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mafia

Buonisti? Siamo molto più cattivi di voi

Il ministro dell’Inferno dice che è ora di smetterla con gli scippi, le ruberie e le rapine dei negri.

Ha ragione. Anzi, peggio: noi buonisti siamo contro le ruberie, gli scippi e le rapine dei neri, dei bianchi, dei gialli, dei grigi, dei verdi e anche dei viola, nel caso in cui si palesino. Noi siamo per la giustizia e la certezza della pena per tutti gli extracomunitari ma anche per i comunitari. Non sopportiamo quelli che spennano i piccioni ai semafori ma se proprio dobbiamo scegliere preferiamo indignarci (ma tanto, proprio tanto, come piace ai cattivisti) contro un presidente della Lombardia come Roberto Formigoni che si professava seguace di Dio mentre accumulava almeno 5 milioni di euro (secondo la condanna in primo grado) oppure i 49 milioni di euro che mancano nei bilanci della Lega oppure (perché noi buonisti non guardiamo in faccia nessuno) lo scandalo di Banca Etruria e MPS.

Dice il ministro dell’Inferno che bisogna finirla con la mafia dietro agli sbarchi.

Dai. Sì. Ti diamo ragione. Magari faccia almeno la fatica di dimostrarlo ma se dovesse accadere siamo d’accordo con lui. Però noi buonisti abbiamo fiele da vendere, anche se ci dipingono come tonti, e ci piacerebbe vedere debellata una volta per tutte anche Cosa Nostra e ance la Camorra e anche la ‘Ndrangheta e anche la Sacra Corona Unita. Tutti. Applichiamo il socialismo della pena. E ci piacerebbe sapere se qualche scafista nella storia d’Italia abbia mai avuto occasione di firmare un patto o sussurrare all’orecchio di qualche pezzo di governo, com’è accaduto a Totò Riina. Ci piacerebbe occuparcene secondo una scala di priorità, diciamo. A meno che gli scafisti abbiano sconfitto i corleonesi e noi non ce ne siamo accorti.

Dice il ministro che vorrebbe essere prefetto di ferro che bisogna smetterla con gli islamici che sgozzano i capretti.

Questo, davvero, ci mette in difficoltà. Ma noi buonisti siamo per il rispetto della legge quindi se viene fatta la legge contro il dissanguamento siamo pronti ad arrestare tutti quelli che grigliano salamelle d’estate o agnelli a Pasqua. Non avremo pietà, promesso.

Dice il ministro dell’Inferno che bisogna smetterla con questi negri che stuprano.

Vero, bene, bravo, bis. Facciamo che puniamo gli stupratori, tutti, ma proprio tutti tutti, e i pedofili, tutti. Bianchi, neri, profughi, commercialisti, avvocati, gialli, produttori televisivi, registi cinematografici. Lui vi promette di arrestare tutti gli stupratori neri. Noi vorremo fermare tutti gli stupratori. Che dite? Siamo più cattivi noi.

Noi buonisti siamo molto più cattivi dei fascistelli del nuovo millennio: quelli scelgono di prendersela con un gruppo cromatico di cattivi e invece noi vorremmo giustizia con tutti, di tutti i colori. Mica per niente indossiamo l’arcobaleno. I difensori della patria dicono che bisogna onorare il nostro Paese e noi siamo d’accordo, solo che il nostro Paese è largo come tutto il mondo e proviamo una certa compassione per chi si preoccupa solo del proprio orto. C’è una differenza sostanziale, è vero: quelli rassicurano e presumibilmente possono farsi votare dai delinquenti bianchi, cattolici e italiani. A noi stanno sulle palle anche quelli. Non siamo razzisti, appunto: l’unica razza è quelli dei furbi e dei delinquenti. Quelli non li riusciamo a sopportare.

Da chi vi fareste difendere, senza scheletri nell’armadio, senza avere qualcosa da nascondere?

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/08/31/buonisti-siamo-molto-piu-cattivi-di-voi/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Un fiore di nome Rita

Forse di questi tempi in cui l’antimafia è diventata orpello o campo di scontro politico non ci renderemo conto subito di quanto la sua morte sia una perdita grave e quanto ci mancherà il suo sguardo sul presente. In fondo, se ci pensate, l’antimafia di Rita è sempre stata così lontana dall’esibizionismo degli uomini forti e dalla feroce sete di vendetta che ultimamente qualcuno può avere pensato di averla messa fuori gioco.
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Nominala invano: la mafia secondo Salvini

Alla fine gli è toccato scendere a Foggia. Dodici braccianti morti (sedici in pochi giorni) sono troppi anche per lui che vorrebbe per decreto cancellare i negri quando sono vittime e ripopolare invece gli stranieri delinquenti senza i quali non saprebbe come esistere. Così il ministro dell’inferno Matteo Salvini ha impegnato tutta la sua propaganda che riesce a mungere per invertire la realtà a proprio uso e consumo ma la sua conferenza stampa è un perfetto esempio dell’ignoranza con cui si approccia al fenomeno mafioso (come a molti altri) da perfetto piazzista.

