”. Qui siamo a livelli di complotti e di poteri forti che potrebbero fare impallidire perfino gli attivisti di QAnon.

Ricordate lo sdegno per Trump che invitava alla guerra? Ecco qua Sara Cunial ieri: “A voi che osate mettere un cittadino contro l’altro, devoti al culto turbo capitalista del debito a tutti i costi, per condannare le nuove generazioni, dico: né Cadorna né Diaz, perché l’Italia ripudia la guerra, anche quella a base di virus e l’Italia non solo ripudia la guerra, ma condanna duramente voi che ne siete i mandanti”.

In questo momento in cui si dibatte molto sulla responsabilità (anche penale) di chi fomenta l’odio attraverso le fake news, sarebbe curioso sapere chi risponde delle parole pronunciate ieri dalla deputata Cunial.

C’è anche un altro aspetto interessante: quando si discute della qualità della classe politica, arrivando addirittura a corteggiare Mastella, ci si dimentica che le discussioni parlamentari sono ogni volta un abisso che ci tocca percorrere. Il resoconto stenografico della Camera, al termine dell’intervento di Cunial, riporta un altro aspetto significativo: “(Applausi di deputati del gruppo Lega-Salvini Premier)”, si legge.

Perché in fondo Salvini e compagnia cantante e Sara Cunial accarezzano gli stessi elettori, gli stessi pezzi di popolo, solo che l’ex grillina ha almeno l’impudenza di non fingersi statista. Delira felice dei suoi deliri. I leghisti, invece, giocano di sponda. Ma la matrice dell’irresponsabilità, sotto sotto, è la stessa.

Leggi anche: 1. La sindaca della Lega arrestata perché negava aiuti alimentari ad anziani soli e stranieri / 2. Dino Giarrusso (M5S) a TPI: “Avanti con Conte senza Renzi, ora trattiamo per un governo con altri partiti. Ma no impresentabili” / 3. Di Battista a TPI: “De-Renzizzare il governo val bene una messa. Ora il M5S è coeso, ripartiamo con Conte”

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Ora non dite che sono solo quattro patrioti sballati

Si innamorano dei piromani e poi si stupiscono degli incendi. Il mondo guarda stralunato ciò che accade negli Usa, mentre si spazzano via le ultime briciole di Trump, e sembra risvegliarsi da un sonno profondo, come se non avesse avuto le occasioni per pesarne le gesta, per annusarne la violenza insita in ogni sua dichiarazione e come se avesse dimenticato la natura eversiva, fin dall’inizio della sua presidenza.

Uno stupore che stupisce e che dice molto di tutti quelli che, per anni, hanno attutito la natura criminale di una presidenza che ha basato il proprio consenso su una montagna di bugie, sul disegno continuo di complotti inesistenti, sull’identificazione perenne di qualche nemico da abbattere e non da sconfiggere.

Ora qualcuno perfino prova a derubricare il tutto a una bravata di qualche sballato patriota che ingenuamente crede di difendere il proprio Paese ma, come dice giustamente Biden, delle persone che occupano abusivamente i luoghi della democrazia non rappresentano “una protesta” ma sono tecnicamente “un’insurrezione”.

La fine ingloriosa della presidenza Trump e il giorno nero della democrazia americana sono il naturale risultato di una gestione della politica che occupa il potere mica con l’obbiettivo di governare ma con l’illusione di essere gli unici detentori della verità e con la pretesa di essere la garanzia di democrazia.

L’incendio è scoccato ieri ma ha le radici impantanate nella nascita del movimento dei Birthers, i teorici della nascita africana di Barack Obama, nei deliri di QAnon, nell’evocazione dell’uso delle armi che proprio Trump fece contro i manifestanti di Black Lives Matter (ci rimise il posto Mark Esper, segretario alla Difesa che si rifiutò di usare l’esercito), nelle parole stesse che Trump ha usato ieri con quel “we love you” lanciato agli eversori che occupavano il Congresso.

