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letteratura

Chiedere aperture è diventato “di destra”, affidarsi alle chiusure “di sinistra”: ma è un errore pericoloso

Piccola nota iniziale: qui non si discute dell’effettiva utilità del coprifuoco alle 22 o alle 23. Si potrebbero riportare le parole di Crisanti che dice “stare a discutere di un’ora è pazzesco, ridicolo” poiché “un’ora, dalle 22 o dalle 23 non fa nessuna differenza. Hanno aperto i ristoranti a cena, che senso ha? Epidemiologicamente un’ora in più o meno non cambia, a quel punto era meglio farli contenti” oppure lo studio dell’epidemiologo Samir Bhatt secondo cui un coprifuoco notturno da solo aiuterebbe a ridurre di circa il 13 per cento l’indice Rt del coronavirus: la letteratura scientifica sul tema è piuttosto limitata e riconosce che il coprifuoco abbia un’efficacia limitata soprattutto se abbinata a diversi provvedimenti.

Qui si discute piuttosto della pericolosa e sconfortante polarizzazione che nel corso dei mesi è riuscita a dividere un dibattito necessario trasformando ogni riflessione in un banale esercizio di appartenenza politica. Se un leader politico da cui ci sentiamo rappresentati propone un’apertura o una chiusura allora la cavalchiamo senza se e senza ma e al contrario rifiutiamo qualsiasi proposta dei politici che avversiamo. Così in una graduale discesa dalla complessità al tifo oggi chiedere aperture è diventato “di destra” e affidarsi alle chiusure “di sinistra”, come se in mezzo non ci siano un centinaio di infinte sfumature, come se non fosse segno di una democrazia matura pretendere di conoscere i dati, i reali risultati di ogni iniziativa, i riscontri delle varie limitazioni.

Si scappa a gambe levate dalla complessità, ci si affida a una banalizzazione che vorrebbe applicare perfino a un virus il modello delle opposte tifoserie. Eppure la scienza in questi mesi insiste nel ripeterci che il valore primario sia proprio quelli di avere dubbi, di coltivarli, di verificarli e sperimentarli.

Sia chiaro: che su questa pandemia si giochi la propaganda di chi parla a vanvera di “libertà” come se non ci fosse un evidente problema sanitario è sotto gli occhi di tutti ma che la giusta reazione sia quella di pesare le proposte in base alla provenienza politica risulta quantomeno semplicistico e forse perfino pericoloso.

Se “voler valutare l’efficacia del coprifuoco” significa essere additati come sostenitori di Salvini allora abbiamo un altro virus da combattere in fretta: la disabitudine alla complessità necessaria per un dibattito sano, maturo e probabilmente più efficace. È un argomento troppo serio per lasciarlo ai capibastone politici e ai tifosi.

Leggi anche: 1. Decreto anti-Covid, salta la riapertura dei centri commerciali nel weekend, ira della Lega: “Così non va” /2. Retroscena TPI, telefonata Draghi-Salvini: “La Lega sta col governo”, “Allora rispettate le decisioni”

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Bella ciao, Lidia

È partita Lidia, fiaccata dal Covid ma con tutta la brillantezza dei suoi 96 anni vissuti tutti senza nodi in gola, con la libertà di chi lotta per la libertà e la giustizia. Ogni volta che muore un partigiano a guardarla da fuori questa nostra Italia sembra un po’ più debole per affrontare la ricostruzione e questa brutta aria che spira in giro per l’Europa. Ogni volta che muore una partigiana perdiamo una chiave per leggere il presente.

Lidia Menapace, all’anagrafe Brisca, era una pacifista. E quanto abbiamo bisogno di pacifisti che amano la lotta e disprezzano la guerra, come spesso ripeteva lei. E sapeva bene che la lotta dei partigiani non è qualcosa che va rinchiuso in un solo periodo storico, nonostante sia la tesi di molti a destra e di troppi anche a sinistra: «La lotta è ancora lunga perché quello che abbiamo ottenuto è ancora recente e fatica a durare», disse, con una lucidità che servirebbe a molta della nostra classe dirigente.