Per sconfiggere la mafia foggiana, dice il ministro, svuoterà i ghetti poiché ancora una volta gli viene comodo convincerci che un problema si cancelli intervenendo sulle vittime piuttosto che sui carnefici. Secondo Salvini, in sostanza, nel Paese che da sempre ha le mafie inserite nei più alti livelli della politica e dell’imprenditoria il problema sarebbero i braccianti. Probabilmente Salvini pensa che i boss mafiosi (prendete quello che vi ispira di più: il super boss Matteo Messina Denaro o per restare in zona  i Libergolis di Monte S. Angelo, gli Alfieri e i Primosa, i Romito di Manfredonia e le famiglie dei Tarantino e dei Ciavarella di San Nicandro Garganico solo per dire alcuni) si occupino della raccolta dei pomodori come attività principale per accumulare ricchezze. Nel Paese di Andreotti, di Berlusconi tramite Dell’Utri, di Cosentino e dei suoi rapporti con i casalesi, il ministro ha trovato la formula magica per sconfiggere la mafia: svuotare i ghetti. Poi probabilmente proporrà di chiudere in casa le vecchiette per debellare gli scippi agli anziani.

La mafia secondo Salvini è un’entità che gli hanno raccontato da bambino, un uomo nero che basta chiudere gli occhi e pensare a qualcosa di bello per scacciarla via e un fenomeno che interessa la manovalanza piuttosto che le dirigenze. Non contano niente gli imprenditori che preferiscono la mafia allo Stato per non doversi fare carico dei diritti dei lavoratori. Non contano nulla gli ipermercati che la mafia costruisce (e talvolta gestisce) per ripulire il denaro. Non gli interessa, no. Forte con i deboli e debole con i forti.

E invece ha ragione Di Maio: nel foggiano (come in molte altre zone d’Italia) bisognerebbe riuscire a far rispettare la legge. E indovinate un po’ chi è il ministro preposto al rispetto della legge? Sì, lui, Salvini.

Buon mercoledì.

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“Ecco cosa succede a Vittoria, il mix perfetto di mafia e politica” (di Paolo Borrometi)

(un articolo di Paolo Borrometi sul recente scioglimento per mafia di Vittoria, fonte)

Vittoria è la nona città per popolazione della Sicilia e ospita il Mercato ortofrutticolo più importante del Sud Italia, il secondo d’Italia. Una polveriera, l’ho più volte definita. Baricentrica per molteplici interessi che abbracciano l’intero Paese.

Da qui, da questo splendido lembo di terra, vengono immesse nella filiera nazionale frutta e verdura che poi arrivano sulle nostre tavole, tramite il “triangolo dell’ortofrutta” dei mercati, Milano, Fondi e Vittoria.

Grazie a questa “triangolazione” arriva un pomodoro ciliegino, una melanzana o un frutto, sulla tavola di un milanese, di un veneto, di un romano. Indistintamente.

Provengono dal lavoro e dal sudore della fronte di imprenditori e di braccianti agricoli che, per la stragrande maggioranza, sono onesti lavoratori, ma la contaminazione mafiosa inizia dalla base, sin dalla raccolta, con i caporali.

Il patto che reggeva la pax mafiosa

Le mafie fanno “squadra” e non si fanno la guerra. Così nel ragusano – ed a Vittoria in particolare – si è passati da centinaia di morti ammazzati negli anni novanta, agli accordi di ferro dei nostri anni. Sono diventate una vera e propria holding: stidda e cosa nostra si dividono gli affari locali, la ‘ndrangheta gestisce la cocaina e la camorra (sarebbe più giusto parlare dei casalesi) gestiscono i trasporti (come dimostrano le recenti operazioni di polizia.

L’attenzione delle istituzioni per questo territorio è stata ad “ondate”, così si è passati dal negazionismo o, ancor peggio, dal riduzionismo, fino alla grande attenzione a seguito della strage di San Basilio (2 gennaio 1999). Poi, passati quegli anni, nuovamente poco o nulla. Negli ultimi tre anni, dopo le condanne a morte dei clan vittoriesi nei miei confronti, una nuova ondata di arresti. Ogni operazione aveva sempre come protagonisti i mafiosi inseriti fra la filiera del mercato e la politica, un bubbone che tardava ad esplodere.

La pace viene rotta. Dalla Dia

Tutto cambia nel bel mezzo delle ultime elezioni Amministrative del 2017 quando, dopo il primo turno e prima del ballottaggio, la Finanza di Catania irrompe nella tranquillità del ragusano. Ad essere interessati dagli avvisi di garanzia l’ex sindaco Giuseppe Nicosia, il fratello Fabio (già consigliere provinciale e primo degli eletti al Comune), i due candidati alla carica di primo cittadino, Francesco Aiello (che poi verrà archiviato dalle accuse) e l’attuale sindaco, Giovanni Moscato. Oltre a loro i boss Giovambattista Puccio e Venerando Lauretta, entrambi già condannati per associazione mafiosa, e due pluripregiudicati considerati “vicini al clan” dagli inquirenti.