Stupirsi della violenza sulla coda della presidenza Trump, che in questi anni ha leccato tutte le frange naziste ed estremiste degli angoli più oscuri d’America, significa cadere ancora una volta nel cronico errore di non capire che la violenza delle parole genera inevitabilmente la violenza nelle azioni.

Significa non comprendere che minare le basi di una democrazia vuol dire inevitabilmente delegittimarla e offrirla in pasto a chiunque la voglia usare come arma contro il proprio avversario politico. Non è un problema solo americano: nel momento in cui l’egoismo diventa una fede ognuno si sente Stato con le proprie regole, in guerra con gli Stati che vede negli altri.

Leggi anche:
1. Il giorno più buio dell’America (di Giulio Gambino)
2. Il golpe di Trump (di Luca Telese)
2. La democrazia Usa cancellata per qualche ora, ma il vero sconfitto è Trump (di Giampiero Gramaglia)

Tutte le notizie sulle elezioni Usa 2020

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Leghismo in briciole, a Lodi

Il regolamento del Comune a guida leghista discriminatorio nei confronti dei bambini stranieri, impedendo loro l’accesso a servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Milano. Che ha anche condannato il Comune a pagare le spese legali sostenute da un comitato di cittadini

Il Canto di Natale quest’anno è stato scritto a Lodi, città incastrata nelle campagne lombarde e che ci porta un dono di fine anno significativo perché rimette i sensi a posto, restituisce alle parole il suo significato e perché racconta una vicenda che è un vocabolario politico per comprendere come il leghismo ma più in generale il cattivismo, la voglia di disgregazione e l’arroccamento ignorante franino di fronte alla realtà degli eventi e delle leggi.

Qui a Lodi nel 2017 la sindaca Sara Casanova aveva pensato di ritagliarsi un po’ di notorietà con un nuovo regolamento comunale che discriminava l’accesso dei bambini stranieri ad alcuni servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Aveva pensato, quel gran geniaccio di sindaca, di imporre delle regole apposite per i genitori degli alunni stranieri prevedendo l’accesso alle tariffe agevolate (che in Italia vengono stabilite in base al reddito) richiedendo dei documenti aggiuntivi che certificassero chissà quali ricchezze nascoste nei loro Paesi di origine. Del resto era un ottimo modo per inoculare il dubbio che gli stranieri scappino dalla guerra lasciando enormi ricchezze. Una persona normale ci riderebbe su, i sovranisti invece, poverini, ci scrivono golosi teoremi e profondi editoriali.

La vicenda era odiosa perché metteva di mezzo gli stranieri ma soprattutto perché se la prendeva con i bambini. Del resto è tipico dei leghisti fare i forti con i deboli, loro ci riescono solo così. E si sentono perfino dei condottieri, poveretti, quando sono solo gli scherani di una poraccitudine che affila i denti sulle prede indifese. Era andata a finire che molti genitori avevano chiesto di condividere i pasti dei propri figli con i bambini stranieri. Del resto dividersi il pane dovrebbe essere l’atto politico più alto e nobile. Dovrebbe.

Nel 2018 l’Asgi, associazione degli studi giuridici sull’Immigrazione, e il Naga, associazione volontaria di assistenza sociosanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti, presentò un ricorso contro il regolamento del Comune di Lodi. Il 13 dicembre 2018, un’ordinanza del tribunale di Milano stabilì che il regolamento era discriminatorio e chiese il ripristino dei precedenti criteri di accesso alle agevolazioni per le mense e il trasporto scolastico.

La sindaca Casanova insiste, presenta ricorso. Ora la Corte d’appello di Milano ha respinto il ricorso. Nella sentenza si legge: “La differenziazione introdotta dal regolamento del Comune di Lodi introdotto con Dgc 28/2017 in punto di documentazione su redditi/beni posseduti (o non posseduti ) all’estero costituisce una discriminazione diretta nei confronti dei cittadini di Stati extra Ue per ragioni di nazionalità perché di fatto, attraverso i gravosi oneri documentali aggiuntivi richiesti, rende loro difficoltoso concorrere all’accesso alle prestazioni sociali agevolate, così precludendo ai predetti il pieno sviluppo della loro persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza; ne consegue il respingimento dell’appello presentato dallo stesso Comune”. Il Comune di Lodi è stato anche condannato a pagare le spese legali sostenute dal Comitato Uguali Doveri, una rete di cittadini che in quei giorni si è costituita per difendere il diritto di essere uguali.