Fu staffetta partigiana e rivendicò il ruolo delle donne durante la guerra della Liberazione: «Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa», disse lo scorso 25 aprile in un’intervista che le fece Gad Lerner. «Il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi». Di noi dicevano che «eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani». Ma «senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza». Quando Togliatti chiese che le donne non sfilassero alla sfilata della Liberazione a Milano perché, secondo lui, il popolo non avrebbe capito lei non seguì l’ordine e si presentò comunque.

Quando si laureò nel 1945 con il massimo dei voti in Letteratura Italiana il suo professore lodò il suo lavoro definendolo frutto di “un ingegno davvero virile”. Lei non gliela fece passare e si prese dell’isterica. È la stessa Lidia Menapace che diventa la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, dove abitava, poi assessora alla sanità e agli affari sociali. Poi in Parlamento come senatrice di Rifondazione comunista quando era a un passo da diventare presidente della commissione Difesa ma non si trattenne dal dire che le Frecce tricolori fossero “uno spreco di soldi pubblici”. Mai moderata, mai zitta. Venne sostituita dal dimenticabile Sergio Di Gregorio dell’Italia dei Valori.

La sua formazione da donna libera la raccontava così: «Mia madre insegnò a noi due figlie un suo codice etico. Ci diceva: “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete, il marito lo tenete o lo mollate o ve ne trovate un altro. L’importante è che non dobbiate chiedergli i soldi per le calze”». Combatté il sessismo nel linguaggio. A proposito delle declinazioni delle parole al femminile scrisse: «Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria».

Era una donna libera Lidia Menapace e non poteva che essere innamorata della libertà.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

“Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego

Igiaba Scego è una scrittrice di origini somale che vive a Roma. Da sempre si occupa di stranieri, di integrazione e di diritti. Il suo ultimo libro è “La linea del colore” edito da Bompiani che ha come protagonista una donna afroamericana dell’ottocento che scopre l’Italia. L’abbiamo intervistata per TPI.

Negli USA è in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Lei si occupa da anni di questi temi, come vede la narrazione di ciò che accade?
Due tipi di narrazione. Quella dei media mainstream che non hanno capito niente di quello che sta succedendo: stanno osservando questi movimenti con delle lenti molto vecchie e anche sbagliate. Quando mi tolgo gli occhiali io che sono miope vedo tutto sfocato e molti media mi hanno dato questa stessa sensazione, tranne alcune eccezioni come la giornalista de Il Manifesto Marina Catucci, veramente puntuale, Arianna Farinelli, Martino Mazzonis. Questo mi ha meravigliato perché l’immaginario statunitense è molto popolare, si pensa “almeno li conosciamo” e invece no. Noto la stessa nebulosità che scorgo quando si parla di Africa. Poi per fortuna c’è quella che arriva da giornali e esperti in lingua originale. E devo dire che è quello che mi ha aiutato ad orientarmi. Per esempio non mi perdo mai i commenti della professoressa Ruth Ben Ghiat che da anni ci spiega i meccanismi dello stato americano.

Quale distorsione nota più delle altre?
Questo parlare di saccheggi piuttosto che parlare del cuore del movimento. Molti giornali non hanno raccontato ai lettori cosa c’era prima, quei 400 anni di oppressione. Mancano ponti tra qui e lì. Io sono scrittrice e la stessa cosa la vedo nell’editoria: l’editoria italiana ha pubblicato negli ultimi anni moltissimi afroamericani ma non c’è stato quel passaggio necessario da editoria ai giornali e media in genere che aprisse un sano dibattito su questi libri e permettesse una loro diffusione anche scolastica.

Quindi si è perso ciò che è avvenuto negli anni precedenti, non ci sono stati ambasciatori e ponti. Si arriva così a non capire perché questa lotta è così lunga, non si riflette sulla genesi della schiavitù, questo è un grosso gap scolastico che non ha permesso a molti italiani di capire fenomeni come schiavitù, segregazioni negli USA e perfino lotte per i diritti civili. Pochi hanno letto Toni Morrison, anche tra i professionisti dell’informazione. E quindi mi ha colpito questo indugiare su aspetti marginali senza andare al cuore del problema. Manca una preparazione all’America, io ho visto “molta ignoranza”. Molto non sapere. Quello che si conosce è solo superficiale.