I pentiti raccontano: c’è un accordo con la politica

Dal lavoro dei finanzieri, per delega della Distrettuale Antimafia di Catania, è emerso con chiarezza l’intreccio affaristico-politico-mafioso. “Ha condizionato e orientato le scelte elettorali anche prima delle elezioni amministrative del 2016”. Si leggeva nel decreto del Giudice delle Indagini Preliminari. A suffragare il quadro, le parole di alcuni collaboratori di giustizia.

I fratelli Nicosia avrebbero ricevuto a Vittoria il sostegno elettorale della “Stidda” sia nelle amministrative del 2006 e 2011, sia nelle regionali e nazionali del 2008 e 2012. Il convogliamento dei voti, secondo quanto venne accertato dalle indagini, sarebbe stato ricompensato con l’assegnazione di appalti e posti di lavoro. Soprattutto negli affari della nettezza urbana e nella filiera del Mercato.

A volte sbagliano. Ma avviene di rado

Un “patto scellerato”. Così che venne definito dagli inquirenti quello con la politica. Mafia che, negli ultimi anni, ha sempre favorito le elezioni dei diversi candidati: prima con Giambattista Ventura e Venerando Lauretta (i due reggenti del clan che mi volevano morto e per questo condannati), poi con Giambattista Puccio (detto “Puccio u ballarinu”). In elezioni in cui venivano candidati proprio i pregiudicati, come il caso di Raffaele Giunta che si ritirò dall’ultima contesa per il consiglio comunale dopo una mia inchiesta giornalistica. Eppure nelle intercettazioni Giunta, nonostante il ritiro, tranquillizzava l’ex sindaco che non avrebbero perso i suoi voti: “per votare a Nicosia io gli do anche il culo… e te lo dico ora… e lo dico sempre”. E Nicosia, indirizzandolo verso il fratello candidato in una lista civica, gli spiegava “dillo che devono votare Nuove idee, no Partito democratico… a volte sbagliano”. A volte sbagliavano, appunto. Ma non sbagliarono.

Il primo sindaco di destra

Vinse il primo sindaco di destra della storia della città, Giovanni Moscato, che per telefono rassicurava gli “amici” dei Nicosia. “Tu gli puoi dire ai picciotti che in questo momento votare me non è tradire i Nicosia è solo stare tranquilli con la famiglia punto e basta”. Con la famiglia, appunto.

Ed infatti i Nicosia, secondo l’accusa, “avrebbero appoggiato Moscato in virtù di un accordo politico con lo stesso, al fine di mantenere la propria egemonia sulle decisioni amministrative”.

Lo scambio politico-mafioso

Tutto fino a giugno di quest’anno quando arrivò l’avviso di conclusione indagine per gli indagati: confermata l’ipotesi di reato relativa allo scambio elettorale politico-mafioso per tre degli indagati fra cui il fratello dell’ex sindaco della città.

Per gli altri politici coinvolti, ovvero l’ex sindaco Nicosia, l’attuale sindaco Giovanni Moscato e due dirigenti del Pd locale, furono contestati episodi di corruzione elettorale. E con l’avviso di conclusione indagini si concluse anche il lavoro della commissione d’accesso al Comune che, nella relazione finale, chiese lo scioglimento per l’ente.

Oggi arriva una risposta

Troppo forti le collusioni con politici che avevano fatto patti con il diavolo, cioè i clan mafiosi. Quei politici che spesso hanno attaccato il lavoro giornalistico di chi cercava di fare solo il proprio dovere. Troppo spesso in solitaria.

Si, perché la mafia in quella zona della Sicilia, la più ricca, non esiste. Quindi come può fare accordi con la politica?
Una domanda che trova la risposta oggi, con la notizia dello scioglimento del Comune, “in ragione delle riscontrate ingerenze da parte della criminalità organizzata”. Così come recita il comunicato stampa ufficiale del Consiglio dei Ministri.

Le 13 domande di Fiammetta Borsellino

Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo, ha scritto a Repubblica 13 domande sul depistaggio che avvenne dopo la strage di via D’Amelio. E sono interrogativi imprescindibili per fare luce su un pezzo d’Italia, oltre che sull’omicidio. Forse, prima dei festeggiamenti, sarebbe il caso di trovare le risposte.