Sconfitti e costosi: eccoli i sindaci leghisti. E quei giorni orrendi sono diventati un manifesto d’umanità.

Buon giovedì.

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Toh, hanno scoperto la Libia

Da destra accusano Conte di aver fatto troppo poco per i pescatori trattenuti in Libia, dove vengono violati i diritti umani. Ma come, a loro avviso il Paese non era un “porto sicuro”?

«Subito dopo sono stato picchiato dai militari libici, che mi hanno dato schiaffi, calci, ginocchiate. E mi minacciavano di tagliarmi la gola. E le gambe. È stato terribile. Ho avuto paura di non rivedere più la mia famiglia. È stato un incubo durato più di tre mesi». Sono le parole di Bernardo Salvo, uno dei 18 pescatori sequestrati e liberati in Libia. Anche la famiglia di Salvo ha capito guardando le prime fotografie giunte in Italia dopo il sequestro: «Fino ad oggi non abbiamo detto nulla – spiega il cognato Vito – il momento era delicato, ma in quelle immagini si vedono chiaramente il viso gonfio e un braccio nero. Ora vogliamo sapere cos’è successo».

«Abbiamo visto dei detenuti picchiati selvaggiamente», ha dichiarato Jemmali Farhat, uno dei due pescatori tunisini a bordo dei mezzi sequestrati.

«Ci hanno trattati malissimo, non ci picchiavano ma minacciavano di farlo – ha confermato nel suo racconto uno dei due pescatori senegalesi sequestrati -. Gridavano, ci facevano mettere con la faccia al muro. É stato un incubo. Ci facevano fare pipì in una bottiglia».

In tutte le celle che hanno ospitato i marinai non c’era un materasso o un cuscino. I 18 pescatori reclusi, è emerso tra le altre cose nei vari racconti, hanno dormito per terra sul pavimento: «Ho visto film di guerra sul Vietnam, ma quello che ho visto in Libia è stato incredibile – ha aggiunto il tunisino Jemmali Farhat – gli agenti erano peggiori degli animali, sono loro i terroristi, altro che i detenuti».

Cominciano a uscire informazioni su cosa sia la Libia, su come siano valutati lì i diritti umani e una certa stampa e una certa politica grida allo scandalo accusando Conte di non avere difeso i pescatori. Peccato che siano gli stessi che per anni ci hanno detto che la Libia sia un porto sicuro.

E quindi? Come la mettiamo? Hanno scoperto cos’è la Libia. Anzi, peggio, hanno invertito la narrazione perché gli torna comodo. Bravi, tutti.

Buon martedì.

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“Vaccino? Un lombardo vale più di un laziale”: l’eurodeputato Ciocca e l’infinito odio della Lega

Centinaia di magliette, migliaia di manifesti, quintali di retorica: la Lega di Salvini che vorrebbe diventare “nazionale” ha usato tutti gli strumenti possibili in questi ultimi anni per convincerci che la sua matrice padana fosse solo un lontano ricordo, che fosse diventato un movimento interessato alle esigenze di tutti, che davvero fosse distante il ricordo di Bossi (e Salvini stesso) che se la prendevano con i terroni scansafatiche e con i romani ladroni.

Poi basta lasciarli parlare un po’, aspettare solo che mollino la frizione e alla fine il loro pensiero viene fuori e ritorna, mostruoso, disuguale e razzista come sempre, senza che sia cambiata una virgola. A cadere nella trappola questa volta ci pensa Angelo Ciocca, uno di quelli che più di una volta ha faticato nel tenersi a freno e uno di quelli che sa bene come funzioni nella Lega: dire una boiata, spararla grossa, è il modo migliore per farsi notare dai propri seguaci e mal che vada si finge di porgere delle tiepide scuse oppure si dichiara di essere fraintesi.