Negli USA il dibattito si è aperto non solo sulla violenza che ha portato per ultimo alla morte di Floyd, ma anche sulla profilazione razziale delle Forze dell’Ordine. C’è un razzismo insito anche nella gestione italiana secondo lei?
Sulla polizia non saprei dirti. Posso dirti che loro, negli USA, hanno questa storia di schiavitù ma da loro anche chi è contro i neri sa cosa è successo mentre in Italia quello che c’è dietro di noi, come il colonialismo, non è molto conosciuto, c’è una rimozione totale e non ci fa capire che quegli stereotipi continuano a agire sui corpi del presente. A me ha sempre colpito come per esempio le leggi italiane sull’immigrazione si basino quasi sempre su un modello astratto, su questo cosidetto altro che non è un potenziale cittadino ma un potenziale suddito coloniale, il modello è quello del sudditto somalo, eritreo o libico dei tempi del colonialismo italiano. si continua cos’ a perpetuare l’idea dello straniero nella legislazione come suddito, una persona senza diritti.

Non è un caso che la Bossi-Fini e i Decreti Sicurezza più la mancata riforma sulla cittadinanza siano delle costanti nella politica italiana, perché vale lo ius sanguinis e non lo ius soli o lo ius culturae, un Paese trincerato nel suo sangue che poi se lo andiamo a “analizzare” storicamente questo famigerato sangue risulta essere è quello più meticcio del mondo. Questo mi sconvolge, questa storia passata mai discussa che si ripresenta in forma di legge e ci incasina il presente, il modello è ancora quello coloniale sarebbe interessantissimo che i giuristi ci lavorassero su questo, su come decolonizzare le leggi perché sono troppo pieni di passato.

Vede dei casi di razzismo endemici in Italia, anche da parte di quelli che non sono consapevolmente razzisti?
Il razzismo in Italia non è solo anti nero ma è anche anti meridionale. Ad esempio due ore fa stavo andando al supermercato, dove due persone stavano litigando e un signore ha detto a una signora “sporca calabrese”. Qui c’è una questione meridionale che è la mamma di tutti i razzismi italiani, quello che è stato fatto al Sud è lo stesso trattamento riservato alle colonie. Quando avevo 25 anni avevo fatto un colloquio di lavoro vestita come sono sempre vestita e la persona che avevo davanti mi ha detto “lei è musulmana, si vede” io gli ho detto “deve farmi colloquio di lavoro” e lui “ma voi volete pause di preghiera e ramadan”: sono uscita e ho pianto, è un razzismo altrettanto umiliante. Ho smesso perché ai tempi mi vedevano e mi dicevano sempre no. Lo vedi dallo sguardo e poi c’è stato tanto razzismo biologico, dalle elementari mi chiamavano sporca negra e mi hanno buttato un barattolo di coleotteri in testa “perché sono neri come te”. Oppure odiavo negli anni ’90, ero ancora adolescente, quando si fermavano le macchine mentre stavo alla fermata ad aspettare il bus e ti facevano vedere i soldi chiedendo sesso orale, perché nera significava prostituta.

Io ho imparato a schivarli anche. Ho imparato a reagire. Mia madre dice che il razzismo non lo combatti urlando, ma lo combatti con la riflessione e la conoscenza anche quando sei nel mezzo del disastro, lei mi ha sempre detto di uscirne con una frase arguta, è l’unico modo. Mia madre, James Baldwin e Malcom X sono stati i miei maestri nell’usare la riflessione, le parole, per questo scrivo. Volevo capire come mai mi succedevano una serie di cose e volevo capire qual era la radice, sempre storica. In tutto questo ho trovato molti alleati, penso alla mia professoressa di italiano alle superiori, ai professori universitari che mi hanno dato strumenti che mi hanno cambiato la prospettiva. Sandro Portelli mi ha insegnato molte cose della vita, con l’Italia che ha tutte l sue complicazioni. Ho applicato la strumentazione che loro hanno applicato alla loro lotta e alla loro riflessione teorica.