Eccole qui:

Sono passati 26 anni dalla morte di mio padre, Paolo Borsellino, ucciso a Palermo insieme ai poliziotti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. E, ancora, aspettiamo delle risposte da uomini delle istituzioni e non solo. Ci sono domande – le domande che io e miei fratelli Manfredi e Lucia non smetteremo di ripetere – che non possono essere rimosse dall’indifferenza o da colpevoli disattenzioni. Domande su un depistaggio iniziato nel 1992, ordito da vertici investigativi ed accettato da schiere di giudici.

1. Perché le autorità locali e nazionali preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra?

2. Perché per una strage di così ampia portata fu prescelta una procura composta da magistrati che non avevano competenze in ambito di mafia? L’ufficio era composto dal procuratore capo Giovanni Tinebra, dai sostituti Carmelo Petralia, Annamaria Palma (dal luglio 1994) e Nino Di Matteo (dal novembre ’94).

3. Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm allora parlamentare Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?

4. Perché i pm di Caltanissetta non ritennero mai di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota del Ros sul “tritolo arrivato in città” e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino?

5. Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pm di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire?

6. Cosa c’è ancora negli archivi del vecchio Sisde, il servizio segreto, sul falso pentito Scarantino (indicato dall’intelligence come vicino ad esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?

7. Perché i pm di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima fra il falso pentito Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano? Il confronto fu depositato due anni più tardi, nel 1997, solo dopo una battaglia dei difensori degli imputati.

8. Perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?

9. Perché la pm Ilda Boccassini (che partecipò alle prime indagini, fra il giugno e l’ottobre 1994), firmataria insieme al pm Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?

10. Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i pm non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo?

11. Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?

12. Il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i pm Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo?

13. Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione, ma al gruppo diretto da La Barbera, senza alcuna richiesta e autorizzazione da parte della magistratura competente?

E intanto i Casamonica casamonicano

Come racconta la brava Floriana Bulfon su Repubblica il ritorno a casa del capo clan dei Casamonica Giuseppe (che ha scontato una condanna per traffico di cocaina mica in carcere ma in una più accogliente comunità di recupero in controtendenza con i piccoli spacciatori che invece il carcere se lo fanno per davvero) ha segnato nel giro di poche ore la piena ripresa in possesso della sua zone, Romanina, istituendo una zona franca in cui è impossibile accedere.

Scrive Bulfon: «Davanti alla villa di Giuseppe Casamonica tre giovani con i muscoli in bella vista controllano ogni movimento. Se si prova a domandare, una donna interviene e blocca tutti con lo sguardo. È Liliana, la sorella più grande di Giuseppe. “Non te lo posso dire se è qui, capisci?”, si fa incontro quasi gentile. Lei – arrestata per aver segregato l’ex cognata minacciando di sfregiarla con l’acido e di portarle via i piccoli – gira le spalle ed entra nella casa del dirimpettaio. Sul muro c’è un cartello attaccato con lo scotch: “Ottavio Spada suonare qui”».

Si potrebbe dire che hanno chiuso i porti nel bel mezzo della capitale d’Italia dal loro vicolo Porta Furba fino al Roxy Bar, quello diventato tristemente famoso (ovviamente non più di qualche ora) per il pestaggio che Antonino Casamonica ha inflitto al proprietario come esibizione del proprio potere.

Uno degli aspetti più svilenti del potere (continuerò a scriverlo, imperterrito) è lo sfoggio di forza contro i deboli a cui non corrisponde mai la stessa intensità con i forti. Forse, piuttosto che lanciarsi in bagni in piscina dentro ville già sequestrate da altri o lanciarsi nella promessa di prendere a bastonate i mafiosi sarebbe il caso di usare il pugno di ferro evitando di regalare pezzi di territorio (e di economia) ai clan che spadroneggiano con la sicumera di uno scafista. E lo fanno qui, senza bisogno di coste, in mezzo alla gente.

Eppure la Storia ci insegna che accade sempre così: chi sfoggia i muscoli per racimolare consenso balbetta di fronte alle prepotenze a cui non bastano gli annunci per essere debellate. La guerra alla mafia si fa con l’amministrazione, la politica, la costruzione di reti sociali, la riappropriazione della fiducia dei territori, un’efficace protezione dei denuncianti, la rivitalizzazione del tessuto urbano e della coscienza pubblica e con un’opera culturale di etica condivisa. Troppo, davvero troppo, per stare semplicemente dentro un tuffo o dentro un tweet.

Buon martedì.

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Processo Aemilia, ecco il ruolo dell’ex senatore Carlo Giovanardi: “Pressioni su ufficiali dei carabinieri”

(Un altro miracolato: Giovanardi. Dal processo Aemilia sta emergendo un mare di immondizia eppure sembra non interessare a nessuno)

L’ex senatore della Repubblica Carlo Giovanardi, il Capo di Gabinetto della Prefettura di Modena Mario Ventura, il funzionario dell’Agenzia delle DoganeGiuseppe Marco De Stavola. Sono uomini dello Stato, il primo anche membro della commissione parlamentare antimafia all’epoca dei fatti, che la Procura di Bologna mette sotto accusa per aver cercato nel 2014, con mezzi illeciti, di ottenere la reiscrizione alla White List della Bianchini Costruzioni srl, impresa edile di San Felice sul Panaro colpita da interdittiva antimafia del Prefetto nel giugno 2013.