Dice Ciocca, eurodeputato della Lega, che “se si ammala un lombardo vale di più che se si ammala una persona di un’altra parte d’Italia” e quindi che bisogna vaccinare in base all’importanza economica del territorio. Niente vaccino quindi per chi non fattura, non produce e non torna utile alla produttività. La dichiarazione del resto non è molto distante da ciò che ha detto Guzzini di Confindustria Macerata qualche giorno fa, poi fortunatamente dimessosi per la pessima figuraccia per la frase sugli “affari che devono andare avanti e se muore qualcuno, pazienza”.

Ciocca, vale la pena ricordarlo, è lo stesso che a ottobre disse che il Covid era più diffuso in Francia e in Spagna “perché noi italiani siamo più puliti” e perché “abbiamo il bidet”. Il punto è che la Lega continua a contenere nella pancia quel germe del razzismo che quando non riesce a puntare verso gli stranieri devia inevitabilmente nella suddivisione fra gli italiani. È sempre così: a forza di odiare diventano tutti potenzialmente odiabili, è solo questione di tempo.

Ma la sensazione peggiore, quella che intossica questo tempo, è che in fondo Ciocca sia solo stato talmente ingenuo da avere detto ciò che in molti pensano. Sarebbe curioso sapere quanto quel suo ragionamento sia popolare tra pezzi di classe dirigente che al contrario di Ciocca hanno semplicemente la furbizia di non dire ma forse condizionano il proprio fare.

Leggi anche: 1. Matteo Salvini al Senato evoca il complotto sul Covid: “Tutto è cominciato in un laboratorio cinese” | VIDEO / 2. Vaccino Covid in Italia entro la Befana: l’Ema anticipa la data di approvazione al 21 dicembre / 3. Covid, lo sfogo di Ricciardi: “Siamo in guerra, più morti oggi che nel 1944. Cos’altro serve per il lockdown?” | VIDEO

4. Conte: “A Natale serve una stretta. Ma l’Italia non può reggere un nuovo lockdown” / 5. I vaccini no-profit di Cuba che salveranno i Paesi in via di sviluppo / 6. Milano anti-Covid, scatta il numero chiuso in Galleria Vittorio Emanuele

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Bella ciao, Lidia

È partita Lidia, fiaccata dal Covid ma con tutta la brillantezza dei suoi 96 anni vissuti tutti senza nodi in gola, con la libertà di chi lotta per la libertà e la giustizia. Ogni volta che muore un partigiano a guardarla da fuori questa nostra Italia sembra un po’ più debole per affrontare la ricostruzione e questa brutta aria che spira in giro per l’Europa. Ogni volta che muore una partigiana perdiamo una chiave per leggere il presente.

Lidia Menapace, all’anagrafe Brisca, era una pacifista. E quanto abbiamo bisogno di pacifisti che amano la lotta e disprezzano la guerra, come spesso ripeteva lei. E sapeva bene che la lotta dei partigiani non è qualcosa che va rinchiuso in un solo periodo storico, nonostante sia la tesi di molti a destra e di troppi anche a sinistra: «La lotta è ancora lunga perché quello che abbiamo ottenuto è ancora recente e fatica a durare», disse, con una lucidità che servirebbe a molta della nostra classe dirigente.

Fu staffetta partigiana e rivendicò il ruolo delle donne durante la guerra della Liberazione: «Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa», disse lo scorso 25 aprile in un’intervista che le fece Gad Lerner. «Il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi». Di noi dicevano che «eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani». Ma «senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza». Quando Togliatti chiese che le donne non sfilassero alla sfilata della Liberazione a Milano perché, secondo lui, il popolo non avrebbe capito lei non seguì l’ordine e si presentò comunque.