Come le sembra il dibattito politico italiano sul tema?
Qui non c’è dibattito. Qui il dibattito è finito con il tradimento sulla legge sulla cittadinanza. Poi si è riesumato un discorso sulle regolarizzazioni molto mercantile. Io ho questa sensazione di tante lotte fatte anche collettive: afrodiscendenti, albanesi, arabi, sudamericani, i loro figli nati qui italiani senza diritti e poi anche moltissimi italiani bianchi… Ecco tutti noi ci siamo ritrovati dal 2005 fino al governo Renzi a lottare in piazza, cambiavano le piazze, c’erano tanti bambini e tecnicamente con le scuole abbiamo lavorato moltissimo (penso a due scuole di Roma in particolare la Pisacane e la Di Donato i cui professori si sono spesi tantissimo per far avere diritti ai loro studenti) , però poi questa lotta è stata tradita da tutto l’arco costituzionale: la destra ha fatto ostruzionismo ma gli altri l’hanno reso possibile ed è una cicatrice che mi fa molto male.

Poi c’è stata la raccolta firme dei Radicali e quella era una buona iniziativa ma poi a causa degli eventi caduta nel vuoto e adesso il dibattito è stato sulle regolarizzazioni perché servivano braccia per l’ortofrutta e basta. Queste persone cadono in irregolarità per un meccanismo della Bossi-Fini, sono ricattabili in situazione di pandemia, dovremmo avere più persone regolari possibili ma così è stato un mercato degli schiavi. Io capisco gli sforzi di chi ha chiesto la regolarizzazione ma il risultato è stato misero. Servirebbe più coraggio: l’Italia non può pensare che sia un tema possibile da scacciare in eterno, il Paese è già cambiato, io alla manifestazione per George Floyd a Roma ero con i miei 46 anni vecchia in confronto a chi è sceso in piazza. Tu vedi che hai seconde e terze generazioni, più di 50 anni di popolazione transculturale che ha varie origini. Ma ancora tutto questo non si trasforma in quotidianità. E come se ci fossero enormi barriere. Così non vedi maestri, autisti dell’autobus, professori con altra origine: alcuni luoghi del lavoro non sono al passo con i tempi. Anche nell’editoria.

Lei è fiduciosa che la lezione che arriva dagli USA possa avere un impatto importante anche qui?
Secondo me quella americana è una grande rivoluzione culturale perché gli afrodiscendenti sono legati tra loro, è una rete, per noi sono un modello e quello che sta succedendo negli Usa è clamoroso, è una rivoluzione culturale, non è solo rabbia per Floyd ma è un momento che è stato preparato negli ultimi 20 anni. Da loro la cultura è sempre stata forte, nella musica nella letteratura, i premi Pulitzer quest’anno molti erano neri e penso al disco di Beyoncè di alcuni anni fa tutto sull’identità nera. Questo forse spingerà pure noi qui ad avere una riflessione più ampia e profonda, probabilmente ci spingerà a produrre più libri, più musica, più film, più lotte sociali e non solo afrodiscendenti, perché l’Italia ha una migrazione a mosaico, complessa, fatta di tante diversità che vanno dall’Est Europa al Sudamerica.

Già vedo dei talenti per esempio del giornalismo come Angelo Boccato e Adil Mauro che non parlano solo di immigrazione o della loro identità, ma usano il loro sguardo per riflettere sui nodi della società. Adil e Angelo mi fanno ben sperare per il futuro. Ma ecco tutto deve partire da una riflessione anche storica che attraversa il dolore che abbiamo provato, In Italia nel 1979 un uomo somalo, Ahmed Ali Giama, in piazza della Pace a Roma è stato bruciato viva e Giacomo Valent nel 1985 è stato ucciso con 63 coltellate, era il fratello della prima eurodeputata nera Dacia Valent, ho scritto per Feltrinelli su questo (“Politica della violenza”, Feltrinelli Editore). In Brasile c’è stata Marielle Franco e ognuno sta producendo cultura e rivendicazioni partendo dalle proprie ferite, dai propri martiri e chiaramente questo momento rimarrà a lungo e potrà provocare cambiamenti perché i cambiamenti sono sempre prima culturali e poi sociali.