Sono accusati in concorso tra di loro e assieme ad altre cinque persone (compresi tre membri della famiglia Bianchini già imputati nel processo Aemilia) di minacce a corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato e di rivelazione di segreti d’ufficio, con le aggravanti dell’abuso di potere, del metodo mafioso e della continuità nel reato.

Per tutti loro i procuratori Marco Mescolini e Beatrice Ronchi hanno chiesto in giugno il rinvio a giudizio al Gip di Bologna, con la sola esclusione dell’ex senatore Giovanardi, allora esponente del Nuovo Centrodestra, la cui posizione è processualmente sospesa in attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale sull’utilizzabilità di alcune conversazioni telefoniche. Ma è proprio l’ex ministro del governo Berlusconi, secondo le indagini della Procura, il perno politico su cui ruotava il tentativo degli imprenditori edili Bianchini (Augusto, la moglie Bruna Braga e il figlio Alessandro) di restare nel grasso mercato degli appalti pubblici post terremoto, nonostante le accertate relazioni con esponenti della famiglia di ‘ndrangheta Grande Aracri per false fatturazioni e prestazioni di mano d’opera.

Il muro da incrinare era rappresentato dal GIRER, il Gruppo Interforze costituito all’indomani delle violente scosse del 2012 in Pianura Padana. Aveva l’obbiettivo di contrastare la criminalità organizzata nei suoi prevedibili tentativi di assalto agli appalti della ricostruzione e ne facevano parte esperti della Direzione Antimafia, di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.

Fu il GIRER a spingere il Prefetto di Modena Benedetto Basile a firmare l’interdittiva contro la Bianchini Costruzioni srl e ad esprime parere contrario, quando l’impresa finì in liquidazione, all’ammissione alla White List della neonata ditta individuale IOS del figlio di Augusto, Alessandro Bianchini, ritenendola in continuità con la precedente. Fu contro il GIRER, in particolare contro il suo pilastro ritenuto più ostico, i Carabinieri, che secondo le indagini della Direzione Antimafia si scagliò Giovanardi.

Dice la richiesta di rinvio a giudizio che il 17 ottobre del 2014 il senatore chiese ed ottenne un incontro in un locale pubblico con il colonnello Stefano Savo, Comandante Provinciale, e con il tenente colonnello Domenico Cristaldi, Comandante del Reparto Operativo, “nel corso del quale apertamente minacciava i due ufficiali e ne offendeva il decoro” chiedendo i motivi della loro posizione contro i Bianchini e “chiaramente pretendendo un cambio della predetta posizione”.

I due non furono gli unici né i primi a subire le sue ire: è lo stesso Giovanardi a raccontare ad Augusto e Alessandro Bianchini (che ha la singolare abitudine di riprendere di nascosto le conversazioni) di avere parlato con il Prefetto e il Questore, definendo il colloquio “una rissa”. Giovanardi non sa di essere ripreso e richiama le proprie frasi più ad effetto: “Gli ho detto: à la guerre comme à la guerre. Io su questa roba faccio tutta una interrogazione con tutti i passaggi, eh? Con Bianchini… io se fossi in lui… verrei qua con la rivoltella e vi ammazzo tutti… vi rendete conto che state facendo delle robe… folli!… folli!!”

L’attività di Giovanardi a sostegno dei Bianchini è intensa e accalorata. Il senatore presenta due interpellanze parlamentari, la prima il 22 luglio 2014 e la seconda il 21 ottobre. Conosce in anticipo movimenti e provvedimenti delle Forze dell’Ordine grazie al lavoro del Capo di Gabinetto della Prefettura e del funzionario dell’Agenzia delle Dogane. Partecipa con i Bianchini a una conferenza stampa che attacca il ricorso alle interdittive e contatta più volte le più alte autorità delle Forze di Polizia, pur senza titoli o mandato. Degenerando secondo la Direzione Distrettuale Antimafia in “pressioni e minacce anche esplicite nei confronti dei singoli componenti del Gruppo Interforze”, in “pressioni e dirette minacce al Prefetto pro-tempore di Modena Michele Di Bari, aggredendolo verbalmente”, e nelle “minacce dirette e gravi ai due Ufficiali Superiori dell’Arma dei Carabinieri”. Dice il ColonnelloStefano Savo richiamando il colloquio voluto da Giovanardi: “Il senatore ha detto espressamente che qualcuno avrebbe dovuto rispondere dei danni derivanti da questi interventi, facendo il parallelo con il tema della responsabilità dei magistrati e dicendo che era sua intenzione fare degli esposti alla magistratura. Ho avuto la percezione che potesse riferirsi direttamente anche alla mia persona”. Aggiunge il Tenente Colonnello Domenico Cristaldi: “Il senatore, in una sorta di crescendo, ha detto espressamente di sapere che era l’Arma ad essersi pronunciata in modo negativo in sede del Gruppo Interforze”.