Quando si laureò nel 1945 con il massimo dei voti in Letteratura Italiana il suo professore lodò il suo lavoro definendolo frutto di “un ingegno davvero virile”. Lei non gliela fece passare e si prese dell’isterica. È la stessa Lidia Menapace che diventa la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, dove abitava, poi assessora alla sanità e agli affari sociali. Poi in Parlamento come senatrice di Rifondazione comunista quando era a un passo da diventare presidente della commissione Difesa ma non si trattenne dal dire che le Frecce tricolori fossero “uno spreco di soldi pubblici”. Mai moderata, mai zitta. Venne sostituita dal dimenticabile Sergio Di Gregorio dell’Italia dei Valori.

La sua formazione da donna libera la raccontava così: «Mia madre insegnò a noi due figlie un suo codice etico. Ci diceva: “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete, il marito lo tenete o lo mollate o ve ne trovate un altro. L’importante è che non dobbiate chiedergli i soldi per le calze”». Combatté il sessismo nel linguaggio. A proposito delle declinazioni delle parole al femminile scrisse: «Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria».

Era una donna libera Lidia Menapace e non poteva che essere innamorata della libertà.

Buon martedì.

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Sorvegliata specialmente: Eddi Marcucci

Da marzo l’ex combattente nel conflitto dei curdi contro l’Isis è sottoposta a sorveglianza speciale. Con motivazioni inconsistenti e in virtù di una norma di dubbia costituzionalità

Siamo quasi a dicembre e Eddi Marcucci, 29 anni, continua a essere sottoposta a sorveglianza speciale dal mese di marzo. La “colpa” di Eddi (qui intervistata proprio sulle pagine di Left) è quella di avere combattuto per nove mesi nella battaglia dei curdi contro l’Isis, una guerra che sarebbe spettata a noi e che invece è stata celebrata nelle fasi iniziali e poi volutamente, consenzientemente dimenticata se non addirittura condannata. Eddi è partita nel 2017 per il Rojava con lo scopo di affiancare gli Ypj curde contro gli islamisti che controllavano il Nord della Siria.

Secondo il tribunale di Torino l’essere addestrata all’uso delle armi sarebbe un potenziale pericolo, non si sa bene per chi, e per questo le è stato ritirato il passaporto, ritirata la patente, imposto di stare nella sua abitazione dalle 21 alle 7 ed è obbligata a comunicare tutti i propri spostamenti. Entro Natale la Corte d’appello di Torino deciderà sul ricorso presentato da Marcucci contro la sorveglianza speciale. Le erano anche stati negati i social che ieri sono stati riattivati. Nessuna spiegazione sul perché siano stati tolti e nessuna spiegazione perché ora siano tornati indietro. Niente.

La sorveglianza speciale (eredità dei regi decreti dell’epoca fascista, quando veniva usata come strumento di repressione) è una misura che non viene presa come reazione a un reato commesso ma al fine di prevenire eventuali reati. Si basa sostanzialmente su una serie di indizi sul possibile reato senza nessun riscontro, rimanendo nel campo delle ipotesi. Si pongono ovviamente anche dei dubbi costituzionali su una misura così arbitraria (lo ha sottolineato anche nel 2017 la Corte europea dei diritti umani) che intacca la presunzione di innocenza e che comporta comunque afflizione. Sulla vicenda tra l’altro c’è un gran bel libro edito da People (Dove sei?) scritto da Roberta Lena, madre di Eddi.

Tra le limitazioni c’è anche il divieto di parlare in pubblico e di fare politica: in sostanza non può raccontare la propria storia e quello che le sta accadendo. Per questo vale la pena raccontarla. E per questo sarebbe il caso di sapere quali sarebbero gli “indizi” di questa misura così straordinaria. Anche perché se si tratta solo dell’essere stata addestrata a maneggiare armi allora ci sarebbe qualche milione di persone con un servizio militare alle spalle che andrebbero sorvegliati, subito, qui da noi. No?

Buon venerdì.

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