Leggi anche: 1. Quanti contagi possono causare le proteste in Usa? Un virologo ha provato a calcolarlo / 2. Si sposano in mezzo alla protesta per George Floyd a Philadelphia: “È stato ancora più memorabile” /3.  George Floyd, Minneapolis smantella il dipartimento di polizia: “Vogliamo un nuovo modello di sicurezza” /4. Banksy e l’omaggio a George Floyd: “Il razzismo è un problema dei bianchi”

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Di libri, traduzioni e vanità

(Francesco Pacifico su Studio scrive di libri e traduzioni:)

La traduzione ha un ruolo cruciale nella vita di un romanzo. Non è solo per il fatto ovvio che senza traduzione chi non parla quella lingua non può leggerlo: è anche perché i traduttori sono i migliori editor di un libro. Le critiche più sottili e mirate a un mio romanzo le ho ricevute da chi l’ha tradotto. Nessuno legge un libro più attentamente di chi lo traduce. Lo scrittore è troppo legato al testo, e dovrebbe far passare anni prima di poterlo analizzare con la lucidità con cui fa le pulci a un libro altrui. L’editor e il redattore leggeranno il più attentamente possibile, ma non potranno mai essere diabolicamente lenti e problematici come il traduttore, che deve riflettere su ogni giro di frase, descrizione o metafora. I lettori, poi, hanno il diritto di non pensarci troppo e se criticano un romanzo lo fanno soprattutto per il gusto di farlo, non per aiutare lo scrittore a migliorare, quindi le loro critiche saranno spesso inservibili.

Sono arrivato a pensare che un romanzo non è davvero finito finché non è passato nell’ingiusto colino di un’altra lingua. Il che è davvero paradossale e dice molto del fascino ambiguo del romanzo come forma d’arte. Quando leggiamo un romanzo straniero davvero bello, in qualche misura ci dispiace non conoscere il vero sound dell’autore: “Eh ma non l’ho letto nell’originale”. Dal punto di vista del lettore, il vero suono, sapore, colore di una lingua è nell’originale, e il lettore innamorato dei libri conserverà sempre il rimpianto di non parlare il russo. Ma dal punto di vista dell’autore, la traduzione mostra la tenuta del libro. Una fazione delle guerre ideologiche sulla traduzione considera la letteratura più o meno come il cibo: che senso ha provare a cucinare un piatto in un’altra parte del mondo, dove gli ingredienti sono diversi o hanno un altro sapore? Se il romanzo fosse al cento percento paragonabile alla cucina, questa fazione avrebbe assolutamente ragione. (Per principio io non ordino mai un piatto a base di mozzarella fuori dal centro-sud Italia.)

(continua qui)

Di romanzi difficili e “pubblici da coltivare”

Definitivo Giulio Mozzi (acuti  come sempre) su letteratura e pubblico:

E poi, non posso dimenticare il giorno in cui un dirigente di Einaudi (mica di Newton Compton), alla mia disperata domanda: “Ma insomma, che cosa volete che vi proponga?”, mi rispose: “Mi dispiace dirlo, ma vorremmo dei libri non tanto grossi, con un protagonista nel quale ci si possa identificare senza indugi, una vicenda lineare, e alla fine un messaggio di conforto”.

Giulio Mozzi prova a sviscerare il senso dell’ostile nella letteratura in un post che ha aperto una bella discussione e, credetemi, vale la pena leggere. È qui.

Per me, per quel poco che conta, vale la frase di un fraterno amico direttore editoriale di un editore ultimamente in classifica che mi disse (di Mio padre in una scatola da scarpe) che era troppo “complesso” per entrare in classifica. So che sta leggendo Santamamma. Chissà che ne dice.

Il distributore automatico di racconti brevi

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Allora si va dal distributore e si seleziona la storia. Si può scegliere la lunghezza sulla base del tempo di attesa: due, tre o cinque minuti? Quella da tre minuti, ad esempio, è un foglietto largo otto centimetri e lungo 60, come fosse un enorme scontrino. Quello da cinque è, come è logico, quasi il doppio. A fornirle ci pensa una casa editrice startup, Short Edition.

“Ci abbiamo pensato la prima volta di frone a un distributore di barrette di cioccolato e di bibite. Si può fare la stessa cosa con un po’ di letteratura popolare, per occupare i tempi morti”, ha detto Christophe Sibieude, il confondatore e presidente della startup.

La notizia è qui.

– Vorrebbe far parte dell’Allegra Compagnia?