Giovanardi nel suo ufficio il 18 ottobre lo racconta ai Bianchini che riprendono di nascosto anche questo incontro. Ha capito parlando con il Questore, con il Prefetto e con il Comandante del Girer, che non sono loro a porre ostacoli: “Sono i Carabinieri, si capisce benissimo! E con loro ho avuto un’ora e mezzo di discussione kafkiana, perché… è come parlare con il muro”.

Il Prefetto di Modena dott. Michele Di Bari accetta di riconvocare il Gruppo Interforze otto volte tra l’agosto 2014 e il gennaio 2015, pur senza elementi di novità, per valutare la riammissione dei Bianchini alla White List. Gli incontri non hanno esito e il 28 gennaio 2015 arrivano i 117 arresti disposti dalla DDA nell’ambito della operazione Aemilia che portano in galera, provvisoriamente, anche Augusto Bianchini, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La moglie e il figlio finiscono agli arresti domiciliari.

La battaglia di Carlo Giovanardi può concludersi lì, ma i procuratori Mescolini e Ronchi attribuiscono al senatore il commento che si legge sulla stampa locale nell’ottobre 2014 dopo l’ennesimo rigetto della domanda di reiscrizione alla White List della Bianchini srl: “Chi può rimediare a tali ingiustizie? Chi dovrà riparare i danni incalcolabili di tali comportamenti? Non è certo questa l’antimafia che volevano i veri eroi antimafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”. Senza scomodare gli eroi, si attendono il pronunciamento della Corte Costituzionale e la decisione del GIP di Bologna.

(da Il Fatto Quotidiano)

‘A livella: indicare il fango degli altri per sembrare puliti

La nuova via di scampo, la più in voga al momento, per evitare di argomentare una difesa e non essere costretti a prendersi le proprie responsabilità è nel trovare qualcuno di peggio in giro e sperare che la feroce indignazione popolare trovi abbastanza soddisfazione per placarsi. Sta accadendo in queste ore con i cinquanta milioni di euro “spariti” dalla Lega di Salvini (“e allora il Pd?” ormai è diventata una frase buona per tutte le occasioni, come le profezie di Fassino quando c’è da risollevare una serata) ma accade anche ogni volta che qualche politico viene indagato o arrestato e accade ogni volta che si discute delle qualità di qualcuno.

La livella non è più la morte come nella celebre poesia di Totò: è lo schifo. Più schifo riescono a cogliere in giro e più si sentono in diritto di fare schifo, come se l’asticella della dignità e della potabilità delle proprie azioni si abbassasse ogni giorno di qualche centimetro: se c’è gente che chiede di affondare i barconi quelli che si limitano a non piangere i morti in mare si considerano quasi degli umanisti. Se c’è qualcuno che è stato arrestato per mafia quelli che semplicemente sono amici di mafiosi (o ne sono stati per anni alleati di governo) possono addirittura fingersi degli eroi contro la criminalità. Raccontano i grandi evasori fiscali e così le loro piccole corruzioni valgono come un paio di multe per divieto di sosta.

È un’irrefrenabile corsa verso il peggio in cui il sapere o il senso di responsabilità sono diventati un’onta, dove la morale è essere più furbi degli altri riuscendo se possibile a essere peggiori, dove conta avere in tasca la storia di qualcuno meno preferibile di te per considerarsi assolti. E così, rotti gli argini, si sfaldano anche le parole: il ministro degli Interni dichiara di voler prendere a bastonate i mafiosi usando il loro stesso vocabolario, la calunnia è l’unico metodo di critica, l’insinuazione rivenduta come analisi, l’appartenenza è una qualità, la delazione un’arma politica sdoganata e la violenza un’accettabile e legittima difesa.

Una moltitudine di cercatori di fango che insozzano l’ambiente intorno sperando di ricavarne profumo personale. E mentre tutto deperisce l’unica speranza è trovare nuovi e più turpi disperati. Una decrescita infelice che ci rivendono come Rinascimento.

Buon giovedì.

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La “retorica” delle torture in Libia

Non c’è bisogno di andare in Libia. No. Basta visitare la faccia feroce che vomita i denti durante il suo processo  di Osama Matammud, detto “Ismail”, 22 anni al momento del suo arresto a Milano, dove era stato riconosciuto da alcune delle sue vittime, nei pressi della Stazione centrale e se non l’avessero acciuffato per i capelli l’avrebbero vendicato lì, come animali, con le sue vittime che sognavano di diventare aguzzini.

Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini ha detto di lui “non ho mai visto in quarant’anni di carriera un orrore simile”. E la Boccassini è una che in quarant’anni ha attraversato di tutto, scavalcato vittime di mafia diventate poltiglia. Ma un orrore così non l’ha mai visto, dice. Il procuratore di Milano Francesco Greco ha provato anche a dire che forse sarebbe il caso che l’Italia, “mentre fa trattati con i Paesi per la gestione dei flussi migratori”, forse sarebbe il caso che si occupi anche del rispetto dei diritti umani, ha detto il procuratore. Ma non l’ha ascoltato nessuno. Anzi, forse, non l’ha nemmeno sentito nessuno, nemmeno ascoltato. Ismail a casa loro si occupava del centro raccolta migranti di Bani Al Walid, in Libia, in provincia di casa loro. “Ismail si divertiva a picchiarci sempre – racconta uno dei testimoni del processo di cui non si è accorto nessuno – con sbarre di ferro, bastoni, tubi di gomma e calci e pugni. Si accaniva, io più volte l’ho visto con dei tondini di ferro pieni, di quelli che si usano per i lavori di muratura, spaccare le caviglie e i polsi di molte persone”. “A volte accendeva un sacchetto di plastica sopra la schiena, facendo colare la plastica incandescente, altre volte torturava con le scariche elettriche. Io stesso sono stato portato nella ‘stanza delle torture’. Ismail per me aveva trovato una tortura particolare. C’era un punto della stanza dove passava il sole dall’alto dato che questa stanza era in un edificio in parte scoperto. In questo punto della stanza faceva caldissimo. Ismail mi legava mani e piedi dietro la schiena e mi lasciava per ore sdraiato per terra finché mi disidratavo e orinavo addosso”.

Ismail che sceglieva le ragazze, tutte le sere: entrava nello stanzone dove si sta tutti ammassati, nuotando nelle proprie feci, e sceglieva le più carine. Si sentivano le urla, dicono, dalla stanza delle torture. E si sentivano le donne, urlare anche loro, finché lo sfinimento non vinceva. E allora si faceva silenzio tutto intorno, fino alla sera successiva. Ismail che se non arrivavano i soldi allora alla fine i prigionieri diventavano solo un costo, perché tocca mantenerli, perché non avrebbero mai potuto proseguire nel viaggio e dare merda da mangiare comunque costa: Ismail che chi non pagava veniva impiccato e poi morto buttato in mezzo agli altri come un sacco di iuta afflosciato anche se ancora pieno di tendini, come ammonimento a non sgarrare.

La retorica delle torture è quel timpano rotto da cui la condanna a Ismail, che pure si è consumata qui, da noi, a Milano, non è passata: l’ergastolo a Ismail l’avete sentito? Ve ne siete accorti? Ismail è l’opuscolo turistico di casa loro, arrivato fin qui.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/06/26/la-retorica-delle-torture-in-libia/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La ‘ndrangheta e i criminali nella curva del Milan

(il solito bravissimo Davide Milosa per Il Fatto Quotidiano)

Nonostante il campionato sia in vacanza, sulle gradinate dello stadio Giuseppe Meazza tira aria di burrasca. E’, infatti, proprio in queste settimane che si decidono conferme e nuovi ingressi dei gruppi ultras in curva Sud. Un risiko complicato da concordare, in parte, anche con la società Milan. Il settore storico è quello blu (primo e secondo anello). I guai in realtà arrivano dalla parte opposta dello stadio milanese, ovvero il secondo anello verde, occupato dagli ultras dell’Inter, quando gioca la Beneamata. Con i rossoneri in casa, invece, una fetta cospicua è ad appannaggio di un nuovissimo gruppo del tifo organizzato, ovvero i Black devil. E’ su di loro e su un tentativo di espandere la propria egemonia anche nella Sud (primo anello) che da settimane la Digos ha alzato il livello di guardia. Allo stato non vi sono fascicoli aperti o indagati, ma solo un monitoraggio teso a comprendere (e a prevenire) uno scenario che, ancora una volta, mischia pericolosamente dinamiche da stadio con quelle più decisamente criminali con profondi agganci nel milieu mafioso lombardo. Tra gli esponenti di primo piano del gruppo c’è, infatti, Domenico Vottari detto Mimmo. Lui, classe ’69, originario di Melito Porto Salvo, scontati diversi anni di carcere, anche per omicidio (ma non per mafia), è tornato a occuparsi dei suoi affari a Cesate, hinterland a nord di Milano. Diverse le informative dell’autorità giudiziaria che lo collocano in contatto con personaggi di spicco della ‘ndrangheta nel nord Italia.