Da un po’ di tempo Bosmans ripensava a certi episodi della sua giovinezza, episodi incoerenti, tronchi, visi senza nome, incontri fugaci. Tutto ciò apparteneva a un lontano passato, ma poiché quelle brevi sequenze non erano legate al resto della sua vita, esse rimanevano in sospeso, in un eterno presente. Non avrebbe mai smesso di farsi domande in proposito, e non avrebbe mai avuto risposte. Per lui quei brandelli sarebbero stati sempre enigmatici. Aveva cominciato a compilare un elenco cercando comunque di individuare dei punti di riferimento: una data, un luogo preciso, un cognome con un’ortografia incerta. Aveva comperato un taccuino moleskine nero che teneva nella tasca interna della giacca, cosa che gli permetteva di scrivere appunti in qualunque momento della giornata, ogni volta che uno dei ricordi intermittenti gli attraversava la mente. Aveva la sensazione di dedicarsi a un rompicapo. Tuttavia, man mano che risaliva il corso del tempo, a volte provava un rimorso: perché aveva scelto quella strada e non un’altra? Perché aveva lasciato che quel viso o quella figura con in testa una strana toque di pelliccia e che teneva un cagnolino al guinzaglio si perdesse nell’ignoto? Al pensiero di ciò che sarebbe potuto essere e non era stato, veniva colto da una vertigine.

Quei frammenti di ricordi corrispondevano agli anni in cui la tua vita è disseminata di bivi, in cui ti si aprono cosí tante strade da avere l’imbarazzo della scelta. Le parole di cui riempiva il taccuino gli evocavano l’articolo inerente la «materia oscura» che aveva mandato a una rivista di astronomia. Dietro agli avvenimenti precisi e ai visi familiari avvertiva tutto ciò che era diventato materia oscura: brevi incontri, appuntamenti mancati, lettere perdute, nomi e numeri di telefono scritti su una vecchia agenda che non ricordi piú, e uomini e donne che hai incrociato senza nemmeno saperlo. Come in astronomia, la materia oscura era piú vasta rispetto alla parte visibile della tua vita. Era infinita. E lui registrava sul taccuino qualche debole scintillio in fondo all’oscurità. Scintillii tanto deboli che chiudeva gli occhi e si concentrava alla ricerca di un dettaglio evocatore che gli permettesse di ricostruire l’insieme, ma l’insieme non c’era, solo frammenti, polvere di stelle. Avrebbe voluto tuffarsi nella materia oscura, riannodare uno a uno i fili spezzati, sí, ritornare indietro per trattenere le ombre e saperne qualcosa di piú. Impossibile. Allora non restava che ritrovare i cognomi. O anche i nomi. Servivano da calamita. Facevano rinascere impressioni vaghe difficili da chiarire. Chissà se appartenevano al sogno o alla realtà?

Mérovée. Un cognome o un soprannome? Non bisognava concentrarsi troppo su quel punto, per paura che lo scintillio si spegnesse una volta per tutte. Era già tanto averlo segnato sul taccuino. Mérovée. Fare finta di pensare a qualcos’altro era l’unico modo perché il ricordo si precisasse da solo, spontaneamente, senza forzarlo. Mérovée.

Camminava lungo l’avenue de l’Opéra, verso le sette di sera. Chissà se era quella l’ora, quello il quartiere vicino ai Grands Boulevards e alla Bourse? Adesso gli appariva il viso di Mérovée. Un ragazzo con i capelli biondi e ricci che indossava un gilet. Lo vedeva persino vestito in livrea – uno di quei portieri all’entrata dei ristoranti o alla reception dei grandi alberghi, con un’aria da bambino invecchiato precocemente. Anche lui, Mérovée, aveva il viso rugoso nonostante la giovane età. Pare che ci si dimentichi le voci. Eppure sentiva ancora il timbro della sua voce – un timbro metallico, un tono prezioso per pronunciare insolenze come quelle di un Gavroche o di un dandy. E poi, di colpo, una risata da vecchio. Era dalla parti della Bourse, verso le sette di sera, all’uscita dal lavoro. Gli impiegati defluivano in gruppi compatti ed erano cosí numerosi da spingerti sul marciapiede e trascinarti nel flusso. Quel Mérovée e altre due o tre persone dello stesso gruppo uscivano dall’edificio. Un ragazzone con la pelle bianca, inseparabile da Mérovée, beveva le sue parole con aria impaurita e insieme ammirata. Un biondo con il viso ossuto portava degli occhiali scuri e un grosso anello al dito, e in genere se ne stava in silenzio. Il piú vecchio doveva avere circa trentacinque anni. Nei ricordi di Bosmans, il suo viso era ancora piú nitido di quello di Mérovée, un viso appesantito con un naso corto che, sotto i capelli bruni schiacciati all’indietro, gli dava un’aria da bouledogue. Non sorrideva mai e si dimostrava molto autoritario. A Bosmans era sembrato di capire che fosse il loro capoufficio. Parlava in tono severo, come se fosse deputato alla loro educazione, e gli altri lo ascoltavano da bravi alunni. Solo ogni tanto Mérovée si permetteva un commento insolente. Gli altri membri del gruppo, Bosmans non se li ricordava. Ombre. Il disagio, che quel nome, Mérovée, gli causava, lo aveva provato di nuovo quando gli erano tornate alla mente due parole: «L’Allegra Compagnia».

Una sera in cui Bosmans aspettava come al solito Margaret Le Coz davanti all’edificio, Mérovée, il capoufficio e il biondo con gli occhiali scuri erano usciti per primi e si erano diretti verso di lui. Il capoufficio gli aveva chiesto a bruciapelo:

– Vorrebbe far parte dell’Allegra Compagnia?

E Mérovée aveva fatto la sua risata da vecchio. Bosmans non sapeva cosa rispondere. L’Allegra Compagnia? L’altro, con il viso sempre severo, lo sguardo duro, gli aveva detto: – Siamo noi l’Allegra Compagnia, – e Bosmans aveva considerato la cosa piuttosto comica per via del tono lugubre che lui aveva assunto. Ma guardandoli bene, tutti e tre, quella sera se li era immaginati lungo i boulevard, con grossi bastoni in mano a colpire ogni tanto un passante di sorpresa. E, ogni volta, si sarebbe udita la risata stridula di Mérovée. Aveva detto loro:

– Per quanto riguarda l’Allegra Compagnia… lasciatemi un po’ di tempo per pensare.

Gli altri parevano delusi. In fondo li aveva conosciuti da poco. Era rimasto da solo con loro non piú di cinque o sei volte. Lavoravano nello stesso ufficio di Margaret Le Coz ed era stata lei a presentarglieli. Il bruno con la faccia da bouledogue era il suo superiore e Margaret doveva dimostrarsi gentile con lui. Un sabato pomeriggio li aveva incontrati sul boulevard des Capucines, Mérovée, il capoufficio e il biondo con gli occhiali scuri. Uscivano da una palestra. Mérovée aveva insistito perché andasse con loro a farsi «un bicchiere e un macaron». Si era ritrovato sull’altro lato del boulevard seduto a un tavolino della sala da tè La Marquise de Sévigné. Mérovée sembrava entusiasta di averli portati in quel locale. Si rivolgeva a una delle cameriere come un habitué e ordinava con voce perentoria «tè e macaron». Gli altri due lo consideravano con una certa indulgenza, cosa che da parte del capoufficio, solitamente cosí severo, aveva stupito Bosmans.

– Allora per la nostra Allegra Compagnia… ha preso una decisione?

Mérovée aveva rivolto la domanda a Bosmans con un tono asciutto e questi cercava una scusa per alzarsi da tavola. Dicendo loro, per esempio, che doveva andare a telefonare. Li avrebbe piantati in asso. Ma pensava a Margaret Le Coz, che era loro collega. Rischiava di incontrarli di nuovo, ogni sera, quando veniva a prenderla.

– Allora, le andrebbe di essere membro della nostra Allegra Compagnia?

Mérovée insisteva, sempre piú aggressivo, come se volesse provocare Bosmans. Sembrava che gli altri due si preparassero a seguire un incontro di boxe, il bruno con la faccia da bouledogue con un lieve sorriso, il biondo impassibile dietro gli occhiali scuri.

– Sa, – aveva dichiarato Bosmans con voce calma, – fin dai tempi del collegio e del servizio militare non mi piacciono molto le bande.