Allo stadio può contare sul fidato amico Moreno Fuscaldo, anche lui già indagato in alcune inchieste di droga. E su un nutrito gruppo, composto da diversi pregiudicati, anche per rapina. I reati sono diversi. Tra i vari addirittura truffe informatiche a livello internazionale e furti di dati sensibili, triangolando con gruppi criminali russi. Senza contare, ovviamente, i reati da stadio con un bel carnet di Daspo. Qualcuno durato oltre tre anni con divieto di assistere a partite in tutta Europa. Insomma, un gruppo ultras, il cui nucleo fondatore (non certamente tutti gli iscritti), sostengono le forze dell’ordine, assomiglia tanto a una “batteria criminale” e che ora punta a conquistare un posto al sole in curva. Obiettivo, fanno sapere gli investigatori, consigliato direttamente dalla Calabria e avversato da chi nella Sud ci sta da tempo. Fonti confidenziali ritenute molto credibili dalla polizia giudiziaria hanno spiegato che il no, spalleggiato da personaggi vicini alla potente cosca Papalia, è legato anche al fatto che i Black devil contano non più di 50 persone. Il muro contro muro, però, preoccupa. Di certo la composizione di parte dei Black devil è una cosa mai vista, nemmeno ai tempi della scomparsa della Fossa dei leoni (era il 2006) con l’ingresso dei Guerrieri ultras (oggi Curva sud) capitanati da Giancarlo Lombardi detto Sandokan, il quale sarà indagato in un’indagine per riciclaggio con manager già vicini al clan palermitano Fidanzati. Lombardi è anche in rapporti con Loris Grancini, capo dei Viking della Juve, oggi in carcere con pena definitiva a 13 anni per un tentato omicidio. Grancini, come spiegano alcune informative dei carabinieri, è a sua volta in contatto con un importante fiduciario delle cosche Sergi e Papalia, e alla famiglia Lamarmore referenti della ‘ndrangheta a Limbiate e in Lombardia (uno di loro sarà insignito della carica di Mastro generale). Oggi Lombardi bazzica poco lo stadio, “ma resta – spiega un investigatore – ancora il garante della curva”. Al suo posto c’è Luca Lucci. O meglio c’era, perché Toro, questo il suo soprannome, è stato arrestato per spaccio il 4 giugno scorso. Suo fratello Francesco risulta, invece, indagato per tentata estorsione assieme alla moglie. I due sono stati fermati il 29 giugno scorso a Milano dalla Digos. Due anni fa con un piano ben studiato Luca Lucci e compagni si erano presi anche il primo anello blu, andando contro a un gruppo con importanti agganci criminali, rapporti con narcos calabresi della zona di Bareggio e con referenti milanesi legati al boss barese Savinuccio Parisi. A sigillare la vittoria, lo striscione i Nativi di Milano. Adesso, però, altri pretendono spazio.

Torniamo allora a Vottari. Il suo nome compare nell’inchiesta Marcos. Fascicolo antidroga nato su segnalazione della Dea americana. Dalle informative dell’indagine Hermanos, invece, emergono i contatti mafiosi di Mimmo Vottari. Il 13 febbraio 2009 viene controllato dai carabinieri all’interno di un bar. Con lui il fratello Giovanni, ma anche Salvatore Muscatello, nipote dell’omonimo Salvatore, per decenni eminenza grigia delle ‘ndrine al Nord. E poi Pasquale Macrì, già condannato per mafia e vicino al clan Muscatello. Infine il platiota Domenico Agresta, “imparentato con Salvatore Romeo (…) attuale capo bastone della locale di Assago”. Alle comunali del 2009, poi, Vottari, spiegano i carabinieri, si spenderà per portare voti a un candidato che sarà poi eletto sindaco di Senago e a un altro politico che in Calabria frequenta persone “affiliate alla cosca Mancuso”. Entrambi non saranno mai indagati. Scrivono i carabinieri nel 2011: “L’organizzazione criminale promossa (…) dai fratelli Vottari (Domenico e Giovanni, ndr) dedita all’importazione e spaccio di cocaina (…) aveva il controllo del territorio di Cesate (…) e mirava ad assumere anche il controllo del Comune di Senago (…) acquisendo la gestione ed il controllo di attività economiche, procurando per sé e per altri voti in occasione delle consultazioni elettorali del 6 e 7 giugno 2009”.

Questo il profilo di Mimmo Vottari, il quale dopo la politica e gli affari, vuole prendersi lo stadio e il controllo di uno dei gruppi ultras più importanti e storici d’Italia. Per questo, spiegano gli investigatori, ha incontrato Luca Lucci (prima del suo arresto): per discutere l’ingresso al primo anello blu. Richiesta respinta, anche grazie alla presenza di personaggi vicini alla cosca Papalia di Buccinasco. Questa la fotografia che allo stato risulta agli inquirenti. La questione sembra, dunque, risolta. Il timore, però, resta forte. Tanto che ci sono già stati contatti informali per abbassare il livello dello scontro. Alla fine, però, la faida potrebbe diventare un’alleanza, visti i buoni rapporti tra alcuni luogotenenti dei Vottari e i pretoriani della curva Sud.