Mérovée, sconcertato dalla risposta, aveva fatto la sua risata da vecchio. Avevano parlato d’altro. Il capoufficio, con voce grave, aveva spiegato a Bosmans che frequentavano la palestra due volte a settimana. Praticavano diverse discipline, fra cui la boxe francese e il judo. E c’era perfino una sala d’armi con un professore di scherma. E di sabato ci si iscriveva per una «corsa campestre» o una «pista» al Bois de Vincennes.

– Dovrebbe venire con noi a fare un po’ di sport…

Bosmans aveva la sensazione che gli stesse dando un ordine.

– Sono sicuro che non fa abbastanza sport…

Lo fissava dritto negli occhi e Bosmans faticava a reggere il suo sguardo.

– Allora verrà con noi a fare un po’ di sport?

La sua facciona da bouledogue era illuminata da un sorriso.

– Va bene un giorno della prossima settimana? La iscrivo in rue Caumartin?

Questa volta Bosmans non sapeva piú cosa rispondere. Sí, quell’insistenza gli ricordava i tempi del collegio e del servizio militare.

– Prima mi aveva detto che non le piacevano le bande, vero? – gli chiese Mérovée con una voce acuta. – Senz’altro preferisce la compagnia di Mademoiselle Le Coz?

Gli altri due parevano a disagio per quel commento. Mérovée continuava a sorridere, tuttavia sembrava temere la reazione di Bosmans.

– Ma sí, è cosí. Ha senz’altro ragione, – aveva risposto piano Bosmans.

Li aveva lasciati sul marciapiede. Si allontanavano nella folla, il capoufficio e il biondo con gli occhiali scuri camminavano fianco a fianco. Mérovée leggermente indietro si girava e gli rivolgeva un cenno di addio. E se la memoria lo ingannasse? Forse era un’altra sera, alle sette davanti agli uffici, quando aspettava l’uscita di Margaret Le Coz.

Qualche anno dopo, verso le due di notte, attraversava in taxi l’incrocio fra rue du Colisée e avenue Franklin Roosevelt. Il tassista si fermò al semaforo. Proprio di fronte, sul bordo del marciapiede, c’era una persona immobile, rigidissima, vestita con una mantella nera, i piedi nudi in un paio di sandali alla schiava. Bosmans riconobbe Mérovée. Il viso era smagrito, i capelli tagliati corti. Stava lí, di sentinella, e al passaggio delle rare automobili abbozzava ogni volta un sorriso. O meglio un rictus. Sembrava che battesse il marciapiede per i clienti d’oltretomba. Era una notte di gennaio particolarmente fredda. Bosmans voleva raggiungerlo, parlargli, ma pensò che l’altro non lo avrebbe riconosciuto. Lo vedeva ancora attraverso il finestrino posteriore, finché l’automobile svoltò alla rotatoria. Non poteva staccare gli occhi da quella figura immobile in mantella nera, e di colpo si ricordò il ragazzone con la pelle bianca che accompagnava spesso Mérovée e sembrava ammirarlo tanto. Che fine aveva fatto?

Di fantasmi simili ne aveva decine e decine. Impossibile attribuire un nome alla maggioranza di essi. Allora si accontentava di scrivere una vaga indicazione sul taccuino. La ragazza bruna con la cicatrice che si trovava ogni giorno alla stessa ora sulla linea di metrò Porte-d’Orléans/Porte-de- Clignancourt… Il piú delle volte era una via, una stazione del metrò, un caffè ad aiutarli a riemergere dal passato. Ricordava la barbona in gabardine, la camminata di una ex modella che aveva incrociato a piú riprese in diversi quartieri: rue du Cherche- Midi, rue de l’Alboni, rue Corvisart…

Si era stupito che tra i milioni di abitanti presenti in una grande città come Parigi, ci si potesse imbattere nella stessa persona, a distanza di tanto tempo, e ogni volta in un luogo molto lontano dal precedente. Aveva chiesto un parere a un amico che faceva calcoli probabilistici, per giocare alle corse, consultando i numeri del giornale «Paris Turf» degli ultimi venti anni. No, non c’era nessuna spiegazione. Allora Bosmans aveva pensato che il destino a volte insiste. Incontri due, tre volte la stessa persona. E, se non le rivolgi la parola, allora peggio per te.

 [L’orizzonte, Einaudi, 2010 di Patrick Modiano, premio Nobel per la Letteratura del 2014 (tradotto da Emmanuelle Caillat)]